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Rosario Palazzolo: «Con i personaggi sono come gli scienziati che baruffano con gli allambicchi»
Nella sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, vi proponiamo una nuova serie di 10 interviste con gli scrittori segnalati all’edizione n. 76 del Premio, e con i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Rosario Palazzolo, nata a Palermo nel 1972, drammaturgo, scrittore, regista e attore, è segnalato per il suo romanzo Con tutto il mio cuore rimasto (Arkadia, 2021). Alberto Galla lo presenta così: «Con tutto il mio cuore rimasto, di Rosario Palazzolo, ci consegna la nuova prova di un autore particolare, abile e originale nell’uso della lingua. La storia è il lungo monologo di un ragazzino chiuso in una stanza buia da due donne per evitare la diffusione di un peccato inconfessabile, non suo, sia chiaro. [...] Potente, deflagrante, un pugno diretto alla nostra coscienza, una scrittura innovativa e comunque coinvolgente, che lo rende a tutti gli effetti un monologo teatrale di grande intensità, un libro non certo convenzionale».
Con tutto il mio cuore rimasto è un libro sulla irrealizzabilità della verità: una storia di metamorfosi e ipocrisie. Lei gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Soprattutto la nostra capacità di corrompere la realtà, di mutuarla a seconda delle convenienze, di infiocchettarla, di fornirle tutti gli appigli necessari affinché la coscienza non la rigetti, e infine di esibirla, affinché l’ormai pochissima vergogna che ne viene possa essere alleviata dalla quotidianità.
La redazione del romanzo mescola inflessioni dialettali e italiano regionale nonché sfumature vernacolari della lingua. Per quale ragione ha adottato siffatta soluzione stilistica?
In effetti, i miei personaggi hanno la loro lingua, che non somiglia per niente alla mia, una lingua estorta nel momento in cui gli conferisco una storia, una realtà, un passato, una lingua che insomma si sono guadagnati vivendo, e per cui io non decido niente, purtroppo, o perlomeno non in maniera programmatica, ma tento di sporgermi nelle loro esistenze, di osservarli come si fa con ciò che amiamo, con quella attenzione lì, quella cura lì, e beninteso non c’è niente di prodigioso o mistico in ciò che faccio, diciamo che mi comporto come quegli scienziati che baruffano con gli allambicchi, mischiano i contenuti, compongono miscele azzardate, provano a realizzare l’impresa della loro vita.
Un ragazzino è segregato in una stanza buia. Due donne hanno appena sprangato con delle assi di legno la sua porta, per lasciarlo morire d'inedia. Nel frattempo scorre come un diario una lettera a Gesù crocifisso. Il suo è altresì un romanzo di formazione. Tra le pagine si desume la timidezza, la ritrosia, il tormento e la ribellione adolescenziale. Quali tratti assume la giovinezza nella ricerca di coordinate, d’interpretazioni univoche della realtà, di superamento delle contraddizioni?
La giovinezza è un periodo parecchio tormentato, a mio avviso, e senza scampo, in cui tutto è dilatato, perfido, magnificato solo da chi giovane non è più, e anche chi ha avuto la sorte di vivere in maniera spensierata gli anni della formazione ha comunque sperimentato il disagio, l’inadeguatezza, spesso anche la paura, perché la nostra società, nonostante blateri il contrario, obbliga le esistenze alla precostituzione, esortandole all’esperienza dei padri, alla perizia delle madri, e per cui la ribellione è l’unica strada possibile, tolta la sottomissione.
Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
Non ne ho idea. Siamo maledettamente nell’oggi, e chi tenta di analizzare il presente fa come il cartomante con il passato, o il prete con il futuro: procede per connessioni, al limite per desideri, mica per consapevolezze. È un atteggiamento che ammiro, ma che non so attuare. Per cui è da parecchio che ho smesso di relazionarmi con la mia attualità. Io la società me la invento, così da poter perdere a modo mio.
Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Senta, io non voglio sembrare a tutti i costi pessimista, ma il problema è che lo sono, e come tutti i pessimisti in buona fede mi pare che il mio pessimismo attenga più che altro al realismo, il che mi sporge inesorabilmente in un iper pessimismo inguaribile. Detto questo, mi pare che non sfugga più, il romanzo, mi pare che l’abbiano finalmente acchiappato.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. Quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?
È poco conosciuta, mi pare, per cui merita senz’altro più attenzione. Ovviamente, parlo per me.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII)
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