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Silvia Cossu: «Da lettrice, prediligo le forme ibride del romanzo»
Nella sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, vi proponiamo una nuova serie di 10 interviste con gli scrittori segnalati all’edizione n. 76 del Premio, e con i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Silvia Cossu, nata a Roma nel 1969, scrittrice e sceneggiatrice, è segnalata per il suo quarto romanzo, Il confine (Neo Edizioni, 2022), candidato al Premio letterario Giovanni Comisso 2022. Lo presenta Renato Minore: «Montando questa storia con grande sapienza costruttiva, Silvia Cossu riesce a muoversi sul “confine” dove l’esperienza dello psichiatra e della sua biografa si specchiano, si mescolano, si confondono tra rivelazioni colpi di scena e lampi onirici. E fa centro Il confine, con la lama di una scrittura appassionata e “fredda” nello stesso tempo, tra messe in scena, simulazioni e dissimulazioni di un io davvero mobile, precario, sempre bisognoso di rinforzi e conforti, maschere e travestimenti vari, nella lettura coinvolta e complice che può assicurare».
«Entrambi ci facciamo pagare promettendo un miraggio. Vediamo fumo, lui lo chiama ‘cura’, io ‘senso’». Ne Il confine s’intersecano una scrittrice e uno psichiatra: legami, solitudini, ferite, volti incrociati casualmente. Quale idea ha inteso veicolare delle relazioni interpersonali?
Per rispondere ripropongo la citazione da Helgoland di Carlo Rovelli citata in esergo al romanzo: «ciò che vediamo non è una riproduzione dell’esterno, ma è quanto ci aspettiamo, corretto da quanto riusciamo a cogliere». Ne consegue che l’altro – chiunque esso sia – è solo parzialmente intellegibile. Ma la teoria dei quanti, così ben raccontata in quel volumetto, ci dice qualcosa di più, e cioè che l’altro (persona, cosa, oggetto) non è conoscibile al di fuori della relazione che instaura con l’osservatore. Le sue caratteristiche, le sue proprietà, non sono intrinseche, ma dipendono unicamente dalla relazione che si crea tra chi ‘osserva’ e chi ‘viene osservato’. Che declinato in termini letterari è esattamente ciò che accade ne Il confine. La biografa che si ostina a inseguire e smascherare lo psichiatra, in realtà sta smascherando se stessa. E l’unico elemento che alla fine diventa conoscibile è ciò che quella interazione ha prodotto. La loro relazione.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato? Penso agli incipit nella fattispecie.
Non ho mai inteso scrivere un thriller, anche se diversi critici, seppure con dei distinguo, lo hanno paragonato al genere. Minore ha parlato di «piccolo giallo dell’anima». Vero è che la protagonista insegue l’ombra dello psichiatra che a lei si racconta, senza mai riuscire ad afferrarne un lembo. Ritrovandosi alla fine, senza averne avuto contezza alcuna, in un luogo esistenziale differente da quello di partenza. E questo meccanismo, questa sorta di ‘pedinamento’ condotto in un territorio sconosciuto e così poco illuminato com’è il passato con le sue distorsioni, il sogno, e l’esplorazione della mente, genera suspense. Convinta di seguire le tracce dell’uomo, la protagonista finisce per ritrovarsi sulle sue. Il patto siglato nell’incipit tra i due, dover trovare la verità, avvia il gioco. E l’unica colpevole, o meglio, l’unica a essere sotto processo, alla fine è proprio quella: la verità.
Il percorso dei protagonisti si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della ‘memoria’ nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Uno degli aspetti più interessanti della memoria è di essere indissolubilmente legata agli stati emotivi retrostanti. Sono questi a influenzare e deformare i ricordi. Più che non i fatti in sé, ricordiamo le emozioni. Ed è da queste ultime che parto per scrivere. È al loro interno, nella loro rievocazione, che l’immaginazione trova nutrimento. Forse anche per provare, con altre vie, a comprendere l’accaduto. A raggiungere una visione più oggettiva. Applico lo stesso metro ai miei personaggi. Anche loro dipendono da questi stati emotivi, ne sono totalmente invischiati. Ad eccezione dello psichiatra che, ne Il confine, è l’unico a rivelarsi lucido.
Lei è una sceneggiatrice cinematografica, oltre che scrittrice di romanzi. In qual misura la sua narrazione risente della contaminazione tra codici espressivi differenti?
Si tratta in effetti di linguaggi molto distanti tra loro. La verità è che non sono in grado di dire se, e quanto, il continuo passaggio dalla sceneggiatura al romanzo possa reciprocamente contaminare l’una e l’altro. Nella pratica sono certa di rivolgermi a dimensioni interne lontane. In una recente intervista di Gianluca Garrapa su Satisfiction, ho tentato un azzardo dicendo che: la finzione sta all’inconscio, come l’autobiografia – e aggiungo che la sceneggiatura – sta al conscio. Entrambi rivelano una parte della verità, pur partendo da premesse opposte. Che è quello che qui mi sento di ripetere. Si tratta di processi creativi scarsamente sovrapponibili. Considerato pure che la sceneggiatura raramente è un lavoro individuale.
Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
La letteratura, come il cinema e la televisione, può contribuire ad anestetizzare o risvegliare una società sempre meno dotata di strumenti critici e di analisi dei fenomeni. In questo senso la loro funzione è politica. La adempiono inserendosi in un solco consolidato che ne nutre il conformismo e la semplificazione, o rompendolo.
Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Il romanzo è sempre più un genere aperto. Da lettrice, queste forme «ibride» sono quelle che prediligo. Mi vengono in mente Kundera, Carrère, Trevi. La possibilità di riflettere intorno a un tema, inseguendolo ‘narrativamente’, è affascinate.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. Quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?
Ho amato molto la Herta Müller de Il paese delle prugne verdi e de Lo sguardo estraneo. Come Emil Cioran de L’inconveniente di essere nati. Ma confesso di non avere una conoscenza sufficiente degli altri nomi da lei citati o della loro diffusione nel nostro paese per poter azzardare una risposta.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII)
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