In dialogo con Sorin Alexandrescu, nipote di Mircea Eliade In occasione della XXX edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il professor Sorin Alexandrescu, nipote del grande storico delle religioni Mircea Eliade, ci ha concesso l’ampia intervista che qui pubblichiamo. Professor Alexandrescu, quest'anno si celebrano i centodieci anni dalla nascita di Mircea Eliade. Al Salone Internazionale del Libro di Torino, Lei ha partecipato al lancio di due libri recentemente tradotti in italiano, Gli huligani (Jaca Book / Calabuig, 2016, trad. di Cristina Fantechi) e Tutto il teatro. 1939-1970 (Bietti, 2016, a cura di Horia Corneliu Cicortaș). Per cominciare, che posto occupa questo romanzo, pubblicato nel 1935, nel modernismo letterario europeo? Crede che questo argomento abbia superato la prova del tempo, e fino a che punto il romanzo è stato in grado di «uscire della modernità», come dice il titolo del capitolo conclusivo del suo Guardando indietro, la modernità? Ci sono più domande, alle quali rispondo con ordine. Secondo me il modernismo romeno è incarnato essenzialmente da due grandi scrittori: Camil Petrescu e Mircea Eliade. Certo, a loro potrei affiancarne molti altri, come Mateiu Caragiale ecc., ma questi due mi sembrano i più importanti. In secondo luogo, a me interessa il fatto che sono completamente diversi tra loro, ossia loro intendono il modernismo sia come problematica, sia come modo di raccontare cose diversissime. Ora, tornando a Eliade, il suo caso è leggermente diverso poiché lui parla sempre in nome di una generazione; Camil Petrescu, che aveva qualche anno in più, aveva un altro approccio. Camil è un solitario o agisce da solo, così ha sempre voluto essere, nonostante l'amicizia con Lovinescu che a un certo punto si guasterà. Mircea Eliade si è affermato tramite questa solidarietà; è proprio questo aspetto del suo romanzo che mi interessa, perché appunto si può parlare di una generazione o di un gruppo che era totalmente moderno. Io credo, in effetti, che non si trattasse di un fenomeno individuale, bensì di uno di tipo generazionale. Nel mio intervento, per quel che mi è riuscito di fare date alcune difficoltà tecniche, ho tentato di spiegare proprio questo, servendomi anche di un testo che ho scritto inserendo molte citazioni. Infine, vorrei ripetere qui quello che ho detto lì, che in realtà entrambi i romanzi, Gli huligani e Ritorno dal paradiso, sono stati scritti fra il 1934 e il 1935, quando il loro gruppo aveva già acquisito una certa notorietà, ma verso la fine, quando la rivista «Criterion» era sul punto già di chiudere. Sarebbe interessante vedere se Gli huligani, ovvero il secondo romanzo, esprima una sorta di epilogo di «Criterion», se si può leggere in questa ottica. Ebbene, Eliade ovviamente non poteva essere a conoscenza di questo secondo punto di vista, non aveva modo di sapere che cosa sarebbe accaduto, non poteva scrivere il romanzo per questo scopo. Ma noi oggi possiamo leggerlo in questo modo in virtù del fatto che, come si dice spesso, il senso di qualsiasi evento che ha luogo oggi troverà una sua conferma solo in futuro. Quello che a me sembrava moderno era soprattutto l’atteggiamento negativo, ovvero una vera e propria campagna sistematica contro tutto quello che rappresentava il tradizionalismo romeno. Non necessariamente contro «Gândirea» o qualcosa del genere, ma contro un’infinità di altre idee, come per esempio il fatto che non c’era alcuna possibilità di sfondare, per dire, culturalmente in un mondo del tutto falso, che non credeva in nulla, ma che era pronto a spiegare perché era impossibile e non a causa delle proprie debolezze, bensì per la tristezza della vita di provincia, del fallimento inevitabile. Be’, di sicuro esisteva questa situazione, non bisogna dimenticare che anche oggi in molti si lamentano che si fallisce a Giurgiu come in altre città vicino a Bucarest. Non credo che Eliade negasse questo fatto, lui semmai negava le conseguenze, ossia l'inevitabilità del fallimento di chi non vive a Bucarest; qualcuno poteva benissimo affermare che se eri a Bucarest, e non a Parigi, ci si trovava sempre in provincia e che comunque si era destinati al fallimento. E quindi penso che sia stata ignorata l’importanza di questo fatto, ossia che non si tratta solo della giustificazione della generazione in Eliade, ma anche un impulso dato ai giovani di osare a essere sé stessi pur vivendo in provincia o in qualsiasi altra città. Nel romanzo sono rintracciabili altri elementi del modernismo, intendendo con ciò anche fenomeni non tanto culturali quanto piuttosto legati alla vita pubblica e allo sviluppo sociale, come ad esempio la naturalezza con cui persone più o meno giovani consumano tutto ciò che viene dall’Occidente, sanno molto bene dove si possono trovare a Bucarest le migliori sigarette, fare compere non appena dispongono di denaro, raggiungere la città in treno anche se ciò scatena un raptus, come nel caso di Mitică e Marcella, la ragazza violentata dal primo. Anche se il fenomeno in sé è abietto, è impressionante la naturalezza con cui loro, e in particolar mondo Mitică, si recano a Vienna, parlando perfettamente il tedesco, quando questo ragazzo in realtà sembra solo un emerito farabutto. Voglio dire che la maniera di sentirsi a Vienna come a casa propria è impressionante anche se il tipo è moralmente poco raccomandabile. Sono questioni alle quali Eliade ha voluto dare espressamente un carattere contraddittorio, intendendo dire però che entrambe sono compresenti. Ma è ovvio che ci si chieda se sia sufficiente definire moderno un romanzo nel quale si narra che una donna parte per Vienna e parla un tedesco perfetto. Credo che esso contenga molti aspetti di questo tipo, e coordinati fra loro o disposti contemporaneamente contribuiscono a dare la stessa impressione. Ritengo però che questo romanzo sia moderno in primo luogo per ciò che non c’è, ovvero per la totale mancanza di omaggio alla tradizione, sia essa rurale o perfino bucarestina. I personaggi del romanzo sono persone che non vivono in una Romania tradizionale. La loro semplice esistenza è una prova che esiste almeno una parte della Romania che si trova al di fuori della tradizione. Che ciò sia un bene o un male Eliade non lo dice, ma ci indica che ciò può esistere. Anche per Camil Petrescu si può affermare la stessa cosa, incontriamo cioè nei suoi romanzi giornalisti, scrittori che si comportano allo stesso modo. Magari i restanti personaggi non erano così, tuttavia erano così, voglio dire che mi fa piacere che, a distanza quasi di novant’anni dalla sua pubblicazione, questo libro sia visto come un fenomeno perfettamente trasparente, di questo non c’è alcun dubbio. Esisteva anche un’altra Romania, quindi, anche se non era l’unica, assolutamente d’accordo, ma esisteva. Non c’era solo il mondo di Sadoveanu, no, c’era anche questo mondo. Un mondo emergente che l’autore scopriva e che ha rappresentato per il semplice fatto che lui era uguale a quel mondo, così come lo erano i suoi amici, ovviamente. Nel contesto del modernismo letterario, l’esperienza (il vivere) non è più qualcosa che accade al personaggio, è il personaggio che va a cercarla, la adopera come mezzo per riprodurre il senso (della propria identità, della temporalità cui essa appartiene). Secondo Charles Taylor, il centro di gravità epifanica inizia a muoversi dall’Io (Self) verso il flusso dell'esperienza, verso nuove forme di unità, come il linguaggio concepito come struttura autonoma e non come strumento. Possiamo ritrovare questo fenomeno ne Gli huligani di Eliade? Taylor centra in pieno questo passaggio dall’Io al sociale. Mi ricordo che i suoi problemi intellettuali e morali erano sociali, non erano strettamente individuali. Anche perché in quel momento o poco prima, Taylor era molto attivo nel sostenere i diritti dei francofoni in Canada (ad Amsterdam mi confidò che sua moglie era francese, e lui stesso parlava molto bene il francese). Da questo punto di vista credo che lui possa essere visto o collocato in questa posizione post-romantica, che non prende più in considerazione l'Io sentimentale, ma piuttosto l'Io narrativo o l'Io posto in diverse situazioni di appartenenza sociale. Ricorderei, però, anche il fatto, a cui tu probabilmente ti riferivi, che le tre fonti dell'Io moderno, descritte nel suo libro, Sources of the Self, The making of the modern identity (Radici dell’Io: la costruzione dell’identità moderna), 1989, sono secondo Taylor non solo l’interiorità (inwardness), ma anche la natura e la vita comune (the ordinary life). D'altro canto, lui parlava di un malaise della modernità e ha criticato la sua completa secolarizzazione. Lo dice al termine di questo libro e lo ripete in un altro, A secular age (L'età secolare), del 2007, in cui distingue la vita premoderna, quando era impossibile non essere religiosi, da quella moderna, nella quale la fede è una delle possibilità! Sono contento che tu ponga questo tema in discussione in quanto che i romanzi di Eliade apparentemente non lo fanno, il che è sorprendente per un filosofo della religione come lui. Vorrei aggiungere, però, che Eliade lo fa comunque, ma par la voie négative, per così dire, mostrando gli effetti della mancanza di interessi spirituali, ossia quello che Taylor stesso chiamava la necessità di un retrieval, di un recupero cioè della spiritualità. La tua osservazione apre una via per capire questi romanzi, un aspetto poco o per niente preso in considerazione finora, nel quale si potrebbe trovare anche una interpretazione conclusiva degli «huligani»: non solo l’affermazione illimitata dell’Io è il segreto della creazione, ma anche il recupero di vecchie attitudini oggi dimenticate. Sarebbe bello se tu continuassi su questa linea, se sei interessato [1]. Riguardo alla domanda se siamo in grado di trovare questi elementi ne Gli huligani, la risposta è sì, assolutamente, se si vuole confrontare Taylor con quei personaggi, il raffronto è molto azzeccato, per quanto io creda che lui fosse interessato non tanto alla letteratura, quanto piuttosto al saggio, alla psicologia, alla morale, e in misura minore alla letteratura. Nella linguaggio de Gli huligani possiamo trovare un rifiuto della soggettività romantica, costruita sull’armonia tra ragione e sensi? Se loro percepiscono una tale costruzione come deficitaria, nel romanzo si possono identificare altre strutture esterne all’Io (Self), là dove si muove il senso dell'esistenza moderna [2]? Sì, certo, ma non dimentichiamo che, alla fine del romanzo, l’esperienza huliganica dei giovani (tra i 24 e i 25 anni d’età) è considerata estremamente importante, nel senso che con la violenza e la negazione di tutte le norme sociali, perfino morali, si possono scoprire nuovi valori. Ma l’altro polo della discussione, David Dragu, che aveva 29 anni, gli stessi di Eliade quando scrisse il suo romanzo, è ovviamente lui che dice: sì, ma a questa età l’esperienza huliganica finisce e comincia l'esperienza della costruzione della famiglia, quindi un’esperienza di responsabilità. Qui c’è ovviamente un riferimento al breve episodio, burlesco ma anche drammatico, in cui l’amico Alexandru Pleşa, per mostrare quanto è audace, chiede di fidanzarsi con una ragazza che non conosce, e che lascia poco dopo. In questo episodio, Dragu prende le difese di questa ragazza, va addirittura da lei a un certo punto e le dice: forse è me che desideri, potrei magari prendere io il suo posto, affinché tu non rimanga da sola. Per fortuna, la ragazza è abbastanza saggia da non fare questo passo, che altrimenti si sarebbe potuto trasformare in fonte di nuovi dispiaceri. Voglio dire che questo modo di Dragu di intervenire in una situazione che non lo riguarda affatto, solo per evitare che una giovane donna pianga o divenga una vittima, è sintomo di una rinascita morale, ma non di tipo romantico o perché lui ne fosse innamorato, assolutamente no, ma per una sorta di dovere nei suoi confronti, nei confronti di una persona che gli stava accanto. Il gesto di Pleşa non resta quindi impunito da parte di David Dragu. Nel suo diario, Paul Klee parla di una nuova etica, di un'esaltazione del proprio Io e dei suoi impulsi, desideroso di manifestazioni di forza, di esuberanza e inventiva. Possiamo dire che gli huligani sono contemporanei di Klee, dei dadaisti, dei personaggi che incontriamo in Gide? Sì, senza dubbio nel caso dei personaggi di Gide, dei dadaisti non saprei. È certo una domanda che vale la pena porsi: essere dadaisti quando non si è artisti. Ci sono certi modi espressivi Dada che tendono a essere disumanizzanti, che creano solo figure quasi umane o puramente oggettuali. Il modo creativo dei dadaisti, che utilizzano e dispongono uno sopra l’altro svariati pezzi di cartone, secondo la tecnica dell’assemblaggio, denota un substrato specifico, vale a dire che non c'è più una logica preesistente dell’oggetto, ovvero che quando l'oggetto appare e soprattutto se lo si vuole trasferire sulla tela, è necessario rappresentarlo secondo una certa logica d’insieme, e tale oggetto deve essere un oggetto comune, quindi un tavolo deve avere quattro gambe, non tre o due, in altre parole si deve obbedire alla logica del mondo oggettuale in cui viviamo immersi. È evidente che nei dadaisti ciò non accade, in loro abbiamo a che fare con un assemblaggio di oggetti o di materiali che non ha nessuna regola preesistente e che non obbedisce a nessuna logica del mondo materiale preesistente. Certo si potrebbe dire, per esempio, che Alexandru Pleşa, con la sua determinazione a sposarsi con la prima ragazza che trova, segue questa regola dell’aleatorio, e non quella della logica, e affermare quindi che questo sarebbe un gesto Dada, nel primo senso che ho illustrato, e anche nel secondo, inteso come senso di sarcasmo nei confronti di qualsiasi logica istituzionale: come dire che le istituzioni come il matrimonio non hanno più motivo di basarsi sull'amore tra due partner. Da questo punto di vista sì, anch’io vedo qui un interessante campo di riflessione, in che misura nei rapporti tra le persone, almeno da un punto di vista narrativo, più o meno classico, possono intervenire logiche dell’aleatorio. Potremmo dire che Alexandru è così, e Petru Anicet voleva solo avere i soldi per scrivere una sinfonia, senza interessarsi di come ottenerli. Questa spaccatura tra la logica del comportamento e la creazione musicale potrebbe benissimo verificarsi in un mondo Dada, un mondo in cui il tutto non ha più una logica propria, ma ogni parte ha una sua logica separata, penso che sarebbe un aspetto interessante da analizzare. Mi sentirei di dire questo, ma diversamente dal Surrealismo, perché lì ritorna una logica diversa, quella storia può avere un significato più profondo o psicologico, o di tipo aleatorio. Per i dadaisti la logica Dada non è più di alcun tipo, anche se sono sicuro che Eliade non era interessato in alcun modo al movimento Dada; era amico di Marcel Iancu, ma non era interessato alla sua pittura. La critica nell’accostarsi al romanzo ha spesso optato per un approccio di tipo estetico-stilistico o per quello politico-ideologico. Tuttavia tale approccio ha mancato o nascosto la grande sfida del romanzo, a cui Lei ha dedicato ampie analisi nei suoi lavori. Quale sarebbe questa nuova tendenza emersa negli studi sul modernismo letterario? Credo che il titolo stesso del mio libro [Guardando indietro, la modernità] suggerisca qualcosa, perché sono testi scritti negli anni '90, quando ero influenzato dal postmodernismo. A differenza di allora, quando mi sembrava che se c’era una chiave di lettura questa doveva essere quella postmoderna, scettica nei confronti di varie logiche, e affermava che la pubblicazione di un libro è un fatto casuale; orbene, oggi, almeno per quanto io ne sappia, non è sorta una nuova teoria, ossia si può parlare di una nuova logica solo in relazione a determinati elementi legati al simbolo, a una determinata razionalità nascosta, che non tiene conto necessariamente delle leggi della ragione, sembra che tutto ciò stia per ricomparire o per ritornare. Non credo che si possa dire che il postmodernismo sia seguito oggi da una nuova chiave interpretativa, da una nuova espressione generale, che esprima il nostro atteggiamento verso l'arte. Il postmodernismo era molto sarcastico con il passato, era anzi decisamente offensivo; ho l’impressione che oggi questi due aspetti non esistano più, si sono smussati, ovvero il modernismo viene semplicemente ignorato, ma non viene più attaccato. Quello che ho visto recentemente, per esempio, alla Biennale d'Arte di Venezia, riconferma questa mia impressione. Certo, ci sono solo installazioni, non c'è nessun altro mezzo espressivo, ma ciò non esprime sarcasmo nei confronti dei vecchi mezzi espressivi, semplicemente li ignora. Qui quasi quasi ci scorgerei una differenza, e questa potrebbe d’altronde coesistere con il fatto pratico dell'esistenza di una nuova generazione. Quelli che si rivoltarono contro il modernismo, negli anni '80 e '90, sono oggi la generazione al potere, e ovviamente, chi è giovane oggi, non può seguirla e ci si afferma solo andando contro di loro. Se diciamo che ogni venti anni le generazioni cambiano, e penso che questo sia il ritmo normale, allora non si può dire che la giovane generazione di oggi abbia lo stesso atteggiamento di quello della generazione degli anni '90. Ma qual è l'atteggiamento della generazione di oggi? Non saprei dirlo, a essere onesto. A un certo punto ho avuto l’impressione che i mezzi elettronici avessero preso il posto di altri mezzi, ma quello che ho visto di recente alla Biennale non aveva niente di elettronico, niente, e ne sono stato molto stupito. Be’, certo c'erano luci che si accendevano e si spegnevano, c’erano dei film, ma non so se si può chiamare questo una tendenza importante, è qualcosa che è entrato a far parte in qualche modo della consuetudine. Per quanto riguarda il teatro scritto da Mircea Eliade, come sono viste oggi le teorie sulla sua origine rituale e mitica? L'uomo postmoderno è più sensibile a questa dimensione, situata al di fuori di quella estetica e politica? Il suo teatro, come la sua prosa d’altro canto, parla di determinati incontri tra persone, di atteggiamenti che non si possono spiegare con la logica razionale e che possono essere spiegati sia attraverso l’intuizione, sia per mezzo di eventi che apparentemente non hanno alcuna logica. Ciò si vede molto bene nei suoi racconti. Penso che il suo teatro non segua necessariamente questa linea. In primo luogo è stato scritto in epoche diverse, mentre i racconti sono stati scritti dopo che aveva lasciato il Portogallo, dove ha scritto il primo racconto fantastico, quello dell'uomo che cresce a dismisura fino a diventare un gigante [Un uomo grande]. A cominciare da questo, tutti i suoi racconti contengono qualcosa di strano, di inspiegabile, il che si accorda perfettamente con le sue teorie, con il mito sepolto, con il sacro. Nel suo teatro non so se ci sia qualcosa di simile, non mi pare. Credo che il teatro andrebbe ulteriormente studiato. In realtà l'unico volume completo è quello italiano, la vecchia edizione romena non è completa e in altre lingue non è stato pubblicato nulla finora, che io sappia. Ifigenia, la prima commedia, non penso faccia riferimento a qualcosa di mitico, ciò non di meno è interessante come in essa venga smontata la mitica spiegazione del grande sacerdote Kalchas. Secondo me la spiegazione di quest’ultimo è fortemente contestata da Achille ed è perseguita, volenti o nolenti, dai politici, in modo particolare è Menelao che ha paura di contraddirlo, ma è ovviamente in disaccordo con lui, semmai lo usa, ossia l'ambizione politica di giungere in Asia Minore si avvale di questa profezia. Bene, Agamennone è contro, Ulisse è indeciso e Achille lo attacca. Per quanto riguarda Ifigenia, lei passa da un atteggiamento all’altro e alla fine cade in una sorta di estasi quando raggiunge il luogo in cui sarà sacrificata, e chiama anche Achille, che si rifiuta di andare, così come lei si rifiuta di tornare come le chiede Achille. In altre parole, ho la sensazione, credo, che a dispetto di false dichiarazioni, sparse da Kalchas, che si dimostra fra l’altro un demagogo assoluto, per il quale Ifigenia prova pure una momentanea infatuazione, le spiegazioni di natura religiosa sono poco convincenti, mentre quelle politiche sono molto più solide. Lo dico perché la commedia è stata messa in scena subito dopo la morte di Codreanu, e alcuni l’hanno interpretata come un culto del sacrificio e come la sua redenzione. In primo luogo Codreanu è stato assassinato in maniera ignobile, la sua morte non è stata una sua scelta volontaria. E in secondo luogo, nessuno ha mai affermato che sarebbero accaduti chissà quali sfracelli in Romania se lui fosse morto, storicamente parlando non si è mai posto il problema in questi termini. È stata una chiara vendetta di Carlo II, e nient'altro. O meglio, una misura cautelativa, il re temeva che Hitler potesse usare Codreanu contro di lui, e allora lo fece uccidere prima, e tutto è finito. Quindi io non capisco come ciò possa essere interpretato come un atto di eroismo, come un sacrificio eroico, così come, poniamo, si può forse osservare in Ifigenia. Non ho questa impressione, assolutamente no. Alla fine Carol si è inteso con Horia Sima, un tipo completamente amorale, e la Legione ha voluto far decadere il re nel mese di settembre, con l’arrivo di Antonescu. Coloro che hanno affermato questo, erano semplicemente suggestionati dai fatti del momento. D’altro canto, mi sono ricordato che la commedia è dedicata a Mihail Sebastian, un ebreo, e a Haig Acterian, un armeno, o diciamo un fanatico romeno inviato al fronte da Antonescu, che muore appena giuntovi. Quindi è ovvio che Eliade abbia dedicato la commedia a persone che non avevano alcun legame con il legionarismo, Acterian era stato legionario, ma è stato mandato a morire senza scrupoli, in qualche modo come accadde a Ifigenia. Mi farebbe piacere che ci raccontasse quali sono state le sue impressioni sul Salone Internazionale del Libro di Torino e come sono state accolte le due traduzioni. Io personalmente non sono molto contento, non di Torino, ma di questo tipo di fiere del libro. Non so fino a che punto possano essere considerati dei luoghi adatti per promuovere dei libri di qualità. In primo luogo, si tratta di un pubblico molto specifico, vale a dire di adolescenti che vengono a leggere libri che leggono normalmente. È un caos totale, c’è un rumore insopportabile, non si riesce a trovare un libro interessante. Sono andato agli stand di vari e importanti editori italiani, come Feltrinelli, ad esempio: acquisto i loro libri da vent’anni. Lì c’erano libri senza valore, e pur con tutta la buona volontà non si riusciva a trovare un libro che fosse interessante. Per non parlare dei libri che Feltrinelli altrimenti non venderebbe e che ha portato lì in quantità da ingrosso nella speranza che qualche adolescente di 15-16 anni li compri per errore. Non è una fiera per promuovere libri di qualità, ma qualcos’altro direi, cioè si tratta di promuovere l’idea di comprare un libro, allora sì, soprattutto presso le nuove generazioni, che si suppone non si siano ancora poste il problema di comprare o no dei libri; forse questo Salone è un modo per influenzarle. La mia domanda è se questo commercio così inteso sia migliore della mancanza totale da parte degli editori di un appello a favore della lettura rivolto alle giovani generazioni. Per finire, ritiene che queste due traduzioni in italiano innalzeranno il livello di comprensione e di fortuna critica dell’opera di Eliade? Sicuro, su questo punto posso dare una risposta positiva, ma la causa non è da addebitare necessariamente al fenomeno di una fiera del libro, bensì alla straordinaria passione dimostrata da Horia Cicortaș, che mi sembra un «eliadista» ma anche un conoscitore del modernismo romeno, uno studioso di grande valore che ha dato mostra di una straordinaria cura nel fornire informazioni dettagliate. Il suo Studio introduttivo al Teatro, quasi 100 pagine (!), è assolutamente esemplare. Non c’è nulla di paragonabile, che io conosca, nelle edizioni curate in Romania, sebbene lì qualsiasi documento sia più facilmente reperibile che in Italia. Dico questo perché lui comunque vive in Italia e poteva dire che non aveva a disposizione determinate fonti, come da noi in Romania, quindi qualcosa gli poteva sfuggire. E invece no, non gli è sfuggito nulla, ha mostrato uno straordinario rigore nel lavoro di documentazione. Anche certe cose che sfuggono agli studiosi romeni, perché considerate scontate, lui le ha sottolineate di nuovo perché si rivolge a un pubblico che non conosce la storia di Eliade. Credo che in questo momento Cicortaș sia una grande speranza, anzi, è già qualcuno che ha fatto molto per la letteratura romena in Italia. Non dimentichiamo che lavora con una compagnia teatrale che mette in scena autori romeni sia in Italia sia in Romania, assieme a sua moglie, credo, che non ho conosciuto ancora. Cicortaş sembra essere attualmente una grande speranza come romenista, cioè specialista di cultura romena al di fuori della Romania, almeno in Italia, in altri paesi non lo so, ma, ecco, è stato lui ad andare a Parigi per pubblicare la corrispondenza tra Cioran ed Eliade, voleva andare a Chicago, ma purtroppo non gli hanno dato il loro accordo né il sostegno materiale necessario. Mi sembra che dovrebbe essere una sorta di modello per i giovani i quali, nonostante tutte le opinioni se i romeni siano o non siano in Europa, se siano o non siano moderni, e invece lui è andato assolutamente sicuro di sé alla fonte e l’ha portata in Italia e non ha pensato che senso avesse concentrarsi su certi autori semisconosciuti, no, lui li ha portati e trasformati in autori di successo. Tanto di cappello! Con ciò voglio dire che è questo l’atteggiamento normale, certo che può capitare di avere una certa dose di fortuna, come ce l’ha avuta lui, o non averne per niente. Ma bisognava provarci. Ora non ti nascondo che anch’io ho avuto un’esperienza personale in questo senso: tanti anni fa quando sono arrivato nei Paesi Bassi, non c'era nessuno che conoscesse un poeta o uno scrittore romeno, assolutamente nessuno, e di Eliade non c’era nessuna traccia (neanche in inglese era noto, e men che meno in olandese). E sono andato, io giovanotto, perché allora avevo più o meno l’età che ha oggi Cicortaş, da vari editori e ho detto loro: Io sono Alexandrescu e vorrei proporvi alcuni poeti romeni. E cominciarono a sorridere, a ridere, ma alla fine li hanno pubblicati. Voglio dire che mi sono riconosciuto in Cicortaş, mi riconosco in questo candore, so bene che gli editori ti possono chiudere le porte in faccia, ma io sono andato imperterrito da altri editori.
[1] Confesso che alcune di queste ultime affermazioni sono state aggiunte da me a Bucarest, avendo sotto gli occhi alcuni libri di Charles Taylor (Sorin Alexandrescu, 1 Giugno 2017).
Intervista realizzata da Gabriel Badea Traduzione a cura di Mauro Barindi (giugno 2017, anno VII) |