Con Vincenzo Palmisciano su Giuseppe Storace d’Afflitto

Ospite dei nostri Incontri critici è Vincenzo Palmisciano, professore a tempo indeterminato di Scienze motorie e sportive - Sostegno presso l’IC 43° «Tasso-San Gaetano» di Piscinola (Napoli). Ha pubblicato Biomeccanica della danza e della ginnastica ritmica (Napoli, 1990), vari saggi sulla danza e alcune schede su «Studi secenteschi», tra queste: Un ritrovamento per Domenico Basile e due per Girolamo Fontanella, Corrigenda per la biografia di Giulio Cesare Cortese, Sulla biografia di Giulio Cesare Sorrentino e Sulla biografia dell’incisore Nicolas Perrey (con novità su Orazio Colombo). Dei suoi articoli per l’«Archivio Storico per le Province Napoletane» ricordiamo: Fonti letterarie sulla spallata e sull’intrezzata, due danze popolari di area campana, Per una biografia di Giovan Battista Composto e Novità per il profilo biografico di Andreana, Giovan Battista Basile e Giulio de Grazia.
Vincenzo Palmisciano ha pubblicato, insieme a Sonia Benedetto, Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli, nelle opere di Giuseppe Storace d’Afflitto (Napoli, 2024) e intorno a questo libro volge la nostra intervista.


Come si intrecciano le dinamiche del potere spagnolo con la vicenda amorosa tra donn’Anna Carafa e don Giuseppe Storace d’Afflitto? In che modo il loro amore riflette le tensioni politiche del Seicento?

Giuseppe Storace d’Afflitto era economicamente benestante, ma non ricco al punto da poter progettare un matrimonio con donn’Anna Carafa, principessa di Stigliano, duchessa di Sabbioneta, proprietaria di molti possedimenti feudali, con circa 40.000 vassalli al suo servizio nel solo Regno di Napoli. Tuttavia, la posizione sociale e l’estro artistico gli consentirono di esserne l’amante. Il ducato di Sabbioneta era strategico per il controllo del territorio italiano da parte della Spagna, motivo per cui il re Filippo IV decise e ordinò che la giovane rampolla sposasse un suddito della monarchia spagnola. Le trattative con i diversi pretendenti portarono infine alla scelta di don Ramiro Felipe Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres. Le nozze vennero celebrate a Napoli nel 1636, sulla base di un accordo del 1634, nel quale il re di Spagna legava il suo consenso alla nomina del promesso sposo quale viceré di Napoli e successore del conte di Monterrey. In sostanza, la principessa si era sposata poiché ambiva a diventare viceregina di Napoli.


In che misura la letteratura e la poesia di Storace d’Afflitto possono essere considerate una forma di resistenza contro il potere istituzionale e culturale del suo tempo?


Si può dire che fino all’ultimo, nel Rebuffo alli Spagnuoli del 1648, il poeta conservi l’orientamento antispagnolo, manifestato chiaramente sin dagli esordi del 1636, con la significativa dedica Della Musa lirica al cardinale Antonio Barberini, noto oppositore della monarchia iberica, come suo zio, il papa Urbano VIII. Nel canzoniere De la tiorba a taccone, possiamo classificare in questo senso il sonetto II,2, che punta il dito contro la moda femminile dei ciuffi di capelli posticci e del bizzarro guardinfante, un accessorio tipicamente spagnolo, evolutosi a partire dal verdugale e considerato, presso la corte degli Asburgo di Spagna, quale simbolo della fecondità e della prosperità delle regine, delle loro figlie e delle viceregine assoggettate alla corona ispanica. Il tono accusatorio e denigratorio si ripresenta ai vv. 61-63 e 76-78 del componimento VII,3, dove si prendono di mira gli spagnoli, che hanno la rogna per il sole, e le donne, sedotte dalla voga del guardinfante. Nello scherzo Il monte Posilipo si narrano l’epilogo della dolorosa vicenda dell’autore e tutto il tormento di un amore fedele per la crudele ricompensa ricevuta dalla donna, che ne danneggiò la reputazione con un vile atto, facendo inserire i suoi componimenti nella raccolta Nove cieli del suo amico Girolamo Fontanella, che diventò complice involontario di questo inganno. Appropriatosi indebitamente del lavoro dell’altro, il plagiatore lo pubblicò a suo nome. In presenza di Anna Carafa ci fu una contesa verbale sulla paternità dei componimenti e Giuseppe Storace d’Afflitto stava per prevalere nel conflitto, quando la viceregina lo sospese, rimandandolo all’indomani. Il giorno seguente, la controparte disse che aveva iniziato a poetare da giovane, aggiungendo che così come nel 1638 aveva composto su commissione l’ode «A Santa Caterina martire», allo stesso modo aveva scritto a pagamento gli otto sonetti Della Musa lirica, pubblicati a nome del suo committente, nel 1636. Anna Carafa decise di allontanare Girolamo Fontanella dall’Accademia degli Oziosi e Giuseppe Storace d’Afflitto dalla corte vicereale. Sebbene celati dalle immagini liriche, il tradimento amoroso e l’ignobile gesto vengono denunciati, esponendo la vittima al rischio di ritorsioni. Infatti, sia Elena Aldobrandini che Ramiro Felipe Núñez de Guzmán erano ancora vivi all’epoca della stesura. Il potere voleva asservire la letteratura riducendola a semplice divertimento, ma con Giuseppe Storace d’Afflitto non ci riuscì perché lui creò con “astuzia industriosa”.


Qual è il significato del titolo De la tiorba a taccone e come la metafora musicale esprime il sentimento poetico e personale di Storace d’Afflitto?


Se considerato nell’ottica dell’alterazione dei dati conosciuti, tiorba si può anagrammare come robati, mentre calascione potrebbe essere l’anagramma di cà ne lascio. Nella lingua italiana, taccone significa: “correzione, modifica apportata a un testo” (ma anche “tacco di una scarpa”). Di conseguenza, il titolo potrebbe suggerire l’idea di una raccolta modificata di componimenti rubati.
La Corda terza e la Corda quarta, differentemente dalle altre, non hanno per titolo «DE LA TIORBA A TACCONE DE FELIPPO SGRUTTENDIO DE SCAFATO», ma «DE LO CALASCIONE DE FELIPPO SGRUTTENDIO DE SCAFATO», oltre a ciò, il primo sonetto della Corda quinta include due volte la parola «CALASCIONE». Da queste osservazioni possiamo concludere che viene assegnato un forte valore a entrambi i termini «tiorba» e «calascione». Nel testo De la tiorba a taccone il poeta prende in considerazione due strumenti musicali assimilabili a un liuto a manico lungo: la tiorba a dieci corde e due caviglieri, d’origine fiorentina, suonata soprattutto in chiesa e in teatro, e il calascione a tre corde e un cavigliere, che nel Regno di Napoli era d’uso principalmente popolare e veniva suonato per strada e sulla spiaggia. A mio avviso, questi due strumenti sono armonicamente fusi per produrre insieme un’unica sublime melodia verbale, senza alcun conflitto fra le lingue adottate. I sonetti dell’opera in napoletano sono stati rielaborati (incignati) a partire da quelli precedentemente composti in italiano per Anna Carafa e indebitamente sottratti (parte prima Della Musa lirica e Nove cieli). Ho voluto rispettare la volontà del poeta, per cui nelle prime sei corde del volume i sonetti italiani sono disposti sulle pagine pari, mentre quelli napoletani sulle pagine pari.


Il testo parla di un “lavoro di ricerca sulle fonti archivistiche”. Quali nuove prospettive storiche o letterarie emergono dalla riscoperta delle opere di Storace d’Afflitto e dalla sua biografia?


La dimostrazione della paternità De la tiorba a taccone, da me attribuita a Giuseppe Storace d’Afflitto, è stata veramente ardua, perché ho dovuto prima pubblicare nell’articolo Corrigenda della biografia di Giulio Cesare Cortese l’atto di morte del 1622, e rendere indubbio che i precedenti studiosi avessero considerato i documenti di un suo omonimo, poi nel libro ho ricostruito la biografia e riportato il battesimo del 1605 di Giuseppe Storace d’Afflitto a Sant’Agnello di Napoli e ho evidenziato il lavoro di traduzione, imitazione, studio e di innovazione da lui svolto su opere di poeti pubblicate dopo la morte del Cortese e prima della stampa della Tiorba. Dall’analisi delle opere napoletane e italiane risulta che lo stile poetico di Giulio Cesare Cortese è diverso da quello di Storace d’Afflitto per la strutturazione dei periodi, le scelte lessicali, le rime utilizzate, la selezione delle metafore … Infine, il Rebuffo alli Spagnuoli è dedicato al sergente maggiore Francesco Toriello, la cui esistenza storica è comprovata da un importante documento rinvenuto dal sottoscritto nei registri della parrocchia di San Giovanni Maggiore e relativo all’arresto del parroco per odine dello stesso Toriello.


In che modo l'opera poetica di Storace d’Afflitto si colloca nel panorama letterario del Seicento napoletano, e come viene influenzata dal contesto culturale dell’epoca?


Egli è oggi, ancor più di prima, una delle tre corone napoletane, insieme a Giulio Cesare Cortese e a Giovan Battista Basile, ed è sostanzialmente un poeta marinista, ma è avulso dalla competizione tra la lingua napoletana e quella italiana. Giuseppe Storace d’Afflitto non si conformava all’orientamento dei suoi tempi e ai dettami poetici del Marino, che lodava l’imitazione e disapprovava la copia. Infatti, spesso egli nei suoi componimenti inseriva un verso altrui con l’intento di creare una poesia qualitativamente superiore rispetto a quella da cui aveva prelevato il verso.


Come l’appellativo di “Petrarca napoletano” attribuito a Storace d’Afflitto riflette il suo stile poetico e la sua capacità di coniugare la tradizione lirica italiana con la cultura partenopea?


L’appellativo gli proviene dai 173 sonetti napoletani De la tiorba a taccone e dall’uso in essi di alcuni topoi di derivazione classica e petrarchesca, ma il suo intento è sempre stato quello di superare in bravura i poeti a cui fa riferimento e i sonetti sottrattigli, che richiama. Nelle due opere del 1646, ricorre al napoletano e all’italiano «con disusati modi», intendendo così mostrare la sua versatilità e superiorità rispetto ai contemporanei. Di fatto, egli coniuga la tradizione lirica italiana con la cultura partenopea, aggiungendo il suo estro creativo.


La figura di donn’Anna Carafa viene descritta come tragicamente segnata dal potere. Quali dinamiche di genere e potere si possono intravedere nel suo ruolo di viceregina e nella sua relazione con Storace d’Afflitto?


Donn’Anna Carafa era stata educata a comandare, a ottenere ciò che voleva, a meditare sulle situazioni prima di prendere delle decisioni, per cui con astuzia elaborò il modo di allontanare il suo amante dalla corte vicereale.


Quali elementi specifici della lingua napoletana emergono nelle opere di Storace d’Afflitto, e come contribuiscono a costruire una voce poetica radicata nell’identità culturale locale?


Le due opere napoletane usano un lessico fresco e spregiudicato, in più il poeta sperimenta le rime consonanti con grande virtuosismo, introduce molte voci onomatopeiche della cultura locale, tanti versi di villanelle, proverbi napoletani, credenze, giochi popolari. La poesia ne trae giovamento perché, nelle due opere in napoletano del santagnellese, si trova liberata dagli schemi di quel periodo e innovata dalla dinamicità della lingua napoletana e della cultura locale, ma sulla base dello studio compiuto su tanti altri poeti: Torquato Tasso, Giovan Battista Marino, Tommaso Stigliani, Giovanfrancesco Maia Materdona, Biagio Cusano, Onofrio d’Andrea, Giovan Battista Manso, Bartolomeo Bocchini, Paolo Richiedei, Donato Serra …


La sinossi sottolinea il carattere «enigmatico» del linguaggio di Storace d’Afflitto. In che modo questo aspetto si lega alla sua personalità «brillante e audace» e al suo desiderio di sfidare il potere?


Lui era volutamente enigmatico perché rischiava la vita nel parlar male di donn’Anna Carafa, di conseguenza «Felippo Sgruttendio de Scafato» si anagramma in «Don Giuseppe Storace d’Afflitto», «L’Incauto figlio della sirena Partenope» si anagramma in «La lira è aliena con Felippo Sgruttendio»… Si sottolinea come, in entrambe le pubblicazioni del 1646, Giuseppe Storace d’Afflitto si celi sotto il falso nome di Filippo, che, in un ipotetico plurale, suonerebbe Filippi, nome dell’antica città macedone in cui ci fu la resa dei conti con gli uccisori di Giulio Cesare. Questa associazione tra i due Filippo e Filippi nasconde forse il desiderio di Storace d’Afflitto di giungere a una resa finale dei conti, che faccia giustizia sulla paternità dei sonetti.


Quale impatto ha avuto la tragica fine di donn’Anna Carafa sull’opera e sulla visione poetica di Storace d’Afflitto? Come la morte dell’amata viene trasfigurata attraverso il linguaggio lirico e poetico?

De la tiorba a taccone fu composta fra il 1641 e il maggio 1646, i componimenti della corda quinta non trattano della morte reale di donn’Anna Carafa, ma richiamano i sonetti della parte prima Della Musa lirica (Funerali) e quelli dei Nove Cieli (Cielo di Saturno). Solo il secondo e il terzo componimento della corda decima trattano della morte reale della donna amata, nel secondo giura di non scrivere più sul tema dell’amore, altrimenti avrà tutta una serie di sventure e malanni, mentre l’ultima canzone è un lamento funebre accompagnato da gesti di violenza contro se stesso, nel quale ricorda segretamente che Anna Carafa, con il suo accordo matrimoniale (un mezzo imbroglio non condiviso dalla nonna Isabella Gonzaga), si augurava una lunga permanenza al governo, come viceregina di Napoli, cosa che non accadde, poiché il duca Medina de las Torres fu sostituito nell’incarico napoletano nel maggio del 1644. Non è possibile parlare di trasfigurazione lirica della donna amata, successivamente alla sua morte, che ha avuto un impatto limitato, dal momento che di fatto essa non esiste, se non nella forma di un esercizio poetico, attuato quando ella era ancora in vita.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 11, novembre 2024, anno XIV)