Con Tommaso Zarrillo per i 760 anni dalla nascita di Dante

Nel 2025 ricorrono i 760 anni dalla nascita di Dante e, per l’occasione, dialoghiamo con il professor Tommaso Zarrillo, già docente alla Federico II di Napoli e all’Università della Campania «Luigi Vanvitelli», già presidente dell’Associazione Italiana di cultura classica, delegazione di Caserta. La nostra intervista volge attorno alle principali tematiche dantesche presenti nei suoi volumi La Commedia di Dante. Un viaggio drammatico tra dubbi e paure, percorsi conoscitivi e poetici e Il Viaggio del Cristiano Laico. Dalla selva oscura all’empireo, entrambi pubblicati dalle Edizioni Saletta dell’Uva nel 2021.

La struttura tripartita della Divina Commedia (Inferno, Purgatorio, Paradiso) riflette non solo un percorso spirituale ma anche una concezione cosmologica e filosofica medievale. Quali le implicazioni simboliche e numeriche di questa scelta strutturale?

La struttura è tripartita in Inferno, Purgatorio e Paradiso, i tre regni in cui è diviso l’oltretomba cristiano. Dante riprende questa divisione, ma introduce delle modifiche, soprattutto nella rappresentazione del Purgatorio, collocato su un’isola posta in mezzo al mare, da cui si alza una montagna, sulla quale sono distribuite in nove, tra balze e gironi, le varie anime condannate a espiare la loro colpa per poter meritare il Paradiso.
Esso è posto agli antipodi di Gerusalemme e dell’Inferno, rappresentato come una voragine all’interno della terra, lungo la quale nei nove cerchi, sono condannate ab aeterno le anime macchiatesi di peccati mortali.
Il Paradiso è rappresentato da nove cieli concentrici fino all’Empireo, il cielo che comprende tutti gli altri, la zona dell’aria e tutta la terra. Una cosmografia che si richiama alla geografia tolemaica e alla filosofia aristotelico-tomistica nella quale Dio, ente superiore e punto luminoso unitario, condensa in sé l’intero Universo.
Questa è la struttura fisica, arricchita da una selva di simboli allegorici, numerici e figurali, come il tre e i suoi multipli, il nove e il trentatré, numeri delle cantiche di un regno anch’esso tripartito, simboli attinti  alle culture più diverse, alla tradizione figurale cristiana, a quella araba, a quella allegorica di molte opere del suo tempo, maggiormente al Roman de la rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meung, ai Libri delle tre scritture (De scriptura nigra; De scriptura rubra; De scriptura aurea) di Bonvesin de la Riva, a Le  livre du Trésor di Brunetto Latini, a testi classici, in particolar modo all’Eneide di Virgilio, al Somnium Scipionis di Cicerone, alle Metamorfosi di Ovidio, ai testi biblici.
Ma la geografia della Commedia è molto più complessa perché all’interno di quella struttura cosmologica vi è Dante, autore e personaggio dell’opera, pellegrino, il cui cammino salvifico simboleggia l’intera sua terribile esperienza di esiliato. Perciò la geografia della Commedia, al di là della sua struttura generale, che conferisce all’opera una spazialità cosmica e poetica, è tutta legata ai luoghi dell’esilio dantesco.
Carlo Ossola, uno studioso attento, ha rilevato una geografia di prossimità nella Commedia, cioè luoghi attraversati o vissuti da chi ha perso il luogo natio, la sua città. Dal punto di vista spirituale il cammino è rivolto alla riconquista e ricostruzione della patria perduta Nel viaggio, infatti, s’incontrano territori dell’area toscano-romagnola, veneta-euganea, del Casentino, della Lunigiana tra toscana e Liguria, della Marca anconitana, della Tuscia, con ospitalità in città come Siena, Treviso, Verona, Lucca, Arezzo, Padova, Forlì, Ravenna e sullo sfondo Firenze, centro della finanza mondiale, e Roma, simbolo del potere papale, con la sua curia corrotta. Oltre ai luoghi di residenza, la geografia dantesca dell’esilio è molto più articolata perché sono ricordate diverse altre città, fiumi, come l’Arno, il Po, il Tevere, l’Appennino, le Alpi, i mari, le coste ecc.
Il percorso geografico non è separato da quello spirituale. Attraverso le tappe del suo esilio Dante deve ricostruire la sua coscienza lacerata, affrontare un percorso di liberazione dal male, che ormai ha travolto l’umanità e lui stesso. Compie perciò un viaggio drammatico, doloroso e sofferto, segnato da momenti di pentimento, di vera e propria «contritio» per conquistare un incarico più alto, quello della missione salvifica per l’umanità intera. E questa missione così elevata per realizzarsi ha bisogno di tutti gli ingredienti, che servono a collocarla a quell’altezza. Perciò occorre un corredo di immagini simboliche e numerologiche e di visioni cosmologiche e filosofiche a supporto di un contesto di contenuti reali, di vissuti personali, i quali sono la sorgente, che alimenta l’intero sistema scritturale, spirituale e poetico. 


Questa struttura fisica ha nella Commedia anche un significato morale.

Tra le altre cose, la Commedia è anche un’opera di filosofia morale; anzi, essa riflette una mentalità del Medioevo, che univa letteratura ed etica. Il modello è l’Etica nicomachea di Aristotele, che circolava nel suo tempo nella traduzione dal greco effettuata da Roberto Grossatesta, autore altresì di un testo, De libero arbitrio, che Dante dovette conoscere e utilizzare per la trattazione del concetto della libertà, che nella Commedia è strettamente legato all’etica. Nella visione dantesca, infatti, è la libertà, che mette in condizione l’uomo di distinguere il bene dal male. E in questo discernimento Dante utilizza la mediazione di Alberto Magno e di S. Tommaso, che avevano elaborato un’interpretazione cristiana dell’etica aristotelica nel senso che l’avevano fondata sulla responsabilità personale nella scelta del bene o del male.
Come per S. Tommaso, anche per Dante filosofare è un’azione morale, cioè un’etica non rivolta però «ad speculandum» ma «ad opus inventum». Quel che conta è come gli uomini si comportano e come operano nella loro vita pratica.
Il discorso sulla morale in Dante non si può quindi scindere dal suo impegno politico-sociale e culturale perché, come aveva sostenuto nel Convivio, egli è spinto dal «desiderio di dottrina dare». Non è scissa neppure da una visione profetica, come si nota in quella tensione, che lo porta a classificare i vizi nell’ordinamento morale dell’Inferno, le virtù cardinali nell’espiazione purgatoriale, l’approfondimento delle virtù teologali nel Paradiso, segnando così i termini di una nuova condotta morale, che conduca l’umanità alla salvezza.
L’aver inserito la sua visione nella dimensione politica e sociale pone Dante al di fuori del rigorismo etico astratto delle scuole del tempo fino a collocare il comportamento morale nell’ambito della produttività sociale.
L’itinerario del Convivio e soprattutto quello del poema, si può considerare un’azione didattico-formativo che il Poeta propone agli uomini di ogni tempo, un percorso che va dalla servitù alla libertà, dalla conoscenza alla salvezza, attraverso la poesia e la filosofia pagana, la letteratura biblica e patristica, le opere dei sapienti del Cielo del Sole.
La letteratura dei nostri tempi dovrebbe saper sfruttare la ricca tradizione culturale, che ci arriva dal mondo classico e cristiano, se vuole difendere la dignità e la libertà morale dell’uomo nella complessa società tecnicizzata e multiculturale.


In che modo il «contrapasso» dantesco si collega alla concezione medievale della giustizia e alla filosofia scolastica? Si possono individuare meccanismi simbolici e narrativi attraverso cui il principio della punizione per analogia viene rappresentato?

Il contrapasso dantesco è un prodotto della visione medievale della giustizia, così com’era stata concepita dalla filosofia scolastica.
C’erano posizioni estremiste come quella contenuta nel De Contemptu Mundi di papa Innocenzo III, il quale identificava simbolicamente il contrapassocon la distruzione di Sodoma, sulla quale il Signore fece scendere una pioggia di zolfo e di fuoco per spegnere «il fetore della lussuria» e «l’ardore della libidine, affinché la pena fosse il contrapasso della colpa».
S. Tommaso, riprendendo l’idea di contrapasso da Aristotele, sostiene che questa punizione rispondeva a un principio di giustizia commutativa secondo cui «se uno percuote, che sia percosso a sua volta», e nel richiamare  Esaù 21 ricorda che il contrapasso «renderà vita per vita, occhio per occhio», a mo’ della la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. E rimanendo sempre in ambito biblico quando uno viene derubato dei propri averi si applichi un principio di equivalenza nella pena, per cui «se uno ruba un bue o una pecora e li scanna o li vende, darà come indennizzo cinque buoi per il bue e quattro pecore per la pecora» (S. Tommaso, Summa Theologiae, II-II).
Nella Commedia Dante usa due modi di applicazione del contrapasso: per analogia e per contrasto.
Esempi di contrapasso dell’uno e dell’altro tipo ve ne sono tanti nella Commedia.
Per quanto attiene all’analogia, gli esempi più evidenti sono quelli dei lussuriosi, che sono trascinati da una continua bufera infernale, che sta a indicare simbolicamente la passione amorosa, che ha travolto i due amanti Paolo e Francesca in vita; quello dei golosi, che hanno gozzovigliato sulla terra e adesso sono immersi nel fango di una pioggia «etterna, maladetta, fredda e greve».
I meccanismi narrativi proposti dalla domanda.
La Commedia è tutta una lunga narrazione e quindi anche la descrizione della punizione del contrapasso soggiace a un meccanismo narrativo, che è più aderente alla vita vissuta dall’anima. Francesca racconta la sua storia partendo dai tre principi dell’amore cortese e terminando con la lettura di uno di quei libri, contenente quella visione amorosa. Conclude il suo discorso sull’origine del suo rapporto amoroso con quel verso «la bocca mi baciò tutto tremante», una vera novità nell’ambito delle narratività di tipo erotico-amoroso. Ciacco si leva dalla fanchiglia e racconta il destino della «città partita» scendendo nel merito della situazione cittadina dimostrando «per che l’ha tanta discordia assalita».
La vita che rivendica i suoi diritti in Francesca e un quadro storico di Firenze, in cui i diritti sono calpestati.


Qual è il ruolo della guida nel percorso iniziatico di Dante?

La guida è un elemento centrale nella Commedia perché Dante pellegrino compie un viaggio proiettato verso la salvezza. Occorre perciò una guida etica, religiosa, razionale e psicologica. L’uomo, nato col peccato d’Adamo, non può da solo affrontare un percorso di rinascita intellettuale e morale, di maturazione e ascesi spirituali. La guida serve a riconquistare la retta via, smarrita per la seconda volta perché, facendo un uso non adeguato della libertà, ha perso la grazia e la ragione. C’è bisogno di una nuova infusione della grazia e della ricostruzione di una funzione positiva della ragione. Perciò Beatrice, il personaggio più attivo della Commedia, manda in soccorso Virgilio; quindi, sempre Beatrice incarica S. Bernardo perché possa guidarlo in uno slancio mistico e realizzare quel rapporto con Dio, interrotto prima dal peccato e poi dalla perdita della grazia, riottenuta la quale potrà, attraverso altre tappe di perfezionamento, come il pentimento nel Paradiso terrestre, il percorso nel Paradiso, gli esami da parte di S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni sulle tre virtù teologali, accostarsi alla porta  del mistero. 
Grazie alle guide Dante amplia gli orizzonti della conoscenza e matura una crescita morale attraverso un uso della libertà guidata dalla sette virtù.
I compiti delle guide sono perciò relati al significato dell’esperienza ultraterrena del pellegrino. Virgilio, Stazio, Matelda, Beatrice e S. Bernardo rappresentano le tappe di un processo di conoscenza della realtà, individuale e universale, personale e sociale, che ha l’obiettivo della salvezza di Dante e dell’umanità. Essendo un viaggio conoscitivo, Virgilio esercita un magistero, carico di significati, che si riassumono nella complementarità della forza della poesia e dell’intervento salvifico della grazia, binomio dipendente dalle capacità del discepolo e del maestro, che, nel rispetto dei tempi di assimilazione dell’allievo, punta a fargli acquistare una razionalità, che renda il suo intelletto «libero, diritto e sano».
All’insegnamento della guida virgiliana succede quello di Beatrice e il discorso naturalmente passa dall’ordine razionale a quello metafisico; si opera per il raggiungimento di una saggezza più alta, che è quella della fede, fino all’adempimento mistico di S. Bernardo. Le tre più importanti guide sono maestri che infondono nell’allievo quell’ardore conoscitivo, fondato sul desiderio infinito di Dio. Anche per questo Dante diventa discepolo, volenteroso e attento a condividere quanto i maestri gli trasmettono.
La tradizione biblica, classica e medievale aveva esempi di guide soprattutto in campo epico. Esempi vi erano nella Bibbia, nell’Eneide e nella letteratura medievale. Tra i riferimenti medievali utilizzati maggiormente da Dante va sottolineato quello di Alano di Lilla, che nel libro Anticlaudianus racconta di un viaggio salvifico, nel quale le guide sono la ragione, la teologia e la fede, concetti che, insieme alle allegorie e agli stimoli, offerti dalla guide stesse, avvicinano questo testo alla Commedia.


Come la rappresentazione della selva oscura all’inizio dell’Inferno funziona come simbolo di crisi esistenziale e perdita di orientamento? Quali fonti culturali e filosofiche influenzano questa immagine nel contesto medievale?

Il primo canto ha al centro la selva oscura «selvaggia, aspra e forte» e l’uomo Dante, che ha perso la retta via sia per la condizione drammatica, che sta sperimentando come esiliato, sia per la condivisione in gioventù di correnti filosofiche averroiste sia per la coltivazione di visioni amorose cortesi, come risulta dai rimproveri di Beatrice nel XXX e XXXI del Purgatorio.
La selva è presente anche in diverse altre opere del suo tempo e in testi biblici. La selva oscura è simbolo di una vita peccaminosa, la quale «tant’è amara che poco è più morte» richiamandosi in questo rapporto tra l’amarezza e la morte al testo biblico dell’Ecclesiaste: «Amaro è il pensiero della morte».
La selva è però un ‘topos’ narrativo nella letteratura medievale. Essa è presente nei lai bretoni, nei poemi cavallereschi, nei quali è trattata come fenomeno portentoso, carattere che conserverà anche nei poemi epici cavallereschi dei secoli successivi. Lo stesso Tesoretto di Brunetto Latini contiene l’immagine della selva, ma anche in questo testo l’autore non si discosta dalle fantasiose immagini delle opere precedenti.
Diversamente da altre opere la Selva oscura nella Commedia va letta soprattutto come metafora di una condizione esistenziale, della coscienza trafitta del poeta, che diventa, per le immagini e per la tensione poetica che la anima, il paradigma di un dramma individuale, avvertito però come sofferenza collettiva di un’intera comunità umana in quella determinata situazione storica.
La selva è il giardino di Adamo, dal quale fu cacciato per aver commesso il peccato originale. Ma la selva dantesca richiama soprattutto Virgilio, il fitto bosco, «Triviae lucos» dell’ingresso all’Averno di Enea nel libro sesto dell’Eneide, dove la selva è rappresentata oscura «Ibant obscuri sola sub nocte per umbram /... quale per incertam lunam sub luce maligna / est iter in silvis» (VI 268-271). Dante ripete il termine iter=cammino ed è assalito dalla paura, che nel testo virgiliano incutono l’«orrenda» Sibilla, invasata dal Dio, le immagini del Minotauro e il percorso labirintico, l’intervento delle due colombe, che conducono al ramo d’oro, quasi un biglietto d’accesso all’al di là e, infine, la Sibilla placata, che lo guiderà nel cammino.
Anche per S. Agostino il mondo fu un’amara selva: «Amara silva mundus hic fuit» e viviamo «in hac tam immensa silva plena insidiarum et periculorum».
In Bernardo Silvestre e nell’umanista Cristoforo Landino la selva è identificata con il termine greco hyle «ὕλη», che è materia «selvaggia, aspra e forte» e quindi Dante, appesantito dalla materia, precipita «in basso loco», perdendo il colle e il Sole, che potrà riacquistare solo con il recupero della ragione e della fede, grazie alle quali, dopo un graduale processo di cambiamento, rivedrà «il sole e le altre stelle».


Professore, come l’opera traduce le tensioni storiche in una dimensione universale?

Lo sviluppo dell’opera è tutto costruito sul legame tra la storia e l’eternità, tra il visibile e l’invisibile, tra il finito e l’infinito, tra il particolare e l’universale.
L’idea centrale del Cristianesimo, fondata sulla proiezione dell’uomo storico nell’eterno, modifica radicalmente i parametri della concezione del mondo, che avevano greci e romani. La cultura greca e romana era tutta legata alla natura e al mondo terreno. Gli uomini erano uomini e le divinità erano anch’esse esseri umani, tutti vittime del destino.
Nella Commedia l’uomo è ugualmente legato alle sue storie terrene, ma aspira a conquistare l’eterno e l’imperscrutabile, sconosciuti al mondo classico. Dante colloca l’uomo nella sua storia; gli dà la libertà di costruirla; lo inserisce quindi in una dimensione eterna, che assegna a quella storia un significato universale ed extratemporale.
La rappresentazione reale e la sua trasmissione sono rese possibili dalla varietà dei registri linguistici e dalla grandezza delle immagini, che ci coinvolgono e ci fanno sentire più vicini a quelle figure, a quei personaggi; anzi in quei personaggi avvertiamo di esserci tutti noi con i nostri sogni e i nostri desideri. Perciò quanto più la indaghiamo la Divina Commedia tanto più scopriamo che ci appartiene.
Nella Commedia sono unite la condizione esistenziale dell’uomo Dante, auctor e agens della sua opera, e la situazione storica del suo tempo.
Dante rielabora la crisi culturale di un’epoca storica al tramonto e la finalizza alla creazione di una nuova cultura. In questa rielaborazione fa entrare idee, problematiche, fatti e vicende, oggetto di studi e di discussioni nel suo tempo, ma alle quali Dante conferisce una ricchezza, una vitalità, una forza, che proietta quelle idee su un piano metastorico e quindi le trasmette ai secoli che verranno.
I primi due canti contengono le due dimensioni, su cui si svolgerà il viaggio.
Nel primo canto la scena si svolge tutta sulla terra, nella selva oscura dove Dante è aggredito da tre fiere: la lonza, il leone e la lupa, rispettivamente allegoria della lussuria, della superbia e dell’avarizia.
Nel secondo canto la scena si svolge nel cielo dove ugualmente si riuniscono tre personaggi, alternativi alle fiere: Maria (grazia preveniente), Lucia (grazia illuminante) e Beatrice (grazia santificante). Da esse è incaricata di soccorrere Dante la stessa Beatrice, che si reca nel Limbo da Virgilio e lo invita a recarsi nella selva oscura in aiuto di Dante.
In questi due canti iniziali si definiscono le due dimensioni, quella reale e ideale, fisica e metafisica, umana e divina, storica ed eterna, quella particolare e universale.
La realtà storica e geografica, con le topografie e le storie umane, che le animano, determina il senso etico, politico, escatologico del viaggio fino a risolvere quelle storie e quelle geografie nella metastoria, a collocarle su uno schermo metafisico e universale.
Poi c’è la poesia, volgare e multilingue, che rende eterne quelle storie; ci sono la forza della visione filosofica, la tensione morale, la spinta spirituale, che universalizzano tutto il messaggio affinché sia condiviso anche in altre epoche storiche.
Perciò ci tengo a sottolineare che la Divina Commedia la sentiamo ancora vicina perché in essa troviamo quei valori che ci appartengono ancora, come la persona umana, la libertà, la pace, la laicità, il sentimento religioso, come la conoscenza, i legami comunitari; la sentiamo nostra anche quando siamo chiamati a misurarci con crisi sociali e politiche e con i nostri privati dolori e sofferenze o a elaborare, da terribili esclusioni, come avvenne per il sommo poeta, occasioni di rinascita.


Quale ruolo svolgono l’amore e il desiderio nella Divina Commedia?

L’amore è un riferimento costante nella Commedia. Dall’amore, che conduce alla morte, all’amore, «che move il sole e le altre stelle», Dante ci ha trasmesso un’idea progressiva dell’amore e anche dei personaggi femminili, rispetto ai quali non c’è misoginia, come per molti scrittori del suo tempo. Il personaggio che lega infatti questi passaggi è Beatrice, la ragazza, che l’ha fatto innamorare fin da quando aveva nove anni, e che se l’è portata dietro per tutta la vita.
L’amore è il motore di tutto il poema. Il processo evolutivo principia dalla critica alle visioni amorose della poesia provenzale e cortese, eretico-cavalcantiana dello Stilnovo e approda a quello ideale e spirituale. All’apice di questa evoluzione del concetto amoroso si delinea una vera e propria teoria dantesca dell’amore. Il viaggio, infatti, inizia nel segno dell’amore divino: «Temp’era dal principio del mattino, / e ‘l sol montava ‘n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle» e chi salverà l’umanità dall’avarizia «non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute».
L’amore muove Beatrice in soccorso di Dante: «amor mi mosse, che mi fa parlare». L’amore unisce Paolo e Francesca con un legame extraconiugale, che li condurrà alla morte: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sí forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte».
Il canto però della Commedia, in cui Dante sviluppa la teoria dell’amore, è il diciassettesimo del Purgatorio, dove il poeta e la sua guida, liberatisi dal fumo della terza cornice degli iracondi, salgono alla quarta cornice dov’è punita la pena dell’accidia, peccato prodotto da un uso o eccessivo o troppo debole dell’amore mondano.
Questo peccato diventa il motivo per esaminare il tema de «L’amor del bene / scemo del suo dover» e quindi Virgilio, chiarendo un dubbio posto da Dante, afferma che ogni creatura prova amore, il quale può essere naturale o d’elezione; mentre il primo è sempre giusto, il secondo può errare o perché diretto verso l’oggetto sbagliato oppure per vigore scarso. «Lo naturale è sempre sanza errore, / ma l’altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore».
Finché l’amore è rivolto verso Dio ed è misurato verso i beni terreni, non può sbagliare, mentre quando è diretto al male o corre al bene con energia scarsa o eccessiva, allora incorre nel peccato. Se l’uomo quindi si lega a un bene terreno con eccessivo vigore commette i peccati della superbia, dell’invidia e dell’ira; se invece desidera quel bene con amore troppo debole, allora commette il peccato dell’accidia.
In questa teorizzazione e finalità ultima dell’amore emerge la figura di un Dante cristiano, che concepisce solo un amore rivolto al prossimo, a eliminare nel rapporto sociale tutte quelle cause di divisioni, che arrecavano danni alle comunità cittadine, e quindi a una loro pacifica convivenza.
Sempre nel Purgatorio Dante si definisce «novo peregrin d’amore». Il suo cammino è quindi un percorso indirizzato verso l’amore.
L’amore è anche accensione di virtù intellettuale e perciò è mediatore del rapporto tra Stazio e Virgilio. Nell’incontro con Stazio, infatti, l’amore riscalda il legame dell’autore della Tebaide all’opera di Virgilio: «Or puoi la quanti tate / comprender dell’amor ch’a te mi scalda». E la mediazione continua nella risposta di Virgilio a Stazio: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore».
Tutto il mondo creato è un atto d’amore ed è governato quindi dalla forza dell’amore.
La salvezza dell’umanità nasce da un atto d’amore di Dio verso l’uomo. La stessa grazia divina accende e fa crescere con la sua potenza il vero amore, come avviene nel cielo del Sole, dove sono gli spiriti sapienti: «Quando lo raggio della grazia, onde s’accende / verace amore e che poi cresce amando». Scienza e amore sono uniti nella ricerca; la prima cerca l’ordine dell’universo; il secondo cerca Dio, che, per amore, ha creato il mondo e con amore lo conserva.
L’attenzione dantesca al tema dell’amore quindi nasce sì dalle sue esperienze poetiche, ma è rivolta a creare un ordine, non solo nelle quaestiones filosofiche e teologiche del tempo, ma anche un ordine universale e un’armonia cosmica.
L’amore crea concordia e fa apparire belli quelli che lo praticano, come avviene nella costruzione del movimento francescano: «La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facíeno esser cagion di pensier santi».
L’amore è preparazione alla perfezione: «Però se ‘l caldo amor la chiara vista / della prima virtù dispone e segna, / tutta la perfezion quivi s’acquista».
L’amore fa risplendere le anime del paradiso e questa condizione le predispone a rispondere ai dubbi e alle domande di Dante.
L’amore fa ruotare il Primo mobile e quindi tutti i cieli e li fascia della luce divina: «Luce ed amor d’un cerchio lui comprende / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ‘l cinge solamente intende» .
Tutto ciò che Dio crea è un atto d’amore. Lo stesso S. Bernardo, la nuova guida di Dante, è stato mandato dall’«amor santo» e arde «tutto d’amor» per la «regina del cielo». E più avanti nell’apoteosi di Maria l’amore è angelico: «Io sono amore angelico, che giro / l’alta letizia che spira del ventre / che fu albergo del nostro disiro». L’amore si accese nel ventre di Maria: «Nel ventre tuo si raccese l’amore» e nella visione di Dio l’amore finisce per legare in un volume tutto il cosmo e diventa anche l’energia fisica che muove il sole e le altre stelle: «Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna». L’amore di Dio uniforma alla sua volontà anche la volontà e il desiderio di Dante allo stesso modo del girare di una ruota.
Dall’amore che a null’amato amar perdona delle visioni cortesi, al traviamento amoroso dello stilnovismo eretico, all’amore purificatore, a quello spirituale Dante compie un percorso di formazione e inserisce la tematica amorosa nel vasto progetto del rinnovamento di tutta la società. Francesca, piegata alla passione dell’amore cortese all’inizio del viaggio, e Maria, nel cui ventre s’accese l’amore divino, costituiscono i due termini all’interno dei quali si svolge il percorso dell’amore. Da quello sensuale a quello divino si compie una graduale evoluzione, che attraverso varie tappe conduce a una visione elevata e ideale dell’amore. Esso è sensuale in Francesca; è stimolo alla gloria in Brunetto Latini e alla conoscenza in Ulisse. Esso è struttura morale nel Purgatorio. È strumento di elevazione nel Paradiso.
C’è quindi abbondante materiale nella trattazione del tema dell’amore. Esso è passione carnale; è sentimento sociale; è virtù intellettuale; è motore dell’universo; è concordia umana e religiosa. Perciò noi nelle visioni amorose sentiamo vicini sia Francesca sia Brunetto sia Ulisse e sia Maria. Ma sentiamo soprattutto il richiamo a un insieme di sentimenti, che sappiano liberarsi dalla pura materialità e conquistare visioni ideali, che spingano gli uomini a sentire più vicino il prossimo.
Il Cristianesimo aveva sostituito l’idea platonica del Sommo Bene con quella di Dio, superando l’idea  platonica di eros, che al suo massimo grado era una spinta ascensiva verso il mondo ideale, con quella di agápe, l’amore come dono, la tensione spirituale e assoluta verso Dio e gli uomini.
Sul cammino di «amore» dell’anima verso Dio si erano cimentati con grande ardore i mistici medievali, anch’essi conoscitori del platonismo, come Riccardo da San Vittore, Bernardo di Chiaravalle, Bonaventura da Bagnoregio. Proprio quest’ultimo aveva tracciato il percorso mistico dell’anima verso Dio, itinerarium mentis in Deum, in tre gradi o movimenti: extra nos, intra nos, super nos. Il Dio va cercato «fuori di noi, dentro di noi, oltre di noi», come già Agostino aveva indicato e come Dante riprenderà nella tripartizione della Commedia.
Papa Francesco in una sua lettera, scritta in occasione dei settecento anni dalla morte del poeta, definì Dante «il cantore del desiderio umano», di chi ci invita a risollevarci, a riprenderci, a non farsi abbattere dal male, dal dolore, dalle sofferenze. Il suo viaggio è anche il prodotto di un desiderio, supportato dalla ragione, come avviene nel primo canto dell’opera, dove Virgilio risveglia in Dante il desiderio di liberarsi dalla lupa: «Poeta, io ti richeggio / per quello Dio che tu non conoscesti, / a ciò ch’io fugga questo male e peggio, / che tu mi meni là dov’or dicesti, / sì ch’io veggia la porta di san Pietro / e color che tu fai cotanto mesti. / Allor si mosse, e io li tenni dietro.» 
Amore e desiderio convivono nella Commedia e le conferiscono un indirizzo, che attraverserà tutta l’opera e aprirà una prospettiva, nella quale si collocheranno molti poeti e artisti dei secoli che verranno.      


Pensando al ruolo della simbologia numerica nella Divina Commedia (in particolare il numero 3 e le sue varianti), in qual modo questa simbologia si intreccia con la concezione medievale del cosmico ordine e della spiritualità?

La Commedia rappresenta la molteplicità del reale, ridotta all’unità nella comprensione sempre della sua totalità. È un’unità dialettica, che si legge nella stessa divinità cristiana, che è una e trina, dialettica al suo interno tra il Padre, il Figlio, lo Spirito santo, la sorgente, da cui si propaga tutta la simbologia numerologica dell’opera.
Nella Commedia ripetuti e importanti sono i riferimenti ai numeri, che rispondono a una duplice funzione: strutturale e simbolica. La funzione strutturale si deduce sia dalle divisioni interne, come le terzine, la rima incatenata, le tre cantiche, ciascuna di trentatre canti, escludendo il primo, che ha la funzione di prologo, sia dalla stessa cosmologia, che in diverse parti è rappresentata con simboli numerici, come ad esempio i nove cerchi dell’Inferno, le nove cornici dell’antipurgatorio e del Purgatorio, i nove cieli del Paradiso. Non sono numeri solo aritmetici; sono simmetrici a una trama simbolica, che crea un modello comunicativo facilmente comprensibile da parte dei lettori. I numeri che maggiormente si ripetono nel poema sono l’uno, il dieci, il tre, il nove e il sette.
L’uno corrisponde all’origine dell’universo e quindi alla divinità assoluta. Esso è la causa di tutte le cose, della molteplicità delle forme, dei colori, dello spazio e del tempo, di tutto ciò che è diverso.
Il dieci è l’uno nella sua trasformazione nel molteplice della realtà.
Il tre, come abbiamo già osservato, è la trinità nella sua sostanza dialettica, motivo profondamente teologico.
Il nove è il tre al quadrato e quindi rappresenta tutto ciò che si trasforma attraverso l’innovazione e la crescita.
Il sette corrisponde ai sette giorni della creazione, sei più uno dominicus. Il suo multiplo settanta coincide con il tempo di una vita perfetta, la cui metà, trentacinque, segna il passaggio alla maturità. Indica inoltre il numero dei sacramenti, dei sette peccati capitali, della settimana santa, dei sette cieli, com’era in epoca antica, prima che Aristotele e poi Tolomeo aggiungessero i due cieli delle stelle fisse e del primo mobile, ma, in maniera più estesa, può rappresentare lo spirito settemplice, i sette doni dello Spirito Santo, le sette chiese d’Asia, i sette ordini del chiericato.
La numerologia contribuisce ad arricchire allegoricamente alcune ripartizioni concettuali.
Secondo l’etica nicomachea e le interpretazioni di S. Tommaso e di Brunetto Latini, i peccati dell’Inferno sono divisi in tre categorie: incontinenza, violenza e matta bestialità.
Anche nel Purgatorio vi sono diversi riferimenti numerici. Tra tutti ricordiamo la profezia di Beatrice di DXC, del cinquecento dieci e cinque, simbolo di un’autorità politica o religiosa, che dovrà giungere per sconfiggere la lupa, la curia romana corrotta e il re di Francia.
La funzione simbolica dei numeri si ritrova nel Paradiso. L’esempio più significativo si ha  nel canto XXVIII, nel primo mobile, nel quale Dante assiste allo sfavillare degli angeli e nota che  le luci sono tante da superare il numero del doppio delle caselle del gioco degli scacchi. Ne deriverebbe un numero di ben venti cifre. È un modo di rappresentare numericamente una dimensione infinita. Un dato questo ricavato dal libro dei Sapienti delle sacre scritture.
La simbologia numerica impronta tutte le tappe del viaggio dantesco; lo arricchisce, lo rende più comprensibile; la sintesi poetica poi trasfonde nel lettore concetti, non diversamente spiegabili.
Solo il linguaggio poetico e metaforico poteva rendere assimilabile l’altezza dei concetti filosofici e teologici di un cammino, che è anche dell’intelletto e della ragione.
Ma l’ampiezza delle narrazioni poetiche, la ricchezza figurale dell’intera opera, la simbologia dei numeri, le simmetrie, i contenuti filosofici creano, in una maniera, che ancora oggi stupisce, quelle virate, che traducono una rappresentazione, così schiacciata sulle storie vere degli uomini, in una cosmografia ordinata e in una dimensione spirituale, che coinvolge ancora noi lettori moderni.


Come utilizza Dante il linguaggio allegorico e simbolico per coniugare elementi biblici, aristotelici e classici?

L’allegoria è un termine d’origine greca composto da  ἄλλος, állos («altro») e ἀγορεύω, agoreúō («io parlo»); rappresentava nel mondo antico un senso nascosto, un sospetto, una congettura, una supposizione, un modo figurato di rappresentare la realtà. Essa fu usata all’origine nella gara tra Esiodo e Omero in occasione degli onori funebri tributati al re Anfidamante, molto diffusa nel Medioevo, dove acquistò però delle finalità solo didascaliche.
L’allegoria fu praticata anche nel mondo ebraico e cristiano; fu applicata, infatti, alle Sacre Scritture per individuare i sensi nascosti dietro alle immagini. Il suo utilizzo, diffuso prima in ambito biblico-ebraico, fu quindi esteso anche a quello cristiano dei Padri della Chiesa. Si arrivò perciò a concepire che, attraverso l’interpretazione allegorica, l’Antico Testamento anticipasse il Nuovo con simboli e figure, come la colomba, che nell’Arca di Noè indica la strada della salvezza, simbolo prima di purezza e fedeltà, poi simbolo dello Spirito Santo, che si posa sul capo di Cristo nel momento del battesimo nel fiume Giordano; come il pesce, anch’esso legato all’acqua e quindi al battesimo, ma pure alla pesca. Gli apostoli sono chiamati, infatti, da Gesù pescatori di uomini; e ancora il carro, il drago, la pecora ecc., sono tutti simboli di una realtà nascosta, che spesso impegna il lettore nella loro identificazione.
Nel Medioevo l’allegoria acquista un valore interpretativo tale da divenire lo strumento fondamentale di analisi di ogni testo. Viene applicata perciò all’interpretazione di tutto l’Universo, nel quale le pietre, le erbe, gli animali diventano simboli di verità più profonde e quindi sono indagate e illustrate nei lapidari, erbari e bestiari. Essa fu piegata a varie esigenze di rappresentazione di fatti ed eventi, tanto che sarà divisa in allegoria dei poeti, che era considerata una «bella menzogna» e in un’allegoria dei teologi, dove il piano letterale è più vicino alla storia e alle cose reali.
Nel Convivio Dante aveva condiviso questa interpretazione dell’allegoria seguendo San Tommaso, che, richiamandosi alla distinzione fatta da Beda tra allegoria in verbis e in factis, affermò che l’allegoria letterale, in verbis, era solo fittizia, mentre quella dei teologi, in factis, era espressione di fatti della realtà, della verità: «Dico che, sì, come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi». Nella Commedia Dante va oltre San Tommaso e si collega al commento al Sommnium Scipionis di Macrobio, al S. Agostino del De trinitate, alla scuola di Chartres e quindi alla teoria neoplatonica del poeta teologo. Egli dimostra, diversamente da S. Tommaso, che la poesia non è menzogna, ma è invece una delle migliori attività di produzione di verità e nello stesso tempo può creare una fusione tra mondo reale e mondo ideale, fra realtà terrena e verità soprannaturale.
La ricchezza però linguistica e il valore morale e spirituale del poema ci invita a non leggere e interpretare la Divina Commedia solo attraverso il senso allegorico, ma anche attraverso i sensi letterale, morale e anagogico. Nella Commedia c’è innanzitutto una scrittura che rende viva la storia raccontata e i «quattro sensi» arricchiscono l’opera e la trasformano, come dirà poi Baudelaire, in una «foresta di simboli».
Nella Monarchia Dante precisa la sua idea dell’esegesi dei testi; afferma che il senso letterale è prioritario e propedeutico alla creazione di un sovrasenso, come importante è anche il contesto in cui si colloca un linguaggio figurale, difendendo quindi il legame tra la rappresentazione linguistica e narrativa e la vita e le storie in cui il poeta fu coinvolto. D’altra parte, nella stessa Monarchia riafferma che per interpretare la volontà divina bisogna partire da un’interpretazione della realtà storica, unica via per accedere alla verità, in questo richiamandosi a testi aristotelici, agostiniani e alle predicazioni cristiane.
C’è tutta una cultura biblica alle spalle della ricerca esegetica dantesca. Filone, un ebreo d’Alessandria, adattò all’Antico Testamento le interpretazioni allegoriche della poesia greca; Clemente e Origene, anch’essi intellettuali alessandrini, vissuti tra II e III secolo, sostennero di dover interpretare i testi sacri sulla base dei quattro sensi, dimostrando anch’essi, come Dante, che il senso letterale era il punto di partenza per la conoscenza e l’interpretazione del mondo sensibile. Sull’esegesi di derivazione allegorica ci furono anche diatribe tra la scuola alessandrina e quella di Antiochia, che si oppose a un uso eccessivo delle allegorie, soprattutto di fronte alla rappresentazione antropomorfa della divinità.
Dante più prudentemente si colloca nel solco dell’allegoria profana. L’allegoria è usata per portare alti concetti filosofici e teologici al livello delle capacità di comprensione umana, come dimostra nel canto IV del Paradiso vv.40-46: «Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno. / Per questo la Scrittura condiscende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio, e altro intende».
Critica è la posizione di Dante rispetto all’uso, che nella Chiesa si faceva dell’esegesi allegorica, influenzata da appesantimenti teocratici e dalla ricerca ad ogni costo di un sovrasenso nelle rappresentazioni allegoriche. Posizione, che si riscontra nel III libro della Monarchia dove Dante, richiamandosi a Sant’Agostino, rivendica a fronte di un uso smodato dell’interpretazione delle figure allegoriche il valore del contesto storico: «si può errare circa el misticho senso o cercando dove è non è, o pigliando altrimenti che egli sia. Per la prima parte dice Agostino ne libro Della Città di Dio: «Non si debba credere che tutte le cose che si narrano significhino alcuno effetto; ma per cagione di quelle cose che significano, si pigliano ancora delle cose che nulla significano».
In conclusione, nell’uso dell’allegoria si avverte da una parte una sorta di eclettismo dantesco e dall’altra parte una distanza critica da quelle esagerazioni nell’interpretazioni allegoriche, che spesso finivano per oscurare completamente il riferimento storico. E questo Dante non poteva accettarlo. Anche nelle più ardite astrazioni paradisiache c’è sempre, infatti, una forte carica di realismo.


Qual è la funzione della memoria storica nella Divina Commedia? Come intreccia Dante memoria personale, storia collettiva e riflessioni filosofiche per costruire un’opera che sia allo stesso tempo individuale e universale?

L’intero impianto narrativo della Commedia segue i flussi della memoria personale e collettiva. Essi richiamano l’esperienza vissuta dal poeta sul piano storico-sociale, sostenuta da una visione escatologica, che proietta quella esperienza nel futuro. 
Dante individuo è il cittadino di Firenze, formatosi nell’aspra lotta politica della sua città e convinto della utilità della politica, come sostiene nella Monarchia: «E non dubiti di aver trascurato il proprio dovere chi, pur avendo dimestichezza con gli insegnamenti inerenti alla pubblica utilità, non si preoccupa di dare un contributo alla Stato» (Monarchia, I,1). Assume perciò diversi incarichi nel suo Comune, motivo del suo esilio e della sua successiva condanna a morte.
La Commedia è il viaggio dell’esiliato, che ha perso «il natio loco», la sua città, ed è alla ricerca di una nuova patria. L’idea centrale è quindi quella della costruzione di una «civitas terrena», che non può essere quella degli affari economico-finanziari, causa di violenti scontri tra famiglie di banchieri, di gruppi sociali, all’interno dei quali operavano dinamiche politiche e religiose, che acuivano quelle violenze, tutte sedimentate nel laboratorio dantesco della memoria, che non è soltanto un serbatoio immobile di dati reali, ma di conoscenze, che liberano quei dati dalla loro frammentarietà e li destinano ad una dimensione universale.
Il viaggio è metafora dell’esilio, ma è anche memoria di una storia personale e collettiva, vissuta intensamente nell’agone politico fiorentino e nei rapporti con istituzioni, come quella comunale, come l’Impero e il Papato; con personaggi di quella storia, come autorità politiche, religiose, sociali; con intellettuali, con tutta una tradizione di studi filosofici, teologici, di passioni poetiche coltivate fin dall’adolescenza.
Dalla riflessione sulla memoria di queste storie, per gran parte drammatiche e laceranti, si sprigiona la spinta a riconquistare la patria perduta e, attraverso questa conquista, costruire una patria universale. Un’idea questa, che arrivava a Dante da lontano, da S. Agostino, che di fronte alla devastazione di Roma e di altre città italiane nel 410 d.c. da parte di Alarico e alla visione di  profughi, che scappavano via dall’Italia su imbarcazioni di fortuna e raggiungevano le coste africane, dove trovarono accoglienza soprattutto nelle strutture religiose, elaborò quella grande idea, quel progetto  universale  di  costruzione di una civitas caelestis, nella quale i rapporti sociali fossero governati dalle regole della giustizia e dalla ricerca del bene comune. 
La Urbs, la grande Roma stava crollando e bisognava costruire una civitas, non più solo terrena, perché fragile, debole e forte solo con le armi, ma una civitas che avesse un’anima, che fosse guidata da una tensione spirituale verso la conquista di mete  superiori, universali, divine, infinite, verso il sommo bene.
Questi riferimenti sono distribuiti nella Commedia e sono ricondotti spesso al rapporto tra memoria e conoscenza, tra reminiscenza e scienza, come ad esempio nel Paradiso V, vv.40-42: «Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, /sanza lo ritenere, avere inteso».
Senza la memoria non c’è conoscenza.                                     
Nonostante la distanza di secoli dalla sua elaborazione, questo progetto era ancora operante attraverso le scuole agostiniane e la filosofia platonica e operò anche nella mente di Dante. Platonicamente si dovrà compiere un itinerario nella memoria. C’è un’anima nell’uomo, che ha già visto la verità; poi l’ha persa; ha smarrito il suo ricordo; adesso bisogna riconquistarla, ricordarla. Per fare ciò Dante deve liberarsi dalle brutture del peccato; perciò nel Paradiso terrestre, dopo essere stato giudicato «libero, diritto, e sano» da Virgilio, deve immergersi nei fiumi del Léte  per dimenticare tutte le azioni peccaminose e dell’Eunoè, per potenziare il ricordo di quelle buone.
In concreto la piena realizzazione del progetto di una civitas caelestis, che liberi dalle violenze del suo tempo e crei un mondo pacificato, un ordine superiore, dipende dalla memoria, che, platonicamente, ci potrà mettere in contatto con una verità, che salvi. 
Quando Dante, infatti, si sta accingendo, accompagnato da Beatrice, a entrare nel Paradiso, invoca Apollo perché potenzi la sua memoria a tal punto che il suo intelletto possa entrare nella profondità del mistero.
È chiaro, quindi, che sta anche qui il passaggio dall’individuale all’universale.
Le dinamiche, che contraddistinguono le varie esperienze terrene e il mondo dell’al di là, interagiscono fino a creare tra le due dimensioni, quella individuale e quella universale, una dialettica, da cui entrambe escono potenziate nella ricerca di una dimensione di pace e di felicità umane.
Poi c’è la memoria interna di Dante, come auctor dell’opera; la straordinaria capacità dantesca di trattenere nella sua mente una miriade di dati ha fatto riflettere molti critici.
Gianfranco Contini, uno dei maggiori studiosi delle opere dantesche, dimostrò che la grandezza di questo poema sta nella capacità mnemonica del suo autore.
Di recente uno studioso, tedesco, filologo romanzo, Harald Weinrich, ha evidenziato la ricchezza della memoria interna dantesca tanto da rilevare, dopo diversi studi filologici, la presenza in tutto lo sviluppo dell’opera di un procedimento mnemotecnico, guidato dalle seguenti cinque regole: concretezza, visualizzazione, configurazione topica, localizzazione, itinerario mnemonico, regole per gran parte fondate sul principio della sequenzialità degli eventi e dei loro rapporti logici, che in Dante sono riportati in maniera perfetta. E ci ricordano alcune partizioni della retorica antica, come soprattutto la memoria, l’elocutio e l’actio d’origine greca e latina, forse giunte a Dante attraverso lo studio delle opere retoriche di Cicerone.
L’immensa varietà dei fatti ricordati dalla memoria dantesca sono il risultato di uno sforzo immane, che ancora oggi meraviglia gli studiosi della materia.
In Dante teoresi e concretezza sono intrecciate. Nell’ambito della memoria agiscono nella Commedia la filosofia della conoscenza platonica e la struttura di un pensiero mnemonico, derivatogli dal mondo greco-romano. È questo modo di operare che unisce poi, per vie diverse, l’individuale e l’universale, storie personali e storie collettive, concretezza e astrazione.


In che modo il concetto di redenzione nella Divina Commedia si configura attraverso il viaggio di Dante? La tensione tra libero arbitrio, giustizia divina e destino: come vengono risolte queste problematiche filosofiche nella narrazione?

Tutto il viaggio di Dante e dell’umanità, da lui rappresentata, è un viaggio di redenzione perché rivolto a liberare l’uomo dalla perduta strada e indirizzarlo sulla via, che conduce al bene. Essa per realizzarsi ha bisogno di una nuova infusione della Grazia divina, dono che sarà concesso di nuovo da Dio, attraverso Beatrice, simbolo della grazia santificante, che manda in soccorso a Dante Virgilio, il quale lo guiderà nei due regni dell’Inferno e del Purgatorio, cammino nel quale deve  ordinare una ragione disordinata e predisporla a compiere quello «Itinerarium mentis in Deum» titolo di un’opera di Bonaventura da Bagnoregio, che fu all’attenzione del poeta perché studiata nelle scuole francescane.
Questo cammino di redenzione è rappresentato in diversi punti dell’opera; ad esempio, con il simbolo della resurrezione nella valletta fiorita del Purgatorio, dove gli angeli mettono in fuga il serpente, dalla raffigurazione della croce nel cielo di Marte, dal trionfo di Cristo e Maria nel cielo delle stelle fisse.
Esso potrà avvenire se Dante compirà un percorso di pentimento e di purificazione, segnato da diverse tappe, nelle quali la coscienza dantesca sarà sottoposta a sofferenze, a dolori e, infine, alla confessione finale davanti a Beatrice nel Paradiso terrestre, seguita dall’immersione nel Lete per dimenticare i peccati commessi e nell’Eunoè per ricordare le buone azioni.
Il dramma dantesco dell’esilio continua anche nel Paradiso dove il suo stato d’animo sarà sottoposto a una delle prove più drammatiche: la conferma ufficiale del suo esilio nelle parole del trisavolo Cacciaguida.
Tutti questi passaggi, nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, compongono il processo per la riconquista della rinascita a una salvezza perduta.
Nella ricerca di una redenzione gioca una funzione determinante il libero arbitrio.
La libertà è un dono dato da Dio all’uomo: «Lo maggior dono che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate / più conformato, e quel ch’e’ più apprezza, / fu de la volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, /e tutte e sole, fuoro e son dotate».
La Commedia è il viaggio della libertà. «Libertà va cercando», dirà Virgilio a Catone nel primo canto del Purgatorio. E nel canto sedicesimo sempre del Purgatorio, nell’incontro con Marco Lombardo, si affronta il tema del libero arbitrio, di cui è responsabile l’uomo. Grazie a questa facoltà l’uomo può compiere il bene oppure il male e quindi le azioni terrene derivano dall’uso che l’uomo farà di questa libertà.
Le azioni umane non sono determinate dalla necessità, ma dalla volontà dell’uomo stesso.
A Dante, infatti, che aveva chiesto se la perdita di ogni virtù e la diffusione della «malizia» nel mondo siano causate dagli influssi astrali oppure dal comportamento degli uomini, Marco fa notare: «Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio». E più avanti in maniera ancora più esplicita: «A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura».
I Greci avevano incatenato Prometeo sulle rupi del Caucaso perché aveva usato la sua libertà per insegnare una tecnica (τέχνη) eccessiva agli uomini a danno della necessità (ἀνάγκη), che coincide con l’ordine naturale, con le leggi della natura. Dante, figlio di un mondo ormai cristianizzato, possiede un concetto più esteso della libertà.
La libertà è il principio guida della Divina Commedia e in funzione della libertà vanno interpretati i personaggi e le loro storie. Virgilio stesso ritorna sull’argomento nel XVIII del Purgatorio: «Color che ragionando andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate;/però moralità lasciaro al mondo. / Onde, poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s’accende, / di ritenerlo è in voi la podestate». L’uso della libertà quindi è governato dalla volontà umana.
Il problema della giustizia.
Sul rapporto tra giustizia umana e giustizia divina la posizione dantesca è rivoluzionaria perché mette in discussione i metodi di governo della giustizia umana e invita a riconoscere gli imperscrutabili disegni della giustizia divina.
Nel terzo canto del Purgatorio ricorda a quelli che emettevano sentenze senza fondamenti giuridici oggettivi o condizionati da gruppi sociali e politici, che «la misericordia divina ha sì gran braccia». Manfredi scomunicato dalla Chiesa è salvato dalla bontà divina: «Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei». Cunizza da Romano, nota per la sua vita dissoluta, si trova in Paradiso e in Paradiso c’è anche Raab, una prostituta.
I tre temi posti dalla domanda: libertà, giustizia e destino, sono concatenati perché reciprocamente possono aiutare il processo redentivo, ma se vanno in tensione tra loro potranno danneggiarsi vicendevolmente.
Trattandosi di concetti filosofici Dante usa un registro più narrativo, con cui sviluppa un procedimento dimostrativo per motivare le sue posizioni, senza perdere chiaramente la resa poetica.
Nel canto XVI del Purgatorio, Dante discorre del libero arbitrio con Marco Lombardo e ricorre a un procedimento metodico, la cui struttura logico-dimostrativa è articolata in un’opinatio (coniectura) falsa, in una propositio, in una demonstratio, in un’opinatio (coniectura) vera e una conclusio.
Si tratta di una narratività chiarificatrice perché doveva essere intercettata immediatamente dagli operatori di giustizia e dai maestri delle scuole del tempo, con la differenza che, mentre le quaestiones discusse in ambito scolastico seguivano un procedimento deduttivo e quindi dall’universale al particolare, per cui dopo la discussione si finiva per dimostrare un’idea già data, nei procedimenti adottati da Dante sulle tre fondamentali idee della libertà, della giustizia e del destino, usa un procedimento induttivo, dal particolare all’universale, cioè parte dall’esperienza per dimostrare una verità generale.
Redenzione, libero arbitrio, giustizia e destino sono momenti decisivi della visione dantesca.
In Dante non c’è predestinazione. L’uomo ha il potere di usare la sua libertà. La grazia divina gli offre la forza delle sette virtù (cardinali e teologali) per potere indirizzare questa facoltà verso il bene; gli offre la ragione per guidarlo nella conquista della felicità terrena; gli offre un modello di giustizia, che sappia giudicare in  maniera corretta le azioni umane e non trascuri il valore della misericordia; gli ha offerto un figlio, morto sulla croce per redimere l’umanità, e risorto per ridare dignità al corpo umano e per offrire all’uomo la possibilità di una  rinascita, del  riscatto e della salvezza. Ma l’uomo, proprio grazie alla libertà, che è solo sua, può decidere di intraprendere anche altre strade e nessun destino glielo potrà impedire.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 1, gennaio 2025, anno XV)