In uscita, «Artigli e paure» di Ștefan Mocanu. Intervista all’autore

«Anche per il lettore la poesia può essere un’evasione, ma un tipo di evasione speciale che stimola a riflettere e non costituisce una fuga da sé o dai problemi della vita, ma piuttosto la magnifica occasione di dialogare con sé e con l’autore in un ideale circolo ermeneutico». Così Ștefan Mocanu, poeta e giornalista, nato nel 1967 a Râmnicu Sărat, in Romania. Dal 2004 abita in Italia, ad Arezzo. Ha pubblicato le raccolte poetiche Ossa di luce (Transeuropa, 2019) e Disincanto programmato (Nulla Die, 2020), tradotte in italiano dal poeta e scrittore Massimo Triolo.
A luglio esce, sempre per Nulla Die, il volume Artigli e paure, in riferimento al quale Ștefan Mocanu ci ha confessato, nell’intervista che qui pubblichiamo: «È frutto diretto di una mia personale evoluzione stilistica e contenutistica, e vi sono all’interno, a differenza delle altre pubblicazioni, tre lavori in prosa che oscillano tra interrogativi filosofici, metaletterari, e un lirismo febbrilmente fantasioso».
         


Lei scrive versi.
Come e quando prendono vita e quali sono gli umori che ne accompagnano la stesura?

Tutto prende le mosse da un’immagine o uno stato d’animo. La prima cosa che faccio è rovesciarne il senso e l’identità per il verso di una messa in scena dell’assurdo. Poi improvviso sulla scorta di ciò che nasce come abbrivio. Mi preoccupo di non cadere nella trappola di scrivere versi ordinari, o troppo enfatici e retorici. Aggiro l’ovvio, trasformo le sembianze, anche quelle dell’ordinario, in qualcosa di apparente mente illogico o paradossale.


I suoi versi narrano quasi d’una atemporalità, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge. La vita umana vive una costante condizione di anonimato?

I miei versi non evocano contesti e vite anonimi, v’è piuttosto un velo di Maya che va squarciato per conferire ai soggetti delle mie poesie un loro senso e statuto d’esistenza: possibilmente non compromesso da un’ascendenza storica evenemenziale e irrevocabile.


A quali poeti, romeni o stranieri, si sente più vicino e per quale ragione?

Ho trovato similitudini con il mio personale registro poetico in autori come Marin Sorescu, Mircea Dinescu e ultimo, ma non per importanza, Nichita Stănescu. Sorescu aveva uno stile ermetico che ho molto apprezzato; per la sua disinvoltura a livello espressivo, Dinescu resta davvero unico. Stănescu, invece, aveva uno stile che non si poteva non amare: semplice, diretto ma con metafore straordinarie e ardite.


Lei vive da molti anni in Italia. Qual è il suo rapporto con la lingua italiana?

Vivo in Italia dal 2004. Parlo un buon italiano e mi sono esercitato con letture in lingua italiana, ma devo riconoscere che il mio lessico deve ancora arricchirsi.


Cosa significa per lei scrivere in italiano rispetto a scrivere in romeno?

Scrivo in romeno e con l’aiuto del mio amico Massimo Triolo, traduco poi in italiano. La nostra collaborazione è straordinaria e fruttuosa, e dà corpo a una traduzione brillante e non pedissequa.


In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?

Per l’autore è una fuga dalla routine, ed egli scaccia come mosche i pensieri pesanti e scomodi che questo modello di società innesca. Anche per il lettore può essere un’evasione, ma un tipo di evasione speciale che stimola a riflettere e non costituisce una fuga da sé o dai problemi della vita, ma piuttosto la magnifica occasione di dialogare con sé e con l’autore in un ideale circolo ermeneutico.


Qual è il significato più profondo del Disincanto programmato di cui parla la sua raccolta poetica più recente?

Diventeremo tutti programmabili e programmati? Viviamo già in un ambito in cui la nostra zona affettiva e relazionale è all’insegna di vacui automatismi, e il pensiero, le opinioni, sono merce. Recuperare un senso più umano dovrebbe essere un imperativo morale.


Ci può anticipare qualcosa sulla sua prossima uscita editoriale?

Uscirà a luglio per la Nulla Die, e si chiama Artigli e paure. È frutto diretto di una mia personale evoluzione stilistica e contenutistica, e vi sono all’interno, a differenza delle altre pubblicazioni, tre lavori in prosa che oscillano tra interrogativi filosofici, metaletterari, e un lirismo febbrilmente fantasioso.


Vorremmo concludere la nostra intervista con la poesia che desidera offrire ai nostri lettori come miglior invito a leggere i suoi versi.

A seguire la poesia che ho scelto. Nel finale v’è anche un richiamo ai Fiori del male.

Cicatrici

Ritorna la tempia dopo il vagabondaggio,
ed è tempia battente.
Percorrendo a ritroso la strada convalescente,
dove lo spettacolo presumibilmente senza fine,
la vede camminare con un pupazzo
arlecchinesco che veste cicatrici.
Le spalle troppo grevi,
sotto le ali impaurite,
occhi offuscati dalla polvere,
in cerca della perduta purezza di sguardo.
Tra le monete al gusto di eucalipto,
il bambino si racconta da solo la fiaba
della sua porzione di tempo annodato,
tra le dita parallele
germina l’aroma, mio ipocrita lettore,
che sarà la tua sofferenza.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)