Stelian Ţurlea: «Chi non ha interesse per la cultura è destinato a non avere futuro» Stelian Ţurlea è scrittore, saggista e, in passato, anche direttore di produzione tv. Laureato alla Facoltà di Lingue Romanze (francese-spagnolo) e alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Bucarest, sin da giovane si è affermato come giornalista e commentatore politico, per quasi tre decenni redattore di politica estera presso la prestigiosa rivista «Lumea» che, dopo la rivoluzione del 1989, ha anche diretto, seguita dalla direzione della rivista «Zig-Zag» e del giornale «Meridian». Successivamente si è dedicato alla televisione, dirigendo il notiziario del canale «Antena 1» per diventare, quindi, direttore editoriale del canale ProTV. Nel 2000 è diventato senior editor del settimanale «Ziarul de Duminică». Per la sua attività nel giornalismo e nella televisione ha ricevuto i più importanti premi romeni del settore. Stelian, a quanto pare il 2016 seppellisce due progetti culturali generosi e benefici, entrambi nati nel 2000 e che il pubblico considerava ormai una presenza irrinunciabile nell’agenda personale: il programma tv «L’uomo che ci porta il libro» (dello scrittore e critico Dan C. Mihăilescu) e il tuo «Ziarul de Duminică». La motivazione, nei due casi, sembra essere di ordine economico. Che cosa ci segnala questo fenomeno e che tendenze sembra suggerire, incluse le conseguenze a lungo termine? La similitudine delle due situazioni non è un caso e probabilmente io sono uno dei più autorizzati a parlarne. Nell’autunno del 1999, quando ero direttore editoriale del canale ProTV, in seguito a un incontro a quattro, con Adrian Sârbu, Nicolae Manolescu e Gabriel Liiceanu, ho cominciato a preparare il programma L’uomo che ci porta il libro. (Il mio amico Dan C. Mihăilescu ha evocato così tante volte questo inizio che non ha senso che lo ricordi un’altra volta qui). Il programma è esordito nel gennaio 2000 e ha sofferto molti tentativi di farlo sopprimere, per varie ragioni – cui mi sono sempre opposto – bastanti per un’intervista esclusiva. Nel 2014 Adrian Sârbu ha lasciato ProTV e, dopo alcuni mesi, l’ho lasciato pure io, e dopo un po’ più di un anno «L’uomo che ci porta il libro» veniva soppresso, come dicevi, per ragioni finanziarie – sebbene il programma costasse pochissimo rispetto alle grandi produzioni. Ma quando le ragioni economiche sono le sole a contare e chi decide guarda solo al risparmio, non c’è via di scampo. Mentre Dan C. Mihăilescu sembra guardare la ricordata soppressione con la serena rassegnazione di chi si è sempre meravigliato che un tale programma potesse sopravvivere, tu, al contrario, la vivi con la frustrazione di chi era convinto della necessità del proprio progetto. I due atteggiamenti hanno a che fare solo con le vostre diverse indoli, oppure la giustificazione dei due progetti era o era diventata diversa? Per natura io sono un ottimista. Ci saranno sempre delle persone che queste cose le capiranno. Purché non agiscano troppo tardi. Dan C. Mihăilescu se ne è convinto e dopo breve tempo ha trovato una ditta tanto intelligente da investire in un altro programma dello stesso genere, «Il libro delle 5». E io auguro lunga vita anche a questo programma. Però quanto alla rinascita del «Ziarul de Duminică» io, a dispetto del mio innato ottimismo, rimango scettico. È molto più difficile riprendere da capo un progetto di giornale o di rivista che continuarne uno già affermato e che la gente è abituata a cercare. Che cosa ha significato veramente per te, per il giornalista e uomo che sei, «Ziarul de Duminică»? Ha significato tantissimo. Non voglio essere patetico, ma quando ho saputo della soppressione qualcosa dentro di me si è lacerato. 16 anni non sono pochi! Soprattutto perché ci ho messo l’anima. Negli ultimi due anni, al 90 per cento lo scrivevo da solo. C’erano in media trenta articoli alla settimana; io li scrivevo e li firmavo o con il mio nome o «Ziarul de duminică» (perché sarebbe stato imbarazzante firmarli tutti S.Ţ.), oppure ricevevo i testi e li mandavo ai miei pochissimi collaboratori. Ma la vita va avanti! Aggiungerei ancora due cose importanti: con gli anni «Ziarul de Duminică» non ha cambiato né formato né contenuto. Ha mantenuto le opzioni e le direzioni originarie, non badando alle critiche: molta informazione, testi brevi, argomenti di valore, serenità, equidistanza e sintesi delle polarità. Questa pubblicazione non ha conosciuto destra e sinistra, ma solo cultura. Nelle sue pagine centinaia di artisti (scrittori, attori, registi, compositori, storici, scienziati ecc.) si sono espressi, si sono confessati. Tutto quello che, in tanti anni, è successo di importante nella cultura letteraria, artistica, musicale ecc. ha trovato posto in quel giornale. Migliaia di pagine a testimonianza della cultura di questa nostra transizione. In breve, «Ziarul de Duminică» ha significato molto. Non è il caso di ricordare qui i successi, i premi, le piccole sconfitte, le speranze, le ambizioni, l’invidia di tanti, spesso confessata, le centinaia di collaboratori, il fior fiore dell’intellettualità romena. 827 numeri, ossia altrettante settimane. Una vita! Sono fiero di questo giornale. Torniamo allo scrittore Stelian Ţurlea, non per farti dimenticare il giornale, ma perché io credo che prima di tutto tu sei scrittore. E ti faccio una domanda sicuramente già posta da altri: che cosa ha regalato il giornalista allo scrittore e lo scrittore al giornalista nei 48 volumi finora pubblicati? Sono così tanti? Da un decennio ho smesso di contarli, soprattutto perché negli ultimi anni ho pubblicato due-tre libri all’anno. I due mestieri si sono intrecciati, non sono l’unico a dirlo né l’unico cui è successo. In quanto giornalista ho osservato da vicino molti fatti cui altre persone, con altri mestieri, non hanno accesso o non badano, e le ragioni di tali fatti sono penetrate nella mia narrativa. Il giornalismo ha influito in quasi tutto quello che ho scritto, anche nello stile (con una sola eccezione, lontana), rapido e non sofisticato. E viceversa, la letteratura mi ha obbligato a guardare la realtà con altri occhi. Ma preferisco non teorizzare troppo, non qui. Vista nel complesso, a mio parere la tua creazione letteraria ha, come principale caratteristica (se non è un paradosso), la diversità. Sei un autore versatile e sperimentatore: dai libri magici per bambini ai gialli, dalla ricostruzione storica del regno di Carlo I di Romania a quella finzionale della Romania del dopoguerra letta nel destino di tre generazioni di donne; dal racconto giocoso della ragazza che vuole buttare giù dal treno la sorella, alla costruzione massiccia e narrativamente complicata del Dono di Ioana. Perché questo prurito di cambiare sempre? Come ben sai, io ha fatto la facoltà di lettere, e chi ne esce diventa quasi sempre professore. Io non ho insegnato nemmeno un giorno e il motivo è semplice: abborro la routine. Ammiro chi fa questo mestiere, ma io ho sempre sentito di non poter ripetere, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le stesse cose, quali che fossero le soddisfazioni. Ho avuto paura di non farcela. Come giornalista, fai continuamente un’altra cosa, perché la realtà cambia di continuo. O almeno così mi illudevo all’inizio. L’orrore della routine si è trasmesso anche ai miei scritti: ho evitato che un mio libro somigliasse a un altro, come genere, come tema, struttura e stile. E credo di esserci riuscito se tutti i critici che hanno commentato i miei volumi (e a tutti sono grato per questo) hanno osservato che nessuna delle mie opere assomiglia alla precedente e che è difficile collocarmi in una scuola, in un canone, in un «insettario». Naturalmente, così si corre il rischio di essere messo da parte, di essere dimenticato. Io questo rischio l’ho affrontato. Eppure sono felice che nessuno dei miei libri sia passato inosservato, nessuno di cui non si sia scritto almeno una volta. All’Italia hai dedicato un libro di viaggio (Italia mia, 2001) e un giallo (Delitto a Torino, 2014), mentre il romanzo In assenza del padre, pubblicato nel 2009, è apparso nel 2013 anche in Italia (tradotto dalla scrittrice romena di lingua italiana Ingrid Beatrice Coman, presso la casa editrice Rediviva di Milano). Che significa veramente per lo scrittore sensibile e immaginoso che sei, l’Italia? Le origini. E non solo. Quando ero alle elementari ho scoperto nella cassa piena di vecchi libri di una mia zia alcuni manuali di grammatica e di letteratura latina per il ginnasio e il liceo del periodo interbellico, e rimasi affascinato dai racconti e dalle illustrazioni che presentavano la vita dei romani. La conseguenza fu che lessi molto presto la storia e la letteratura latina, che in me hanno lasciato segno, passando poi quasi naturalmente alla letteratura italiana. Non credo di aver letto, per fare un solo esempio, nessun libro tante volte quanto ho letto Boccaccio (ma è questione di gusto!). Ho sentito sempre un’attrazione speciale per lo spazio italiano, soprattutto per quello culturale, come credo risulti anche dall’opuscolo di venti anni fa sul mio viaggio in Italia. Io l’Italia la adoro e vi andrei il più spesso possibile con indicibile piacere. Con lo stesso piacere con cui vado ogni estate a Şimon, nei pressi di Bran, per scrivere e contemplare la montagna dalla quiete del giardino. Per il giornalista Stelian Ţurlea, per tanti anni osservatore della politica e delle realtà esterne alla Romania, autore di tanti volumi e di penetranti analisi del mondo contemporaneo, cosa significano l’Italia e la sua complessa realtà? Non sarebbe utile a noi, romeni, conoscerla meglio? Non voglio fare lo specialista, esprimo solo la mia opinione di persona qualunque: noi romeni faremmo bene, in genere, a seguire certi comportamenti degli altri. Anche degli italiani. Siamo molto simili agli italiani nel nostro essere profondo, ma molto lontani nel nostro atteggiamento politico. Per venticinque anni ho fatto il giornalista di politica estera, abbastanza per convincermene. Anche gli italiani hanno avuto le loro crisi, i dissidi fra i vari partiti, le cadute di governo, numerosissime; però la società è andata avanti, non si è bloccata e, benché chiamata alle urne dieci volte in un decennio, non si è disperata. Questo dovremmo impararlo anche noi. La corruzione c’è stata e c’è anche da loro, eccome!, ma gli italiani hanno saputo creare, per combatterla, delle istituzioni che non sono accusate di fare il gioco dell’uno o dell’altro, di solito dell’avversario di chi accusa. Persino questo ci farebbe utile, purché noi sapessimo e volessimo imparare. Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian (novembre 2016, anno VI) |