Tradotte in romeno le «Lettere dal manicomio» di Torquato Tasso. Intervista a Sergio Zatti Dal 1579 al 1586 Torquato Tasso venne rinchiuso nell’ospedale-carcere Sant’Anna di Ferrara, dove per tre anni rimase nel reparto dei cosiddetti «furiosi». Durante il periodo della sua degenza, Tasso scrisse diverse lettere, che furono per molto tempo il suo principale legame con il mondo esterno. In esse il poeta parla insistentemente di sé, dei suoi tormenti e della sua malattia, ma indirettamente rivela aspetti essenziali della sua epoca, che è quella del tramonto della civiltà rinascimentale sotto la pressione della Controriforma.
L'interesse sta nel fatto che riflettono una condizione universale che ancora oggi ci affascina e ci inquieta. È quella del rapporto fra letteratura e potere. Soprattutto i Paesi che hanno attraversato forme palesi o sotterranee di dittatura trovano ancora oggi nella vicenda tassiana un caso emblematico di censura e autocensura e riconosceranno nel poeta ferrarese la figura dell'intellettuale scomodo che vuole raccontare attraverso la poesia la sua verità al mondo. Nella prefazione al volume in prossima uscita, Lei ricorda il mito tessuto intorno al Tasso e caro ai romantici, del genio folle. Posto che i due termini riflettono perfettamente la personalità del Tasso, anche se non proprio nell’accezione romantica, in che misura tale connubio si fonda proprio sull’epistolario? L'anima del poeta traspare nella effusione della scrittura privata, anche se sappiamo che gli epistolari cinquecenteschi potevano essere – e quello di Tasso non sfugge alla norma – molto sorvegliati da un codice di scrittura a volte molto rigido. Leopardi diceva che le lettere sono la cosa migliore di Tasso e la più vicina alla sua sensibilità romantica, cogliendo una differenza sostanziale con le opere letterarie, in cui la trasfigurazione artistica condensa la drammatica materia interiore in figure e metafore adeguandosi alle esigenze dell'intreccio narrativo. Qui invece la interiorità tassiana traspare spesso in modo imprevisto e impensabile nonostante quei rigidi vincoli imposti da una censura che è piuttosto una forma di autocensura che un prezzo pagato consapevolmente al potere.
La destinazione privata di queste lettere ne fa un unicum se pensiamo per confronto all'epistolario petrarchesco, a tutti gli effetti paragonabile a un lucido e strategico autoritratto di sé. La stessa impressionante quantità fa pensare a una delle forme più precoci e moderne di 'confessione' autobiografica. Resta difficile tracciare un quadro diagnostico della 'malattia' di Tasso. Nonostante il fatto che oggi possediamo gli strumenti raffinati della psichiatria e della psicanalisi, anzi forse proprio questo può determinare esiti fuorvianti. Alcune delle biografie moderne aggiungono a loro modo un nuovo tassello alla 'leggenda tassiana' pretendendo di mettere Tasso sul lettino della psicanalisi con una diagnosi a priori scorretta per il metodo e la distanza storica. Certamente nell'opera poetica questa melanconia o piuttosto depressione di cui ho parlato, questa vera e propria personalità paranoica entrano nella costruzione dei personaggi: basti pensare a un personaggio come Tancredi che io accosterei al suo 'collega' storico Amleto come rappresentante di una inquietudine interiore problematica e perplessa che lo rende personaggio autenticamente moderno. Nella sua analisi dell’uomo Tasso, Lei intreccia il complesso di persecuzione a una certa voluttà autolesionistica e all’atteggiamento di dipendenza e di subordinazione al principe. È possibile stabilire una relazione di causalità fra l’atmosfera politico-religiosa del tempo e tali sintomi? Oppure, allargando la domanda, ritiene che certe circostanze politiche e ideologiche possano, più di altre, spingere gli individui, soprattutto gli intellettuali, a disturbi psichici e a comportamenti devianti? La base di ogni patologia sarà biologica, ma è certo anche che i comportamenti devianti possono essere accentuati da particolari condizionamenti politici e religiosi. Anche se il collegamento meccanico fra questi due livelli è difficile da stabilire e soprattutto da provare, il Tasso resta un caso storico esemplare perché il suo disagio umano appare fortemente legato alla sua immagine di intellettuale scomodo. Il ripiegamento autolesionistico che si manifesta persino in voluttà di subordinazione e di tutela autoritaria appare in questo senso come l'esito storico di una coscienza intellettuale che ancora non ha forgiato e raffinato i propri strumenti di una critica del potere. In questo senso la critica libertina e illuministica del potere e dell'autorità è ancora lontana. Credo assolutamente di no. La critica letteraria ha da tempo abbandonato queste prudenze reverenziali. Una simile preoccupazione ebbe la critica delle 'varianti' ai suoi esordi e ancora mi ricordo un mio vecchio professore che si interrogava sulla liceità morale di frugare nei cassetti degli autori. Era la famosa critica degli 'scartafacci'. Credo che di un autore del passato e dei suoi prodotti letterari si deve fare un uso critico totale senza altre remore che quelle di distinguere da un punto di vista esclusivamente artistico fra prodotto destinato per le stampe e materiale privato non raffinato a livello formale. Il computer, si dice, non lascia traccia. O meglio, si tratta di una traccia autorizzata che tende a canonizzare l'interpretazione avallata dall'autore. Certo in questo modo esisteranno testi d'ora in poi solo in quanto 'ultima volontà' d'autore. Eppure io credo – e ne esistono già prove concrete – che l'attenzione contemporanea per la memoria e le sue tracce continuerà ad affollare gli archivi di testimonianze perché gli autori stessi si compiacciono di disseminare di varianti il loro percorso creativo proprio ai fini di lasciare una storia della genesi artistica.
Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 3, marzo 2015, anno V) |