In dialogo con Stella Poli sul suo romanzo d’esordio, «La gioia avvenire»

In Femminile plurale dialoghiamo Stella Poli sul suo libro d’esordio, La gioia avvenire (Mondadori, 2023), finalista alla XXXIV edizione del Premio Italo Calvino. Un libro che tiene insieme la densità e il suono della scrittura poetica e la finezza analitica della prosa. Una riflessione coraggiosa sul consenso, sulla fallibilità della giustizia umana e sulla persistenza delle ferite, ma, come ha scritto la giuria del Premio Calvino, soprattutto «un romanzo di grande intensità emotiva, reso particolarmente efficace dalla lingua scabra e spigolosa con cui è costruito».
Nadia aveva quattordici anni quando la sua storia si è inceppata. Nascondeva le forme sotto felpe da basket, era brava a scuola e cantava nel coro della chiesa. Un giorno un quarantenne sposato, amico del padre, ha cominciato a corteggiarla. È stato un avvicinamento lento, fatto di movimenti minuscoli, sguardi. Lei all’inizio non ha percepito il pericolo, era curiosa, provocare turbamento in un uomo l’ha fatta sentire bella, vista. «Vorrei poter dire che mi ha colta di sorpresa, mi ha sopraffatta con la forza, mi ha picchiata» scrive. Invece sulla sua macchina la prima volta ci è salita da sola. Quando ha capito, era troppo tardi. Ci sono voluti mesi, poi, prima che trovasse la forza di sottrarsi. E ci è voluto molto più tempo prima che fosse davvero pronta per denunciare.
Ecco perché la sua psicoterapeuta, Sara, oggi è in uno studio prestigioso nel centro di Milano: vuole un parere legale. È troppo tardi per cercare giustizia? Forse, pensa mentre il colloquio con l’avvocato fa affiorare un’altra verità, raccontare questa storia è già una forma di riparazione.

Stella Poli è nata a Piacenza nel 1990. È assegnista di ricerca in linguistica italiana presso l’Università di Pavia e insegna poesia contemporanea nel master editoriale MasterBook. È nella redazione di «Trasparenze» e «La Balena Bianca». Suoi racconti sono usciti su numerose riviste, fra cui «inutile», «‘tina», «l’inquieto», «narrandom», «Nuova Tèchne». 


«Una delle poche cose che ho capito. Che l’unica cosa che dobbiamo tenerci saldissima è questa: concederci, soprattutto concederci, non che ci concedano, di scegliere. Rinegoziare, sottrarsi. Cambiare idea». La gioia avvenire è dolore, mestizia ma anche dolcezza. Le crepe dell’animo possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Mi pare che sia una sorta di adagio consolatorio, quello delle ferite (o delle crepe) che rendono migliori, più forti, più sensibili o qualcosa così. No, non credo che portino beneficio, credo che possano essere rimarginate, ma il costo di sofferenza, la fatica, le ricadute, i meccanismi sempre un po’ sghembi non c’entrano col bene.


Le sue pagine conservano un’impostazione senz’altro laica, tuttavia il focus attentivo è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva. Cosa l’ha indotta a valicare i confini del pudore che protegge, solitamente, l’animo umano, nella fattispecie muliebre?

Io credo nel pudore delle cose grandi o importanti, ma serve distinguere il pudore dalla vergogna. (Non sono sicura che sia qualcosa di particolarmente femminile, fra l’altro, il pudore). Ho pensato che la storia di Sara, o Nadia, o Elena, o chi per loro, andasse raccontata. Mi pare che loro non debbano vergognarsi di nulla, mi pare che non siano loro a doversi vergognare.
Poi sì, l’impostazione è senz’altro molto laica. Se s’intravede una mezza brezza di speranza, è una speranza molto terrena, molto umana.


«Vorrei poter dire che mi ha colta di sorpresa, mi ha sopraffatta con la forza, mi ha picchiata». Lei tocca il confine sottile tra consenso e violenza. Qual è il sentire comune rispetto allo stupro, oggi, stanti le campagne d’informazione promosse da stampa, istituzioni e social network?

Posso dare solo una risposta parziale e personale. Mi pare positivo che si parli di alcuni temi, trovo che, in generale, il dibattito in Italia sia ancora molto poco avvertito. La cronaca spesso racconta violenze in maniera scorretta, mette la vittima sul banco degli imputati. Forse le campagne di denuncia e consapevolezza di questi anni potranno essere l’inizio di un, necessario, cambiamento culturale.


Il suo romanzo d’esordioè un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Non ho scritto per tratteggiare un modello ideale, non credo nella letteratura a tesi. Credo che i rapporti umani siano imperfetti, contraddittorî, spesso opachi anche alle persone coinvolte. Ma anche, forse, come accade nel romanzo, qualcosa che aiuta a ricostruirsi o ricostruire baricentri meno pencolanti.


Lei inanella la corposità e il suono peculiari della scrittura poetica con la sottigliezza analitica della prosa, adoperando uno stile prevalentemente paratattico. Artificio retorico o gesto istintivo?

Istintivo, senz’altro. Penso che ciascuno di noi abbia un «passo sintattico» peculiare. Il mio è spesso molto asciutto, a volte asciugato ulteriormente rileggendo o editando.


La storia narrata è anche un’analisi tagliente della giustizia umana. Quali riflessioni dovrebbe compiere il legislatore in merito alla violenza in qualsiasi forma perpetrata?

L’idea che ci sia una finestra limitata per le denunce, per quanto dettata da comprensibili ragioni pratiche, potrebbe essere ripensata: spesso ci vuole tempo per capire cosa sia accaduto, per dargli il nome giusto o per decidersi, appunto, a sporgere denuncia.









A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 2, febbraio 2023, anno XIII)