«Sindrome Italia». Storia delle nostre badanti. Dialogo con Tiziana Francesca Vaccaro

Chi sono le donne che arrivano dalla Romania, dalla Polonia, dall'Ucraina, dalla Moldavia in Italia? Chi sono state prima di diventare coloro che definiamo badanti? Cosa lasciano nel loro Paese? Cosa immaginano per il loro futuro?
«Sindrome Italia» è il termine medico usato per indicare l'insieme di malattie invalidanti che colpisce le donne dell'Est che condividono una storia precisa: gli anni vissuti come migranti in Italia, lavorando come colf e assistenti familiari, lontane dalle loro famiglie e dai loro figli.
Dalla Romania all'Italia, passando per Palermo e Milano, Sindrome Italia (BeccoGiallo, Padova, 2021) è il racconto in prima persona degli anni trascorsi da Vasilica in Italia e del suo amaro ritorno, delle cicatrici che la migrazione ha portato con sé, di una femminilità impegnata in una lotta perenne.
L’autrice è Tiziana Francesca Vaccaro. Classe 1984, catanese di origine, vive e lavora a Milano. Scrittrice poliedrica e attrice teatrale, nel 2008 si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica Umberto Spadaro del Teatro Stabile di Catania e si laurea in Scienze per la Comunicazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Catania. In costante formazione e trasformazione e, spinta dal desiderio di unire le sue due grandi passioni, il teatro e il sociale, nel 2014 consegue il Master di Teatro Sociale e di Comunità presso l’Università di Torino. Nel 2015 scrive e va in scena con lo spettacolo Terra di Rosa - vite di Rosa Balistreri, in tournée in Italia e in Europa e vincitore di diversi premi nazionali, divenuto in seguito la drammaturgia a fumetti Terra di Rosa - vite di uno spettacolo. Nel 2019 scrive ed è interprete dello spettacolo Sindrome Italia. O delle Vite Sospese che nasce da una riflessione sulla migrazione femminile proveniente dall’Est Europa e che diventa nel 2020 il graphic novel Sindrome Italia. Storia delle nostre badanti, in collaborazione con la fumettista Elena Mistrello e Becco Giallo Editore. È conduttrice di laboratori teatrali per i quali collabora anche con Sciara Progetti Teatro in Emilia Romagna e le realtà milanesi Teatro degli Incontri e Qui e Ora Residenza Teatrale, quest’ultima attiva sul territorio della bergamasca e riconosciuta nel 2018 dal MIBACT come «impresa di produzione di teatro di innovazione». È membro di C.Re.S.Co, rete di coordinamento delle realtà della scena contemporanea.

Sindrome Italia: qual è l’origine del titolo della sua narrazione? Un Paese è foriero di patologia?

Col termine Sindrome Italia, detta anche la «malattia delle donne dell’Est», si intende quel «complesso di malattie mentali invalidanti, con ideazione persecutoria, di maltrattamenti e ossessioni ricollegabili alle attività lavorative svolte in Italia». La definizione è stata coniata nel 2005 da Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, due psichiatri ucraini, quando intuiscono che due donne in cura nel loro reparto presentano un quadro clinico diverso dagli altri. Sintomi che hanno imparato a riconoscere in anni di attività (cattivo umore, tristezza persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza, e fantasie suicide) si innestano su una frattura del tutto nuova, che mescola l’affievolirsi del senso di maternità con una profonda solitudine e una radicale scissione identitaria. Gli psichiatri si rendono conto che queste donne sono madri e in comune hanno una storia precisa: gli anni vissuti come migranti in Italia lavorando come colf e badanti, lontane dalla loro famiglia e dai loro figli. Hanno in comune il ritorno nella terra d’origine e quel momento preciso in cui realizzano di non sapere più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengono, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata. Sicuramente stona un po’ sentir parlare del nostro Paese come portatore di una malattia, di un disagio, ma è altrettanto vero che è in Italia che queste donne lavorano spesso senza tutele, senza diritti e le famiglie italiane che le accolgono, che hanno bisogno di loro, al tempo stesso non vengono messe nelle condizioni economiche di sostenere il lavoro di cura come si deve. È insomma un circolo vizioso, il problema è strutturale, sta a monte, nello Stato che non sostiene né le famiglie/datori di lavoro né le badanti.

Il suo lavoro di ricerca incede su due binari paralleli: la silloge del materiale medico-scientifico e la raccolta di colloqui, testimonianze, storie. Quali sono gli elementi ricorrenti e, pertanto, di congiunzione?

L’elemento di congiunzione più forte è sicuramente l’arte. Nei miei lavori di scrittura lavoro sempre così. Parto dalla ricerca delle fonti, che a volte sono storiche, altre scientifiche, e/o antropologiche, sociologiche, per poi intrecciarle con il lavoro di inchiesta, le interviste alle persone, protagoniste o testimoni di storie ed esperienze di vita che hanno a che fare col tema attorno a cui sto lavorando. Nel caso specifico, la «Sindrome Italia» è un fenomeno complesso, non ancora riconosciuto a tutti gli effetti come una malattia, nonostante di malattia si parli. Quando ho iniziato la ricerca, ormai più di tre anni fa, ancora poco o per nulla in Italia si parlava della Sindrome Italia. I reportage bellissimi – penso a quello di Francesco Battistini per «il Corriere della Sera», o ancora quello su «Alias», l’inserto de «Il manifesto», e quello dopo ancora su «L’Espresso» – sono stati realizzati solo di recente, negli ultimi due anni. C’era solo un documentario, devo dire fatto molto bene, mandato in onda dalla Rai. Fortunatamente diverse ricercatrici delle Università – Raffaella Sarti, Francesca Vianello, per citarne qualcuna – scrivevano già di migrazione femminile, di diritti del lavoro, di cura. Ma sulla Sindrome nello specifico, qui in Italia, ho fatto molta fatica a trovare qualcosa che non fosse in lingua romena, e quindi tutto il processo di documentazione delle fonti è stato davvero faticoso. Quasi contemporaneamente è arrivato il prezioso aiuto di Silvia Dumitrache, attivista e fondatrice dell’Associazione Donne Romene in Italia, conosciuta a Milano, che mi ha fatto da ponte facendomi conoscere diverse donne, con le esperienze più disparate, eppure per molti punti quasi identiche, di cui ho raccolto le testimonianze. Sono storie forti, drammatiche, per questo un’altra difficoltà, oltre al reperimento fonti, è stata quella della scelta del linguaggio. Come faccio a far arrivare questo fenomeno senza che lo spettatore o il lettore rischi di annoiarsi, di allontanarsi o, peggio ancora, di non voler avvicinarsi per nulla? – mi sono chiesta. Ecco che l’elemento di congiunzione non poteva che essere l’arte. Da qui l’idea dello spettacolo teatrale prima e del fumetto dopo. Corpi, parole, disegni per raccontare. Arte che avvicina, bellezza che racconta bruttezza.

«In apnea. È così che mi sento da quando sono tornata in Romania. Ho scoperto di avere questa cosa, questa Sindrome Italia, come tante altre donne, partite per lavoro e poi mai davvero tornate». Così si esprime Vasilica Baciu, la protagonista. Cos’accade alle badanti una volta rientrate nel loro paese d’origine?

Alcune – la maggior parte direi – non si riconoscono più. Non riconoscono la donna, la moglie, la madre che erano 10, 15 anni prima. Così come non riconoscono i figli, lasciati bambini e ormai uomini. Troppi i dolori, gli strappi. Troppi gli anni e le fatiche della vita in Italia. E allora iniziano a star male. Quel senso profondo di solitudine, di confusione si trasforma in ansia, paranoia, depressione. E, nei casi estremi, in bipolarismo, schizofrenia, tendenze suicide. Questi sono solo alcuni dei sintomi che alcune di loro manifestano e che le accomunano, legati appunto alla sindrome Italia. Ma tante donne – mi hanno confidato – non sanno neanche cosa sia questa sindrome, cosa accade al loro corpo e alla loro mente, a volte stanno male e non capiscono perché. D'altronde qui in Italia non hanno tempo (e fiducia) per andare dal dottore e lì, a casa loro, in Romania, il costo dei servizi socio-sanitari è troppo alto e non esiste alcun tipo di sostegno economico alle migranti che hanno dovuto lasciare il proprio paese. È stata Vasilica, la protagonista del libro, a dirmi una volta che si sentiva in apnea, quasi come fosse sott’acqua. Immersa dentro una vita che non riconosceva più come sua e in cui rischiava di annegare.

In Italia sono 1.700.000 le donne migranti: filippine, sudamericane, ucraine, polacche, moldave, romene. Quale ruolo assumono gli Acli Colf rispetto alla loro tutela?

Le ACLI COLF sono Associazioni che organizzano le collaboratrici e i collaboratori familiari e si occupano anche di fare da intermediari nelle relazioni con i datori di lavoro, a tutela ovviamente degli interessi e dei diritti di entrambi. Fanno quindi un lavoro prezioso di intermediazione tra le famiglie e le badanti, tessono reti, relazioni. Cercano di conoscere profondamente entrambe le parti, le esigenze per esempio che ha una famiglia e le disponibilità di una badante rispetto a un’altra e poi le mettono insieme. Così diventa più semplice per entrambe le parti, sia per le donne trovare lavoro e una casa che le accolga serenamente, sia per le famiglie avere un aiuto che corrisponda più possibile ai loro bisogni. Nel mezzo c’è chiaramente il fattore umano, la relazione, spesso molto forte, che si viene a creare. È una fortuna che da qualche anno ci siano le Acli perché prima molte donne che arrivavano in Italia erano spesso allo sbando, non sapevano dove andare, a chi rivolgersi per trovare lavoro. E dal canto loro, le famiglie incontravano molta più difficoltà nel trovare un’assistente familiare e spesso, nell’urgenza del bisogno, si mettevano in casa la prima persona che capitava, con cui, il più delle volte, si instaurava una relazione infelice.

Sindrome Italia. Storia delle nostre badanti è un graphic novel. Quali sono le ragioni sottese alla scelta d’una narrazione illustrata?

Io ‘nasco’ come autrice, attrice e conduttrice di laboratori teatrali. Mi piace partire da un tema che mi interessa per poi andare a declinarlo in tutte le sue possibilità. Così come è mio forte desiderio, ogni volta che creo qualcosa, arrivare al cuore di più persone possibili, dalle signore di una certa età agli adolescenti, per fare un esempio. E, pensando molto anche ai ragazzi, da amante delle sperimentazioni, degli ibridi, delle miscele di linguaggi, ho iniziato un giorno a vedere la storia di Vasilica disegnata. A vederla nitidamente, vignetta dopo vignetta. «Ma come si può far vedere una malattia con i disegni?» Questa è la domanda che ho fatto un giorno a Elena Mistrello, autrice dei disegni e mia compagna in questo progetto. Elena, a cui mi lega un forte feeling nato in precedenti collaborazioni, mi ha risposto così: «Semplicemente disegniamola». Scrivere un fumetto, però, è sicuramente molto diverso da scrivere una drammaturgia, a maggior ragione se il testo, come nel mio caso, è un monologo per sola attrice. Prima di mettere nero su bianco quindi ho studiato sceneggiatura, come sempre ogni volta che mi avvicino a un nuovo linguaggio. L’ho studiato a fondo, volevo e dovevo conoscerlo bene. A quel punto è partito un altro viaggio ancora, in cui hanno preso vita le rane, l’acqua, i colori.






A cura di Giusy Capone
(n. 9, settembre 2021, anno XI)