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Salvatore Setola: «Sulla scia di Bradbury, per me “Vegan Holocaust” è un monito»
Salvatore Setola si occupa di musica, arte e cultura per il magazine «Tortuga». È coautore dei libri Ambulance Songs. Non dimenticare le canzoni che ti hanno salvato la vita (con Luca Buonaguidi, Arcana Edizioni, 2019), Ambulance Songs 2 (Arcana Edizioni, 2019) e L’urlo. I suoni senza voce di Luciano Cilio (con Fabio Donato, Luca Buonaguidi, Girolamo De Simone, CRAC Edizioni, 2020).
Vegan holocaust (Eretica, 2021) è il suo primo romanzo. Anno 2089. In Europa i vecchi stati nazionali si sono fusi in un unico stato federale che adotta una costituzione ispirata ai valori del veganismo antispecista. La società, governata da un efficiente sistema tecnocratico, è strutturata rigidamente in tre classi sociali – i biomigliori, i bioimperfetti e i bioperdenti – determinate dal grado di astinenza dai cibi animali e dalle performance professionali ottenute sul mercato del lavoro. Nella FEA, la Federazione Europea Antispecista, ciascuno è chiamato a una competizione etica e tecnica per ascendere al rango di biomigliore e guadagnarsi l'opportunità di vivere nelle Zone 1 delle ecometropoli europee: delle esclusive aree residenziali costruite secondo le più avanzate tecnologie dell'architettura green. In questo contesto all’apparenza perfetto ma minacciato da una guerra fredda, dal terrorismo del Libero Spirito e dal riscaldamento globale, si muovono una serie di personaggi che raccontano – da morti, come in un'Antologia di Spoon River da un futuro distopico – un mondo invasato dalla purezza ideale e destinato a una grottesca apocalisse finale.
Ryder sostenne l’esigenza di sbugiardare il più grave fallo morale che, a suo parere, caratterizzerebbe la società occidentale antropocentrica, ovverosia il rifiuto categorico di serbare un trattamento egualitario agli esseri viventi non umani per motivazioni attinenti l'assenza di un legame di specie. Quali sono le implicazioni politiche di una visione «sociale» dell'antispecismo?
Innanzitutto vorrei partire da una premessa fondamentale: non sono uno studioso di filosofia morale o bioetica. Nel mio romanzo Vegan Holocaust l’antispecismo è un espediente funzionale alla narrazione; dal punto di vista tematico è certamente una colonna portante della storia, visto che l’universo distopico in cui si muovono i personaggi è imperniato sui valori antispecisti eretti addirittura a fondamenta costituzionali, ma il libro parla d’altro: parla del messianesimo etico, della convinzione – che caratterizza la nostra civiltà occidentale – di dover salvare il mondo dalle tenebre portandovi la luce. Una società, insomma, che pensa di essere l’avanguardia morale e civile della storia.
Quando l’ambizione al progresso – che per carità resta una bella e volenterosa chimera a cui tendere – diventa mito, dogma, narrazione, a quel punto le migliori intenzioni asfaltano la strada per l’inferno. Non a caso il romanzo è introdotto da una citazione di Paul Watzlawick, psicologo della scuola di Palo Alto che ha studiato i meccanismi di costruzione della realtà: «La convinzione che la propria visione della realtà costituisca l’unica realtà è un’illusione pericolosissima. Diventa ancor più pericolosa se accoppiata allo zelo missionario di illuminare il resto del mondo, che il resto del mondo lo voglia o no».
In questo senso l’antispecismo, che è una delle tendenze filosofiche più radicali del mito del progresso morale, si prestava benissimo al tipo di società distopica che mi ero immaginato. È una società dove il conflitto è azzerato, il senso critico bandito, la complessità e le ambiguità umane cancellate. Tutti gli aspetti della vita sono appiattiti su valori morali basilari, dicotomie senza possibilità di sfumature – buono/cattivo, giusto/sbagliato, progresso/arretratezza – che servono da ancelle a una concezione dell’umano ridotta a pura tecnica.
Gli abitanti della FEA – la Federazione Europea Antispecista – sono chiamati a competere eticamente e tecnicamente per far sì che il loro mondo diventi migliore. Gli uomini che riescono a rinunciare alla propria specificità ontologica rispetto al resto del regno animale, sono premiati con uno status sociale privilegiato. Che poi non è un premio, bensì l’obiettivo per il quale ogni essere umano di quella società vive e lavora: diventare biomigliore.
È facile immaginare, quindi, che se ho deciso di utilizzare proprio l’antispecismo come struttura tematica funzionale a questo tipo di racconto, io non debba avere una considerazione affatto lusinghiera delle teorie di Ryder e di Singer. Equiparare il valore della vita di un essere umano a quella di qualsiasi altro essere vivente, per quanto mi riguarda, è una mistificazione ontologica. Innanzitutto, perché le specie viventi sono diverse e ognuna ha una propria specificità biologica, quindi un proprio posto nella complessità del regno vivente. C’è differenza tra un uomo e un cavallo, così come c’è differenza tra una scimmia e un cavallo, così come c’è differenza tra un cavallo e un gamberetto. Cancellare queste differenze, omologandole a una teoria morale indiscriminata, significa cancellare la variegata complessità del vivente e non certo esaltarla. Il cervello umano, poi, ha tutte una serie di specificità che lo rendono diverso e – sì, posso dirlo senza timore di smentita – superiore a quello degli altri animali: per il linguaggio innanzitutto, per l’organizzazione modulare dei circuiti neuronali (tra cui i moduli morali), per il cervello sociale, l’autocoscienza, la teoria della mente, i neuroni specchio, il disaccoppiamento tra realtà e finzione che crea i mondi immaginari, l’agentività che invece permette di proiettare la nostra volontà sugli altri esseri viventi (e a volte persino sugli oggetti) e che costituisce quella prerogativa tutta umana a formulare esattamente teorie del tipo dell’antispecismo. Tutte queste caratteristiche, che rendono unica l’esistenza umana, possono essere tranquillamente reperite nei libri di neuroscienziati e antropologi che cito in molte parti del libro sotto forma di finzione saggistica.
Posto che l’antispecismo sia, dunque, fondamentalmente, politico e non osservabile da una prospettiva astrattamente morale, la questione animale è l’aspetto indispensabile di ogni presupposto di trasformazione dell’esistente?
Assolutamente no, per quanto mi riguarda. L’antropocentrismo rimane una bussola essenziale per l’umanità se non vuole cadere in forme di «disumanesimo» spacciate per progresso. Quando Singer inferisce che la vita di un bambino disabile sia inferiore a quella di una pecora sana, giacché il discrimine per definire degna una vita risiederebbe nella capacità di provare piacere e dolore, e laddove questa capacità sia compromessa, allora quella non è più vita bensì solo un peso morto e un costo per la collettività; quando le teorie della «Liberazione animale» si spingono a considerare del tutto ammissibile un’educazione alla sessualità interspecifica, proponendo quindi un sostanziale sdoganamento di rapporti sessuali tra esseri umani e animali; quando si arriva a equiparare chi si nutre di carne e derivati animali ai carnefici nazisti (che poi, per ironia della sorte, i nazisti erano antispecisti, consideravano l’uomo un virus pericoloso per l’equilibrio naturale e hanno emanato i divieti più rigidi della storia occidentale in termini di ricorso agli animali per sperimentazioni e spettacoli di intrattenimento), non stanno facendo soltanto una contestazione politica: stanno contestando l’umanesimo stesso. Hanno già un piede e mezzo nell’antiumanesimo, ossia nel tradimento di specie. Che è esattamente ciò che attuò il nazismo.
Biomigliori, bioimperfetti e bioperdenti. L'antispecismo appare nelle sue pagine come un lineare disegno di liberazione che potrà riuscire nel suo obiettivo solamente se saprà adottare come proprio modello una società orizzontale, solidale e partecipata. Quali ostacoli ravvede nel tempo coevo a quella che Steven Best chiamerebbe «liberazione totale»?
Ray Bradbury, che è stato uno dei più grandi creatori di mondi distopici, diceva che per uno scrittore immaginare il futuro ha essenzialmente tre finalità. La prima è immaginare cosa potrebbe accadere se si determinassero alcune condizioni; è quello che descrive per esempio Orwell in 1984: ecco come sarebbe il mondo se un regime totalitario usasse le telecamere come strumento di controllo capillare della cittadinanza.
La seconda finalità è immaginare cosa sarebbe successo se un determinato evento storico avesse preso una piega diversa; è ciò che fa Philip K. Dick in La svastica sul sole (traduzione italiana di un titolo originale ben più visionario: The Man in The High Castle) immaginando come si sarebbe configurata la geopolitica globale se a vincere la Seconda Guerra Mondiale fossero stati tedeschi e giapponesi.
Il terzo, infine, è lanciare un monito, ossia prendere un aspetto del mondo in cui viviamo, spingerlo al parossismo e vedere dove ci può condurre. È quello che fece lo stesso Bradbury in Fahrenheit 451, un romanzo attualissimo, che anticipava dove avrebbe potuto condurre non la censura di tipo orwelliano, bensì forme di sterilizzazione progressista del pensiero e dell’espressione. I protagonisti di quel romanzo bruciano i libri per evitare controversie, per evitare cioè che le parole possano offendere qualche categoria o minoranza; e allora, per mantenere la pace sociale, per evitare di gestire i conflitti che i libri potrebbero creare, si risolve il problema alla radice: bruciamo i libri.
Se lo rileggiamo oggi questo capolavoro – e a me è capitato di rileggerlo pochi mesi fa – ci accorgiamo che gli esiti immaginati da Bradbury non sono andati poi così distanti da fenomeni attuali come il politicamente corretto e la cancel culture.
Riallacciandomi alla lezione di Bradbury, per quanto mi riguarda Vegan Holocaust è un monito; perciò spero che una società come quella descritta nel romanzo non si realizzi mai, anche se temo – visto l’andazzo di un Occidente sempre più messianico e dogmatico nelle sue pretese di purezza – che ci andremo vicini. Quindi, in conclusione, non saprei dire quali ostacoli ci siano affinché la nostra società diventi la società totalmente liberata prospettata da Best, ma spero che ce ne siano ancora molti. E che reggano.
Non è vero, come pensa Best e come pensava Hitler, che l’uomo è il violentatore e l’assassino del pianeta vivente. Quelli come Best sono religiosi alla stregua dei catari e dei giainisti: malati di purezza. Vorrebbero portare la luce in un mondo nel quale il male devono essere sempre gli altri, e per altri intendono i propri simili, l’umanità in quanto specie, ma si dimenticano dell’ombra, si dimenticano di Jung, si dimenticano che quell’ombra gli appartiene e non si può eliminarla se non eliminando l’umanità stessa.
A Best preferisco Michael Gazzaniga, neuroscienziato massimo esperto mondiale del cervello umano, nei cui libri non solo mette in evidenza tutta la differenza che intercorre tra il cervello umano e quello animale, ma ci ricorda anche che la straordinarietà dell’uomo risiede proprio nella complessità sociale in cui si innestano i suoi processi mentali, tra cui quelli morali che sono innati. Siamo una specie problematica, certo, ma non gli assassini assetati di sangue da cui dovrebbero liberarci i Best, i Ryder, i Singer. Dio ci guardi dai portatori di luce.
Qual è la ragione insita nella volontà di porre sulla copertina la svastica?
L’ho suggerita io all’editore. Non è semplicemente una svastica, bensì il simbolo della religione giainista. È composto da una svastica e da una mano aperta inscritta in una ruota. Quest’ultimo è il simbolo dell’Amisha, il principio della non violenza. Nel romanzo il movimento da cui la Federazione Europea Antispecista prende le mosse si chiama proprio Amisha, e la purezza morale a cui si richiama è ispirata all’etica del giainismo indiano. I giainisti, infatti, rifiutano ogni tipo di violenza, si nutrono solo di vegetali e, per evitare di compiere anche la minima e involontaria violenza sugli animali, limitano i loro spostamenti così da non calpestare insetti, o ancora appongono filtri e mascherine alla loro bocca per evitare di aspirare accidentalmente qualche moscerino. Quello dei giainisti è una forma di ecologismo estremo, che ben si abbina all’attivismo ecologista occidentale incentrato sull’individualismo e il senso di colpa.
La svastica si accompagna a questo simbolo come rappresentazione del principio ordinatore del mondo, un principio impersonale e assolutamente non teista. Dio è il cosmo, Dio è la natura. Sotto questo significato il simbolo della svastica passò ai nazisti, che lo scelsero come logo della purezza ariana. In realtà i nazisti lo mutuarono dai teosofi di fine ottocento; una setta esoterica, fondata da Elena Blavatsky, che predicava il vegetarianismo come forma di purificazione spirituale e vagheggiava il ritorno a un’umanità primigenia scomparsa in un passato remotissimo a causa di un cataclisma apocalittico. Questa umanità leggendaria era formata da superuomini perfetti e tecnologicamente avanzati: era la razza ariana, a cui poi si sarebbe ispirato Hitler nei suoi deliri antispecisti. Nel mio romanzo, invece, si chiamano biomigliori. E la cosa davvero terrificante è che non hanno bisogno della violenza per tiranneggiare sugli altri.
A cura di Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII) |
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