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Il cinema per e con Valia Santella
La voce è accogliente, che sia al telefono o di persona. Non c’è fretta nel timbro lievemente campano, screziato da inflessioni romane, di Valia Santella. Anzi, nel ritmo con cui parla, nelle pause che fa, nella pazienza di ascoltare, c’è già, in qualche modo, l’arte che la contraddistingue.
Sceneggiatrice e regista, portano la sua firma film come Mia madre, Tre piani nella regia di Nanni Moretti o Fai bei sogni, Il traditore nella regia di Marco Bellocchio. Vincitrice del David di Donatello e del Nastro d’argento, attualmente, tra numerosi altri impegni, Valia Santella, assieme a Bruno Oliviero, conduce un laboratorio di scrittura cinematografica promosso dalla Fondazione Fare Cinema con l’obiettivo di guidare gli aspiranti sceneggiatori tra le sfide che lo scrivere per il cinema comporta.
Di cosa significhi insegnare a scrivere per il cinema, delle ricette per realizzare una buona sceneggiatura, ma anche di cosa manchi al cinema italiano, ne abbiamo parlato con Valia Santella.
Vorrei partire dal corso di sceneggiatura che, assieme a Bruno Oliviero, stai tenendo in questo periodo. Si tratta della terza edizione: com’è cambiato nel tempo e in cosa consiste? Si può insegnare a scrivere per il cinema?
Quello che è cambiato è l’impostazione. Nel primo anno, eravamo quattro sceneggiatori, per cui la gestione era meno organica, con una minor direzione. Dallo scorso anno, assieme a Bruno Oliviero, abbiamo optato per un metodo laboratoriale. Non credo molto nelle regole, credo nelle persone. Ciò che mi interessa è capire il potenziale di chi ho davanti con l’obiettivo di far esplodere quel potenziale. Infatti, ne sono convinta: l’unica nostra ricetta siamo noi stessi, il nostro essere specifici. Magari qualcuno ne resterà deluso nel non sentir parlare di regole, di struttura, di colpi di scena, di obiettivi dei personaggi, ma non m’interessa parlarne in astratto, bensì attraverso il lavoro. La sfida, in questo senso, è cercare di uscire dalla convenzione.
Accennavi alle ricette: esistono ricette o segreti per scrivere una buona sceneggiatura?
Non credo esistano ricette standard. Credo ci sia uno sguardo cinematografico che, da una parte, è istintivo, dall’altra, lo si conquista attraverso il lavoro. Per meglio dire, trovare lo specifico linguaggio cinematografico viene dell’istinto e si tratta della capacità di fornire una lettura visiva e visionaria del mondo, che non vuol dire un delirio, bensì una visione immaginifica. Tutti, però, devono poi esercitare e affinare l’istinto attraverso il lavoro.
Che cosa manca al cinema italiano, secondo te? E cosa invece lo caratterizza in modo peculiare, una sua specificità?
Manca la capacità di essere epici. Abbiamo avuto alcuni momenti in cui lo siamo stati. Oggi, questo tratto, però, manca anche nella letteratura. E, a mio avviso, deriva dallo scollamento che gli autori hanno con il mondo, con la quotidianità. Allontanandosi dal mondo, è più difficile che gli universi si guardino. Detto altrimenti, le persone di un certo ambiente difficilmente comunicano con quelle di un altro ambiente, provocando così una chiusura e una mancanza di ascolto dell’altro. Io stessa sperimento circostanze simili: ci sono quartieri di Roma in cui non vado mai poiché non ne ho motivo. Ma ciò produce una società chiusa in compartimenti stagni con la conseguente difficoltà a essere epici nella narrazione che produciamo.
Lo specifico del cinema italiano è la grande ricchezza e pluralità di talenti creativi presente in tutta la filiera, a partire dai tecnici e fino ai registi. Mi riferisco alla famosa artigianalità che deriva dalla nostra formazione rinascimentale: il principio della bottega che produce talento.
Sarà difficile, me ne rendo conto, ma se tu dovessi indicare cinque film che ti hanno segnato come sceneggiatrice o come persona, quali sarebbero?
Il primo che mi viene in mente è Nel corso del tempo, grazie a questo film ho capito che da grande volevo fare cinema. Poi, direi che sono legata alla personalità di alcuni registi, più che ai film, poiché, a loro volta, hanno avuto un impatto significativo nella mia vita. Penso, quindi, a Nanni Moretti e al suo Palombella rossa che fotografa una situazione politica del momento e stare lì, in ciò che succede in quella Italia, mi ha segnato.
Sono altrettanto legata a Truffaut, specie per il modo di guardare le persone e l’affetto per i personaggi. Per me, è inconcepibile scrivere senza amare i personaggi. Penso anche allo sguardo sulla cinematografia di Agnès Varda e il suo inno alla gioia di fare film. Poi, credo non si possa vivere senza Kubrick, senza Scorsese e Hitchcock… Ma ora mi devo fermare, vero?
Valia Santella, Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi e Francesco Piccolo ai Nastri d’argento 2019
(Foto www.cinematographe.it)
A cura di Irina Turcanu Francesconi
(n. 1, gennaio 2022, anno XII)
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