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Vanni Santoni: «Il romanzo, in realtà, è sempre stato ibrido e meticcio»
Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Vanni Santoni, classe 1978, scrittore e critico che si interessa anche della letteratura romena e in particolare dell'opera di Mircea Cărtărescu. È stato segnalato al Premio Strega 2022 per il romanzo La verità su tutto (Mondadori). presentato da Edoardo Nesi: «Per come riesce a portarci per mano lungo sentieri di sapienze dimenticate, antiche o modernissime che siano, La verità su tutto mi pare un’opera notevole. In questo romanzo ragguardevole tutti i personaggi sono o sono stati alla ricerca di qualcosa d’invisibile che possa nobilitare la vita, ma poiché, come ben sappiamo, non tutto ciò che manca si vede o si può trovare, son condannati a continuare a cercare. Il che, oltre tutto, credo sia anche il gran mestiere della letteratura».
Underground, rinascimento psichedelico, Muro di casse e la controcultura del rave party come si coniugano con La verità su tutto?
La psichedelia, nella Verità su tutto, è centrale per due ragioni. La prima è storica: se, oggi, dottrine e filosofie orientali come quelle yogiche, vediche e buddiste hanno la diffusione che hanno in Occidente è a causa di un preciso rivolgimento storico-sociale, la prima rivoluzione psichedelica. Negli anni Sessanta, centinaia di migliaia di giovani, per lo più americani e inglesi, e successivamente anche di altri paesi occidentali, sperimentarono l’LSD e altri psichedelici, confrontandosi per la prima volta con la trascendenza. Si era entrati nell’era della riproducibilità tecnica dell’esperienza mistica, ma per quanto l’esperienza mistica indotta da sostanze come LSD, mescalina, psilocibina e DMT non abbia niente a che invidiare a quella ottenibile attraverso decenni di pratica di meditazione o di altre tecniche (anzi, è più intensa, complessa e ‘vera’), queste improvvise realizzazioni avvenivano in un contesto, quello di una società secolarizzata, che non offriva sponde interpretative, salvo quelle create al momento, appunto, dalle controculture. Non è un caso che quando i professori di Harvard Timothy Leary, Richard Alpert e Ralph Metzner si posero il problema di come fornire agli sperimentatori un «manuale di gestione» dell’esperienza psichedelica, alla fine andarono a recuperare il Libro tibetano dei morti, un testo mistico molto antico che in origine era utilizzato per accompagnare il morente, e l’appena defunto, nella transizione. Le religioni orientali, che avevano affrontato con spessore molto maggiore e soluzioni molto più filosofiche che mitologiche, rispetto a quelle occidentali, i problemi della coscienza, della morte, del rapporto tra identità e percezione ecc., parevano quindi offrire risposte plausibili a quelle domande così radicali che emergevano nelle coscienze esposte all’acido lisergico. Nacque così la famosa «hippie trail»: decine di migliaia di giovani (e poi anche meno giovani e celebrità: toccò pure ai Beatles) partirono alla volta dell’oriente: Tibet, Nepal e soprattutto India erano le destinazioni a cui si puntava per tentare di abbeverarsi a fonti mistiche percepite come ancora fresche e attive. Dopo qualche anno ci fu un identico e inverso movimento verso occidente: molti di quei giovani tornarono indietro, riportandosi indietro discipline come lo yoga, la meditazione, le zen, nelle loro moltissime declinazioni, e spesso con la volontà di diffonderle anche da noi. Lo stesso Alpert, da Harvard finì in India, dal guru Neem Karoli Baba, e divenne un guru lui stesso, col nome di Ram Dass, firmano il best seller Essere qui adesso, un mix di manuale di meditazione, memoir e graphic novel. Si capisce, dunque, che senza la prima rivoluzione psichedelica, vivremmo un contesto molto diverso rispetto alla spiritualità – per molti versi anche la relativa riscoperta della mistica speculativa e di pensatori cristiani a lungo tenuti fuori dalla porta come Meister Eckart, Margherita Porete, Angelus Silesius o il «pellegrino russo», si deve a quel ritorno d’interesse per la mistica attivato dall’arrivo delle discipline orientali.
La seconda ragione deriva dal fatto che, in proporzioni molto più circoscritte, la «second summer of love», ovvero l’avvento della cultura rave in Europa, ha fornito anche alla generazione cresciuta tra gli anni Novanta e Zero un suo piccolo avvicinamento alla mistica. Non a caso la figura di Cleopatra Mancini nasce in origine nel romanzo Muro di casse, dedicato alla free tekno. A questo si può aggiungere il fatto che, dal secondo Novecento a oggi, c’è sempre stata una contiguità tra le comunità mistiche (o misticheggianti) più variegate e la più vasta dimensione delle controculture a causa del comune principio di alterità rispetto al sistema.
Cleopatra Mancini, la protagonista del suo ultimo romanzo, pur divenuta Shakti Devi, continua a «camminare, camminare». Cosa cerca?
Quello che è certo che Cleo, divenuta Shakti Devi, ottenuto un pieno dominio sulle tecniche e finita addirittura a capo di una enorme comunità spirituale, è ancora insoddisfatta. Ha ancora dei dubbi. La miglior spiegazione della sesta parte della Verità su tutto credo l’abbia data la poetessa Lucia Brandoli nella sua recensione uscita su «Il Tascabile»: «Alla fine del libro, poi, Cleo sembra subire una vera e propria via crucis – reale o immaginata che sia – come una sorta di novella redentrice, e forse anche questa è una di quelle memorie, di quelle forme, di quei fantasmi di cui Cleo cerca di purificarsi andando raminga per il mondo e per le lande della sua psiche. Il 'camminai, camminai' ci riporta alla fine a una dimensione favolistica, è il 'cammina cammina' delle favole che porta e riporta i protagonisti lontanissimi e al tempo stesso a casa. Cleo, come una sorta di peripatetica, cammina per «espellere [scorie] dalla coscienza», quasi a espiare, purificare citta-vṛtti, le malattie cognitive che ci assediano e da cui nascono tutti i nostri mali, e tra cui rientrano senz’altro anche i ricordi e la cultura che ci ha formati».
Il senso di colpa è la miccia che fa divampare un’indagine sul problema del male. Dagli Hare Krishna ai Folletti, dagli Smeragdini ai frati di Zeitzé. C’è una via redentiva?
Il lungo e rocambolesco percorso di ricerca spirituale di Cleopatra Mancini comincia effettivamente da un’indagine sul male. Questo non era pianificato, ma guardando il romanzo a posteriori, un inizio del genere appare piuttosto logico: chi, come noi, nasce e cresce in una società del tutto secolarizzata, difficilmente si pone subito problemi di amartiologia o soteriologia, e ancor più difficilmente comincia di punto in bianco a farsi domande sulla grazia o l’illuminazione o il nirvikalpa samādhi. In genere, il primo approccio con questioni etiche, e da lì metafisiche, è il problema del male. Subiamo un torto, o lo compiamo, e già cominciano le domande. Oppure incontriamo il male naturale: qualcuno vicino a noi si ammala, muore. E ci chiediamo: perché? È già un mistero, per usare un termine che viene proprio dalla tradizione spirituale. È chiaro che qua il riferimento letterario più diretto sono le Confessioni di Agostino d’Ippona, col suo rammaricarsi per piccoli peccati di gioventù, ma non solo per quello: in effetti, le Confessioni anticipano di un millennio e mezzo Proust, nell’essere il primo grande romanzo della memoria. E anche La verità su tutto è impostato secondo lo schema, e sotto il filtro, del ricordo: Cleopatra Mancini, ormai da tempo diventata Shakti Devi, si confessa con qualcuno, ricorda e racconta la sua «verità su tutto».
La sua narrazione tange temi quali redenzione e salvezza, eppure gli stilemi che ha adottato non disdegnano il divertimento. Qual è il valore dell’ironia che serpeggia tra le pagine?
Credo che quando si parla di spiritualità e mistica, e dunque di materie che implicano almeno a qualche grado la fede, un certo distacco ironico sia indispensabile, anche quando l’indagine è più che seria. Credo che i veri nemici della mistica, in quanto fatto conoscitivo ed effettiva occasione di liberazione individuale, siano i dogmi e le religioni organizzate; ma anche fuori di esse – è evidente a chiunque affronti la materia con onestà intellettuale – prosperano cialtroni, ciarlatani, falsi profeti, imbonitori e guru fasulli, come è normale in un campo, qualche quello della spiritualità più libera, in cui chiunque può auto-investirsi del ruolo di guru o gerofante. C’è poi una seconda ragione: dato che, nonostante tutto questo, La verità su tutto è un romanzo che intende affrontare con la massima profondità (a me) possibile questi temi, ciò implica il far riferimento a una gamma di testi, teorie e filosofie non sempre della massima digeribilità: si tratta di temi ponderosi, su cui alcune le migliori menti della storia umana si sono scervellati per secoli; così, se già la forma romanzo aiuta a far ‘passare’ certi concetti in un modo che non risulti pedante, ho trovato che fosse comunque utile intensificare la dimensione comica, anche perché, come ben ci insegna lo zen, un attimo prima della verità ci sono paradossi, e i paradossi sono buffi (ribaltandola: come ci insegna la cabala, prima della sephirot c’è il qlippoth, e il qlippoth è grottesco).
La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo di un autore è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?
Scrivo direttamente al computer ma leggo quasi esclusivamente su carta, salvo quando, dovendo fare qualche ricerca rapida, mi capita di scaricare e-book sul tema. Nessun condizionamento, comunque, dal formato in cui i lettori decideranno di approcciarsi ai miei scritti.
Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura sia uno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
Condivido la visione di De Santis, e aggiungerei che è pure il sistema nervoso della civiltà. Detto ciò, non credo che si debbano chiedere funzioni alla letteratura: quando ciò accade, si finisce inevitabilmente nell’ideologia, nella didattica o nella pedanteria. L’artista deve essere completamente libero. L’utilità eventuale di ciò che ha prodotto emergerà, se emergerà, da sola, dopo che l'opera è posta in esistenza.
Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukács afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Condivido senz’altro la visione di Bachtin, ovviamente tenendo conto che quelle di Hegel e Lukács erano figlie della loro epoca e di una certa temperie storico-culturale. Il romanzo, in realtà, è sempre stato ibrido e meticcio: i primi veri romanzi erano enormi contenitori di molteplici generi, come il Don Chisciotte di Cervantes o Gargantua e Pantagruel di Rabelais, oppure opere «ibride» romanzo-trattato filosofico come Jacques il fatalista e il suo maestro di Diderot; e vogliamo parlare del Tristram Shandy di Sterne, che già nel Seicento anticipava le libertà espressive e paratestuali del postmodernismo? La verità è che il romanzo inteso come è stato inteso nell’ultimo secolo e mezzo, ovvero come una storia circoscritta, con un inizio e una fine e poche divagazioni o uscite dalla pura narratività, è il prodotto dell’emersione di un pubblico di massa, e adesso, semplicemente, il romanzo si sta riprendendo ciò che è sempre stato suo.
La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?
Dopo secoli in cui le donne non potevano letteralmente scrivere (o avere una formazione atta a farlo), e in cui quindi sono emersi solo sparsi casi di grandi scrittrici, l’accesso all’arte è finalmente libero, almeno in questa parte del mondo (e sia pure con maggiori difficoltà per le donne rispetto agli uomini, è bene ricordare), e ha avuto come naturale conseguenza l’emergere di molte voci femminili decisive. Tra le viventi mi paiono imprescindibili Olga Tokarczuk, Margaret Atwood, Ali Smith, Hilary Mantel, Valeria Luiselli, Annie Ernaux…; tra quelle scomparse di recente citerei almeno Joan Didion, Ursula LeGuin, Toni Morrison, Doris Lessing... Ma parimenti importanti sono i recuperi, dato che molte donne scrittrici sono state sistematicamente sottovalutate o ingiustamente considerate «minori»: penso alle grandi riscoperte di autrici somme come Clarice Lispector, Djuna Barnes, Lucia Berlin, Cristina Campo, Leonora Carrington (sì, era anche scrittrice).
Lei è un buon conoscitore dell’opera di Mircea Cărtărescu. Quali sono i tratti definitori della sua scrittura e a quale scrittore italiano lo vedrebbe più vicino?
Credo che il tratto chiave della scrittura di Cărtărescu, o almeno quello che lo rende un autore unico al mondo, sia lo sviluppo di una sua specifica grammatica della visione, che va oltre le singole scene per abbracciare anche la struttura stessa di romanzi come Abbacinante o Solenoide. Non mi sembra che in Italia ci siano autori a lui vicini, per quanto negli anni scorsi si sia visto un aumento di approcci metafisici e visionari alla narrativa, per quanto poi rientrato: Cărtărescu, al di là dell’influenza della tradizione fantastica romena, è piuttosto imparentato con altri «grandi metafisici» dell’Europa centrale e orientale, come la succitata Tokarczuk, il bulgaro Gospodinov, l’ungherese Krasznahorkai, autori in cui si ravvisa, parimenti a quanto avviene con Cărtărescu, una piena digestione e originale rielaborazione della lezione di Kafka e di quella di Borges, con un tocco di realismo magico alla Márquez. Un altro autore che, per ragioni più legate all’approccio metafisico, può essere accostato, pur nelle sue differenze, a Cărtărescu, è il francese di origine russa Antoine Volodine.
Quali sono gli altri scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?
Sono da sempre lettore di Eliade e Cioran. Recentemente ho letto con piacere Sindrome da panico nella Città dei Lumi di Matei Vișniec, pubblicato dalla stessa casa editrice italiana di Cărtărescu, Voland, nonché Vita e opinioni di Zaharia Lichter di Matei Călinescu (Spider&Fish) e La sottomissione di Eugen Uricaru (Mimesis).
La rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» registra le pubblicazioni di letteratura romena in traduzione italiana nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?
Credo che sia molto poco conosciuta, del resto anche lo stesso Cărtărescu lo era fino alla pubblicazione del secondo volume di Abbacinante. Buona occasione per diffonderlo.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2022, anno XII) |
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