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Valeria Meazza: «Un momento epocale per lo studio del fenomeno del narrare»
Valeria Meazza, docente e ricercatrice indipendente, trova particolarmente affascinante la problematizzazione della moralità messa in atto dal narrare, nel suo libro Il labirinto narrativo. Teoria ed etica del raccontare l’identità (Primiceri Editore, 2019). In questa intervista, reputando che la narrazione sia un fenomeno chiave per la comprensione dell’umano, discorre dell’incidenza rispetto alla soggettività in una congerie pubblica eccedente il piano teoretico, in cui comunicare efficacemente sta diventando una sofisticazione, un’adulterazione, un’alterazione che può compromettere il tessuto dei rapporti.
Nella retorica classica la narrazione costituisce la parte dell’orazione che seguiva all’esordio e serviva all’esposizione obiettiva del fatto. Nella contemporaneità come può essere definita?
Nella contemporaneità, la narrazione può essere definita come performance (in senso molto lato) che, attraverso un insieme di artifici retorico-visuali/altri definiti dal medium scelto, espone una catenaria di eventi che sono tra loro collegati in senso cronologico e per la presenza di almeno un ente del quale, nel corso del tempo, almeno un tratto distintivo muta. Questa, almeno, la definizione che possiamo trarre dagli studi di narratologia e critica letteraria.
Tuttavia, questa definizione presenta almeno tre problemi. Anzitutto, essa è estremamente macchinosa; in secondo luogo, non tiene conto del fatto che il narrare è un tipo di discorso che viene pronunciato in un certo contesto per realizzare un determinato scopo (si narra mirando all’intrattenimento, ma anche alla persuasione, all’edificazione o ad altre finalità); infine, essa potrebbe non essere condivisa dalle culture non occidentali.
Il fenomeno della narrazione è oggi tra i più dibattuti e studiati. Purtroppo, però, a causa dell’endemica e conflittuale separazione tra le discipline, nonché dello straordinario successo che questo concetto ha avuto nel secolo scorso, risulta alquanto difficile definire la narrazione in maniera univoca e non di rado essa viene definita in modo diverso a seconda della disciplina all’interno della quale essa viene studiata.
Per ovviare a questo problema, nel mio libro cerco di proporre diverse definizioni in luce degli studi narratologici e letterari, filosofici, psicologici, sociologici e antropologici del narrare. Ciò non mi permette di arrivare a una definizione univoca – che, del resto, non mi ero proposta in prima istanza – bensì di indagare a fondo la precomprensione che ha del narrare l’esperienza comune come di quel discorso che, messo in opera da uno o più narratori con uno scopo, espone un susseguirsi temporale di eventi che vedono coinvolti, insieme a luoghi e personaggi, valori, credenze e visioni del mondo, talvolta in modo così profondo da rimetterli in discussione per un individuo o per la collettività.
La narrazione ha un valore stimabile? Essa è incidente rispetto alla soggettività?
Se con ‘stimabile’ intende ‘precisamente quantificabile’, direi di no: per realizzare questo scopo, infatti, sarebbe necessario poter sottoporre l’immaginario individuale e collettivo a un’indagine modellata sul metodo delle scienze dure. Se, invece, intende riferirsi al fatto che il narrare abbia un ruolo apprezzabile e scientificamente riconosciuto nel costituirsi della soggettività individuale, allora, assolutamente sì. È stato dimostrato da tempo in psicologia dello sviluppo – e qualsiasi manuale aggiornato ne dà conferma – che i bambini che trascorrono con le madri, con i fratelli o con gli altri molto tempo a narrare e ascoltare narrazioni degli eventi comuni o decisivi della giornata, nonché che hanno modo di rievocare o ascoltare spesso rievocazioni di azioni passate (capricci, marachelle, successi, spaventi) tendono a sviluppare in modo più solido la memoria autobiografica, nonché a sviluppare più precocemente un senso del sé organico e coerente. Questo conferma quanto ipotizzato già negli anni ’80 dal filosofo Paul Ricœur, secondo il quale la narrazione, ben lungi dall’essere un semplice resoconto dell’esperienza, porta a compimento l’esperienza stessa permettendo al soggetto di appropriarsene.
Ma non solo. Come evidenziato dal sociologo Paolo Jedlowski, per l’individuo ricevere da altri il racconto degli effetti delle sue azioni è un momento di cruciale importanza per vincere autoinganni e facili autoassoluzioni, per assumersi in modo maturo e consapevole la responsabilità dell’individuo che si è. È come se il motto delfico caro a Socrate, «conosci te stesso», passasse dalla narrazione: la narrazione di sé attraverso i ricordi, la narrazione del sé da parte degli altri attraverso la testimonianza. Processo che, va notato, non sempre e non necessariamente è pacifico, anzi, può essere profondamente conflittuale – e lo è, in particolar modo, quando tra la voce del sé che si narra e quella degli altri (altri significativi o collettività) c’è un’evidente asimmetria di potere.
I contesti pubblici, si pensi alla politica, ai social media, prevedono una narrazione efficace del sé, soventemente tessuta in modo davvero sapiente. Questa complessa operazione eccede il piano teoretico?
Ogni narrazione del sé, in verità, eccede il piano teoretico. Non si racconta sé stessi a sé o agli altri per conoscere, ci si racconta per negoziare/rinegoziare il rapporto con essi o per suscitare un effetto di un qualche tipo.
Vero è che si può mentire: del resto, lo sappiamo bene, tanto la politica quanto i circoli privati pullulano di mitomani – soprattutto in una società come la nostra che idolatra la performance e il successo in ogni contesto, a ogni costo. Il fatto è, però, che non si dà menzogna nel racconto di sé che sia senza prezzo, sia esso la vergogna, il ludibrio da parte degli altri o l’autoinganno. Nel contesto della comunicazione mediatica, soprattutto da parte delle personalità della politica, mi sembra che questa «narrazione efficace» abbia come effetto nei politici l’autoinganno – sarebbe utopico ipotizzare la vergogna – e negli interlocutori il disinganno: mi azzarderei a ipotizzare che il proliferare di narrazioni spudoratamente false potrebbe essere annoverato tra le ragioni per le quali gli Italiani, oggi, sono non solo estremamente disaffezionati alla vita pubblica e disillusi, ma facili prede di qualsivoglia teoria del complotto, sospettosi fino alla paranoia.
La sua trattazione ripercorre i contributi delle Scienze umane. Distanti dalla pretesa di una sinossi, qual è lo stato della ricerca?
Le scienze umane evidenziano come la narrazione sia un fenomeno chiave per la comprensione dell’umano, del funzionamento del singolo individuo quanto delle dinamiche che avvengono dentro e fra i gruppi sociali. Purtroppo, però, – come evidenziavo prima – anche a causa del successo che il concetto di «narrazione» ha avuto nel secolo scorso, così come a causa dell’inveterata separazione e competizione tra le singole discipline, lo studio di questo fenomeno a tutto tondo risulta molto complesso e non di rado le singole discipline ergono a difesa della propria specificità muri invalicabili.
Ad oggi, a mia conoscenza, le riflessioni più interessanti sul rapporto tra narrazione e soggettività provengono in psicologia dalla prosecuzione degli studi di Jerome Bruner e, in Italia, di Andrea Smorti, nonché dalla psichiatria narrativa di Giuseppe Martini; degne di nota sono le ricerche in filosofia di Francesca Cattaneo, che ricapitola e sviluppa le riflessioni di alcuni illustri pensatori del Novecento tematizzando la narrazione come azione dotata di una sua specificità ontologica e morale; molto interessanti, inoltre, sono le indagini di Peppino Ortoleva sui «miti a bassa intensità» e su come le narrazioni contemporanee diano forma al nostro immaginario. Ma, come dicevo, i contesti sono davvero ampi e numerosi.
In tutta sincerità, credo che l’epidemia di Covid-19 avrà conseguenze a lungo termine non solo sulla politica e sull’economia, bensì anche sulla narrazione del sé individuale e collettivo. Ci siamo scoperti fragili, mortali: un dato che non può in alcun modo apparire secondario nel nostro modo di comprenderci, dunque di narrarci a noi stessi e ad altri. Abbiamo visto l’importanza – e la forza dirompente – del narrare: della testimonianza, della denuncia e, purtroppo, della bufala e della teoria del complotto. Mi sentirei di auspicare che questo possa essere un momento epocale anche per lo studio del fenomeno del narrare, in particolare del narrare il sé. Che le singole discipline, superando le tradizionali partizioni, possano entrare in dialogo, confrontarsi, ibridarsi e, studiando quanto sta avvenendo – ad esempio, come cambi la narrazione del sé a partire dalla scoperta della fragilità, oppure nel contesto della separazione forzata imposta dalla quarantena – possano arrivare a una più profonda comprensione del narrare e del narrarsi.
In siffatta congerie qual è la sua personale posizione etica rispetto all’uso strumentale e opportunistico della narrazione?
Al di là dell’inesauribile passione e dalla curiosità che mi legano allo studio della Letteratura e del fenomeno del narrare in tutte le sue forme da una vita, da molti anni nutro la consapevolezza che la narrazione è un dispositivo culturale estremamente potente e pervasivo la cui azione passa tendenzialmente sotto traccia poiché all’onnipresenza della narrazione in ogni campo delle nostre vite siamo tendenzialmente assuefatti. Non solo il marketing è in larghissima parte narrativo: lo sono l’intrattenimento e l’informazione (che, anzi, forse proprio a causa della pervasività del narrare si identificano in misura sempre maggiore), lo è in misura crescente anche l’educazione; esiste la convinzione – non tematizzata, non problematizzata e proprio per questo insidiosa – che per comunicare in modo efficace, garantendosi l’attenzione dell’interlocutore, sia necessario e sufficiente raccontare una storia. Molto più che, ad esempio, essere in grado di argomentare, ossia saper dare e chiedere ragione delle posizioni espresse: è come se la narrazione, con il suo valore paradigmatico, rendesse superfluo un ulteriore scavo razionale dei contenuti. Non solo: manca la consapevolezza che una narrazione sia un dispositivo con determinate regole e meccanismi di funzionamento. Non ci si sofferma abbastanza spesso a pensare, a mio parere, che l’inizio e la fine della storia sono convenzionali, così come lo è il punto di vista: in questo modo, viene talvolta presa per verità assoluta ciò che è messo in luce dalla storia, mentre non si considera ciò che da quella narrazione resta fuori, nell’ombra, quasi come se non esistesse.
La mia posizione rispetto all’uso strumentale del narrare è, naturalmente, di rifiuto. Il problema, però, secondo me, è a monte. Vale a dire: credo che questo uso del narrare sempre più spregiudicato sia reso possibile dal fatto che manca una cultura del narrare nell’opinione pubblica, cioè proprio nei fruitori delle narrazioni. Manca la capacità di identificare gli interessi del narratore, di captare contronarrazioni o le voci dei personaggi secondari che potrebbero avere molto da dire per fornire un quadro complessivo dell’oggetto del contendere. Pertanto, credo che chi, come me, ritiene che la narrazione sia un fenomeno culturale che necessita di un’etica, non possa astenersi dal continuare a studiare il narrare e diffondere in ogni modo questo sapere, con i mezzi tradizionali e con quelli offerti dalle nuove tecnologie: post, podcast, video su Youtube. Senza stancarsi di fornire gli elementi necessari per una fruizione matura e consapevole del discorso narrativo. Perché, a mio parere, solo da una generazione di narratori attenti, consapevoli e critici potrà sorgere l’istanza di narrazioni eticamente corrette.
Cosa non basta alla lingua per esprimere sé stessi e il proprio immaginario?
Il linguaggio evoca, non ritrae e non fotografa. È il suo limite, ma anche il volano della sua straordinaria potenzialità. Molte delle scene, delle sequenze e dei personaggi letterari di maggiore successo sono estremamente poveri di dettagli: si costituiscono attorno ad alcune pennellate essenziali, a un tratteggio, che ciascun fruitore riempie con la propria immaginazione e il proprio vissuto. La lingua, voglio dire, unisce e divide al tempo stesso: può veicolare esperienze e sensazioni, ma in nessuna forma linguistica può essere comunicato con assoluta precisione cosa significhi esattamente essere l’individuo che dice «io».
Molti, oggi, esplorano con disinvoltura l’ascolto partecipato di chi si ha di fronte, la manipolazione dell’attenzione, il linguaggio del corpo, l’organizzazione del contenuto e la creazione della giusta forma con cui trasmetterlo. A tutti noi è possibile imparare a comunicare efficacemente e consapevolmente?
Certamente. Occorrono, però, due requisiti dei quali difficilmente gli odierni manuali del perfetto comunicatore parlano, perché non si sposano molto bene con la logica prevalente del tutto-e-subito-senza-sforzo.
Il primo requisito è la pazienza. A comunicare bene s’impara con la pratica e l’esercizio. Cioè provando, fallendo, riprovando ancora. Scrivendo e riscrivendo un discorso, per esempio. Oppure imparando a scusarsi con i propri interlocutori qualora, magari, non si sia riusciti a spiegarsi bene.
La pazienza, peraltro, non occorre solo per esercitarsi, ma anche per prendersi il tempo per ascoltare chi si ha di fronte, studiarne la gestualità e i movimenti, interessarsi sul serio al suo pensiero, comprendere le sue reazioni. Perché in una situazione dialogica l’attenzione all’altro o all’altra è un elemento imprescindibile.
Proprio l’attenzione all’altro, del resto, conduce inevitabilmente al secondo requisito: un determinato orientamento etico che faccia dell’interlocutore un partner comunicativo alla pari e non una pedina da muovere secondo i propri scopi. La comunicazione efficace, infatti, può essere una seduzione o un confronto. Qualora si scelga un approccio seduttivo e manipolatorio – che poi è quello che molto spesso suggeriscono di adottare gli odierni manuali di comunicazione – bisogna, però, fare molta attenzione. Non solo perché l’interlocutore potrebbe facilmente scoprire il secondo fine di chi gli si rivolge; soprattutto perché una comunicazione di questo tipo, nel quale l’interlocutore è fondamentalmente uno strumento al servizio del parlante, rischia di risultare a lungo andare estremamente impoverente per entrambe le parti coinvolte.
Adoperare dei trucchi per comunicare efficacemente non diventa una sofisticazione, un’adulterazione, un’alterazione che può compromettere il tessuto dei rapporti, minandoli irrimediabilmente?
Credo che dipenda da ciò che s’intende per «comunicare efficacemente». Se con questa espressione si fa riferimento al veicolare un contenuto – informativo o di altro tipo – che raggiunga l’interlocutore, gli rimanga impresso, lo costringa a riflettere e magari apra prospettive e punti di vista precedentemente inesplorati, non penso. Se la comunicazione efficace, voglio dire, permette a chi è partner di quella comunicazione di compiere attraverso di essa un’esperienza umanamente significativo a livello razionale o emotivo, l’impiego di ‘trucchi’ (espedienti e artifici retorici) mi sembra legittimo. Del resto, credo che l’intera tradizione letteraria occidentale potrebbe essere interpretata come un trucco di questo tipo: un trucco dal quale, riprendendo la teorizzazione di Gorgia, è saggio lasciarsi ingannare, perché questo genere di inganno e di rapimento operato dalle parole permette di accedere a un’esperienza autentica.
Se, invece, per «comunicazione efficace» s’intende quella che asservisce l’interlocutore agli scopi di chi gli si rivolge, la questione è ben diversa. Questo tipo di persuasione, messa in atto da tutti gli espedienti della retorica – ivi comprese tutte le tecniche narrative, oggi particolarmente utilizzate –, chiaramente mina il tessuto dei rapporti, proprio perché non se ne preoccupa affatto.
Credo che la risposta a questo interrogativo potrebbe essere fornita riprendendo il monito che il filosofo illuminista Immanuel Kant formulava nella sua Fondazione della Metafisica dei Costumi: «tratta la dignità umana, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine in sé e mai soltanto come mezzo». Per valutare una comunicazione efficace in senso non decettivo, questa massima potrebbe costituire un buon criterio.
A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 2, febbraio 2022, anno XII)
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