«La voluttà del disastro: Note sciolte per Cioran». Intervista con Ricardo Gil Soeiro

«L’ESISTENZA, per Cioran, oscilla sempre in questa delicata tensione tra, da un lato, l’assumersi come tragedia incommensurabile e, dall’altro, l’essere messa in prospettiva come una lieve noia, come un tedio che deve essere sopportato…  Ad ogni modo, si tratta sempre (come nel caso di Pessoa) di un inquadramento molto specifico: una teologia senza teologia, una forma di riflessione interstiziale e nomade che sorge quando il nichilismo è attraversato da un certo misticismo dai contorni indefiniti. Ciò che emerge da una tale riflessione è quella nostalgia intangibile che viene comunicata, quella fame di un assoluto irraggiungibile che potrebbe essere avvicinata al mistero della relazione dell’uomo con ciò che Rudolf Otto aveva definito “il numinoso”, il mysterium tremendum che non può non assalire colui che si avvicina al trascendente». Così Ricardo Gil Soeiro, autore di Notas Soltas para Cioran [Note sciolte per Cioran] (Labirinto, Portugal, 2019), nell’intervista che pubblichiamo in traduzione italiana. Il testo portoghese si può leggere sul portale brasiliano EMCioran/Br, che ha realizzato questa conversazione con l’autore a proposito di Cioran e altri temi: Fernando Pessoa e Clarice Lispector, scrivere e tessere, il frammento e altri esercizi, dialoghi infiniti…

Ricardo Gil Soeiro è poeta e saggista. Ha un dottorato di ricerca in Studi Letterari conseguito presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Lisbona, dove svolge attualmente la sua attività di ricercatore affiliato al Centro di Studi Comparativi. Si occupa di letterature comparate, teoria della letteratura e studi post-umanistici. Ha tradotto e curato il volume As Artes do Sentido [L’Arte dei Sensi] di George Steiner (Relógio D’Água, 2017); ha tradotto Confessioni e Anatemi di Cioran ed è uno dei curatori del volume Paul Celan: Da Ética do Silêncio à Poética do Encontro [Paul Celan: Dall’etica del silenzio alla poetica dell’incontro]. È inoltre autore dei seguenti volumi di saggistica: O Pensamento Tornado Dança [Il pensiero divenuto danza] (2009), Gramática da Esperança [Grammatica della speranza] (2009), Poéticas da Incompletude [Poetica dell’incompletezza] (2017) e, più recentemente, O Claro Enigma da Matéria: Uma Aproximação Pós-Humanista à Poesia de W. Szymborska [Il chiaro enigma della materia: un approccio post-umanista alla poesia di W. Szymborska] (Abysmo, 2019, in corso di pubblicazione). Nel 2012 è stato dato alle stampe L’apprendista di enigmi (Aracne), un’antologia poetica tradotta in italiano. Il volume Iminência do Encontro [Imminenza dell’incontro] è stato insignito del Premio PEN Club Portoghese – Primeira Obra 2010. Il libro A Sabedoria da Incerteza [La sapienza dell’incertezza] è stato invece finalista al Premio PEN dedicato alla saggistica (nel 2016). Il libro Palimpsesto è stato finalista al Grande Prémio de Literatura DST 2018. È inoltre l’autore del volume già citato in precedenza, Volúpia do Desastre: Notas Soltas para Cioran [La voluttà del disastro: Note sciolte per Cioran] (Labirinto, Portugal, 2019).


EMCioran/Br
: Come ha scoperto l’opera di Cioran e qual è stato il valore che le ha attribuito? Che cosa l’ha motivata a scrivere queste suggestive Notas Soltas para Cioran?

R.G.S.: Il primo contatto che ho avuto con Cioran è stato attraverso la lettura di Storia e Utopia [1], durante il mio primo anno di studi universitari. L’opera ovviamente non faceva parte del programma di alcuna materia: ho comprato il libro in una minuscola fiera del libro organizzata all’interno della Facoltà di Lettere di Lisbona e sono rimasto immediatamente affascinato dal tono e dall’intransigenza di quel pensiero, dalla qualità della scrittura, poiché si deve parlare anche di letteratura quando si parla di Cioran… Sono stato affascinato dal contorno nichilista delle sue ossessioni (la morte, la noia, la solitudine, il tempo, la disperazione), ma anche dalla veemenza dello stile nel quale quel pensiero radicale veniva plasmato. All’epoca ero immerso nella lettura de Il libro dell’inquietudine di Pessoa e di Húmus di Raul Brandão, accanto ad altre letture di Nietzsche e di Heidegger. Quel libro ha rappresentato, infatti, la scintilla che ha fatto scoppiare in maniera irrevocabile la mia passione per Cioran. Come succede del resto con tutte le vere ossessioni, a partire da quel momento ho cominciato a divorare tutto quello che riuscivo a trovare di quell’autore così enigmatico e paradossale. Subito dopo ho letto La tentazione di esistere (A Tentação de Existir, Lisboa, Relógio D’Água, 1988), che all’epoca era l’unica opera di Cioran tradotta qui, in Portogallo (oltre a Storia e Utopia) [2], e mi sono procurato alcuni libri in francese. Le prime opere di Cioran che ho letto in lingua originale furono De l’inconvénient d’être né e Précis de décomposition. Ho letto anche un’eccellente monografia firmata da João Maurício Bràs, intitolata O Pensamento Insuportável de Émile Cioran [Il pensiero insopportabile di Émile Cioran] [3]. La mia passione per Cioran non è stata scalfita negli anni e devo ammettere che ho sempre serbato il desiderio di scrivere qualcosa su di lui. All’epoca non sapevo esattamente che cosa avrei scritto, avrebbe potuto essere un saggio accademico. Non ho mai smesso di dialogare con Cioran ma è stato solo molto più tardi che ho fatto ritorno a lui in una forma più profonda: questo è accaduto quando ho tradotto Confessioni e anatemi e credo anche che questo ritorno influenzò in maniera decisiva alcuni dei miei lavori più recenti in termini letterari: Breviário Clandestino das Extravagâncias e Súmula das Aporias [Breviario clandestino di stravaganze e Sommario di aporie] (ultimi due volumi di Magma, un polittico che sarà pubblicato nel 2019 presso l’editore Abysmo). Quando ero impegnato nella traduzione di questa opera, non potevo smettere di dire a me stesso che avrei scritto qualcosa su Cioran, anche se non sapevo ancora in quale forma.

EMCioran/Br
: «Ci resta soltanto lo scrivere; scriviamo, dunque» – l’incipit del suo libro non potrebbe essere più opportuno. È una frase che evoca una certa concezione blanchotiana della scrittura come lavoro infinito, senza inizio e senza fine; «l’opera» come oggetto sempre incompiuto e senza fine… sarà dunque la scrittura un dolce veleno, una erranza salutare, un disastro irresistibile?

R.G.S.
: Apprezzo molto queste formulazioni perché, oltre a essere belle, sono anche precise. Sì, ho voluto che l’incipit del libro dialogasse con la sua fine e che fosse lo specchio a rovescio dell’apertura. Quando, alla fine del libro, recupero il seguente passo da La Tentazione d’esistere: «Eppure si deve scrivere: scriviamo…, illudiamoci a vicenda», quello che sto tentando di fare è conferire una possibile coerenza a un libro che, a ben guardare, è eminentemente frammentario e perciò, senza un filo di Arianna che possa condurre da un punto all’altro. Nel fare questo, non ho tralasciato tuttavia d’inserirvi anche un’ironica e ingannevole nota cioraniana, che operasse una specie di decostruzione della sua promessa di senso. Sì, scriviamo sempre, non potremmo tralasciare di scrivere. Ma come e a che prezzo? Non credo di sbagliarmi molto se dicessi che, in tutto ciò che scrivo, è sempre presente una riflessione più generale sull’atto dello scrivere. Inoltre, in questo opuscolo è presente anche un lato auto-riflessivo, che costituisce forse la pietra di paragone di tutto il mio lavoro saggistico e poetico. Scrivere: perché e come? Come iniziare? Il capitolo che inaugura il mio saggio O claro enigma da matéria (Lisboa, Abysmo, 2019) dedicato a W. Szymborska, è giustamente alle prese con quella che è la difficoltà degli inizi, del cominciare. In una sua bellissima poesia, la poetessa ci confida che «ogni inizio/ è solo un seguito,/ e il libro degli eventi/ è sempre aperto a metà» [4]. L’inizio racchiude sempre un perpetuo ricominciare, il lavoro infinito del quale parla Blanchot ed è d’altronde quest’opera in rovina a marcare in maniera indelebile la sensibilità frammentaria di Cioran. In questo senso, il testo non può non tradire le sue stesse premesse. È da questo inevitabile tradimento che si plasma il precario e prezioso significato al quale sarà possibile accedere. La lettura si alimenta di questo delicato miracolo. Dal canto suo, la scrittura sarà sempre questa specie di seduzione maledetta. Blanchot è difatti una figura che compare in quest’opuscolo, soprattutto per la sua riflessione sul tema dell’incompletezza e del lavoro infinito, e anche sulla nozione di disastro (dis-astrum), che rinvia a un tipo di opera rimasta orfana del suo astro, un’opera che è stata usurpata della sua stella guida.

EMCioran/Br: Mi permetta di citare un passaggio di Derrida, proprio all’inizio de La Farmacia di Platone: «Bisognerebbe dunque, in un sol gesto, ma sdoppiato, leggere e scrivere. Tuttavia, non avrebbe capito niente del gioco che si sentisse immediatamente autorizzato ad esagerare, cioè ad aggiungere qualsiasi cosa. Non aggiungerebbe nulla, la cucitura non terrebbe. Ma reciprocamente non leggerebbe neanche colui che la “prudenza metodologica”, le “norme dell’obiettività”, e i “parapetti del sapere” trattenessero dal mettervi del suo. Uguale scempiaggine, uguale sterilità del “non serio” e del “serio”. Il supplemento di lettura o di scrittura deve essere rigorosamente richiesto però dalla necessità di un gioco, segno al quale bisogna accordare il sistema di tutti i suoi poteri». [5] Tenendo a mente questa precisazione, le vorrei chiedere con quali difficoltà, rischi e sfide si è confrontato lungo questo percorso critico-creativo di approccio a un’«opera» tanto paradossale come quella di Cioran? E per riprendere una questione affrontata in una delle sue Notas Soltas: «Come rispondere alla sfida di questo apolide del senso (uno “scrittore extraterritoriale”, secondo lei, a partire dalla definizione resa celebre da Steiner), alla tumultuosità delle sue parole? Perché far proliferare le metastasi del commento? Non sarebbe più opportuno lasciare l’opera intatta, alla mercé del suo silenzio imperiosamente loquace?» (RGS 2019:6)


R.G.S.
: Sono pienamente cosciente del rischio che ho corso scegliendo una via un po’ più eterodossa. In opere anteriori (come in A Sabedoria da Incerteza, 2015, o Poéticas da Incompletude, 2017), il mio approccio ai temi letterari e filosofici è stato, infatti, più convenzionale e accademico, ma dovendomi confrontare con la forma mentis di Cioran, ho sentito il bisogno di dover optare per qualcosa di diverso e questa mi è parsa la modalità più consona per far fronte ai sobbalzi del suo pensiero antinomico. Ho cercato di rispettare la complessità di questa «opera» (e ha molto senso mettere questo lessema tra virgolette visto che lo stesso Cioran ebbe modo di sottolineare, in diverse circostanze, la sua sfiducia nei confronti dell’edificazione di un pensiero sistematico e inespugnabile), il che spiega le diverse tipologie testuali che ho adottato: oscillando soprattutto tra pagine più saggistiche e passi più aforistici. È un libro che, sebbene includa una bibliografia finale e diverse note, si contraddistingue per il suo flusso discontinuo e per l’aspetto frammentario. Il sottotitolo – Note sciolte per Cioran – ha lo scopo di enfatizzare tale aspetto e di alludere, allo stesso tempo, al puro desiderio di omaggio che ho voluto esprimere. La verità è che, fino a poco tempo fa, ciò che ha primeggiato è stato il desiderio di lasciare l’opera intatta da ogni contaminazione della tirannia del commento. Tuttavia, se, come afferma Manuel Gusmão, tutte le forme nelle quali si cala il discorso critico non sono altro che «modi di parlare ad alta voce nell’oscurità», la verità è che non possiamo esimerci dal desiderio di iniziare una conversazione ininterrotta con queste stesse opere, in virtù dell’irresistibile fascino che esercitano su di noi. Nel mio caso si è trattato di un debito d’amore che doveva essere saldato e questo piccolo libro rappresenta la forma rischiosa che ho dato alla mia risposta alla sfida del maestro del disinganno.

EMCioran/Br
: Nel 2011 l’Università di Porto ha ospitato il convegno Pessoa/Cioran: a 76 anni dalla morte di Pessoa e a 100 anni dalla nascita di Cioran. Le somiglianze tra lo scrittore francese di origine romena e il poeta portoghese sono inevitabili e sempre opportune. Lei parla di un’affinità elettiva tra i due, «nelle isotopie e nella cosmovisione che entrambi esplorano» e riconosce in entrambi «un’oscurità che tinge il pensiero e che nasce da una chiaroveggenza implacabile» (RGS 2019: 19-20). A questo proposito, Pessoa (Bernardo Soares) aveva scritto ne Il libro dell’Inquietudine: «Beati i costruttori di sistemi pessimisti! Non solo sostengono di aver fatto qualcosa, ma si compiacciono anche di ciò che hanno spiegato, e si includono nel dolore universale. Io non mi lamento del mondo. Non protesto in nome dell’universo. Non sono pessimista. Soffro e mi lamento, ma non so se ciò che esiste di generale è la sofferenza né se è umano soffrire. Che mi importa sapere se ciò è vero o no? Io soffro, non so se meritatamente (Capriolo inseguito.) Io non sono pessimista, sono triste» (62,127). [6]
Sarà anche il caso di Cioran? Inoltre, desidererei evocare qui una terza figura, femminile, una scrittrice brasiliana nata in Ucraina: Clarice Lispector. Lei si occupa della sua opera nel suo libro A sabedoria da incerteza: imaginação literária e a poética da obrigação [La sapienza dell’incertezza: immaginazione letteraria e poetica dell’obbligo] (Húmus, 2015) [7]. Che affinità ci sono tra queste tre figure e le loro rispettive opere?

R.G.S.
: Questa è una questione immensa alla quale non saprei rispondere in una maniera come minimo appropriata. Sono tre autori paradossali, sono universi mentali estremamente contraddittori, tutti e tre gettano un manto di sospetto sulla propria idea di opera e sull’inadeguatezza della parola per testimoniare il nostro abbandono ontologico e la nobiltà della nostra mortalità. I soggetti plurali che emergono da questa scrittura e da questo pensiero plurisfaccettati sono soggetti lacerati e nomadi, ironici, passivi, non-conformisti, abulici, agonici, altezzosi e intrepidi… La relazione tra Pessoa e Cioran è, per così dire, più diretta ed è stata abbastanza ben documentata [8]. Per quanto riguarda la Lispector, la questione è un po’ più problematica, ma credo che si possano trovare punti di contatto. Se pensiamo a Cioran e Lispector, per esempio, mi pare che l’idea che lo scrivere sia una «maledizione che salva» provenga dalla stessa oscurità, dallo stesso abisso inconfessabile. La crisi che si abbatte sull’atto dello scrivere riflette l’acuta crisi che colpisce il soggetto e la sua problematica relazione con il mondo. Nel racconto O grito [Il grido], Lispector si confessa in maniera impavida: «Cosa farò di me? Quasi niente. Non scriverò più libri. Perché se continuassi a scrivere, finirei col dire verità così dure che sarebbero difficili da sopportare sia per me, sia per gli altri. C’è un limite nell’essere. Sono già arrivata a questo limite» [9]. È una inquietudine tagliente, un terrore interiore che si confonde con un sentimento trionfale di fallimento che intravedo anche in Pessoa e in Cioran. Ad ogni modo, per quello che mi è possibile valutare, la cosmovisione lispectoriana mi sembra molto più solare se paragonata alla tenebrosa visione del mondo concepita da Cioran e da Pessoa.

EMCioran/Br
: A Cioran, che era amante del tango argentino e del fado portoghese (amava soprattutto la voce di Amália Rodrigues), piaceva ricordare che il suo idioma materno è uno dei pochi che possiede una parola equivalente alla nostra saudade e allo Sehnsucht tedesco: il dor romeno. Non le sembra che si tratti di un suggestivo passaggio semantico da una lingua all’altra e di una «felice» coincidenza a partire da ciò che i due termini esprimono (saudade, dor) e dalla contiguità con la cartografia degli affetti della lingua portoghese? L’affinità elettiva tra Cioran e Pessoa non scaturirebbe dunque da una certa nostalgia per qualcosa di inesistente o, ad ogni modo, indisponibile, inaccessibile, un assoluto, un «paradiso perduto»?

R.G.S.
: Sì, è una coincidenza assolutamente incantevole e piena di simbolismo. Credo che Cioran faccia questo accostamento nell’intervista concessa a Sylvie Jaudeau [10]. Il fatto che esso emerga nel contesto della sua riflessione sul paradosso che la musica richiude dentro di sé (come una forma di eternità intravvista nel tempo), contribuisce ancora di più a inspessirne il simbolismo. Ed è curioso che venga utilizzata l’espressione «paradiso perduto», poiché essa rinvia alla nozione di caduta che informa il quadro mentale della scrittura in Cioran. Accenno a questo aspetto nel mio libro e credo che l’esilio sia una delle parole-chiave del pensiero cioraniano. La tragedia capitale sarebbe giustamente, secondo Cioran, questa caduta nell’essere e nel tempo, l’ineluttabilità dell’esistenza, dunque. E questa è un’intuizione che va contro le nostre più profonde convinzioni, poiché va a toccare una certa concezione darwiniana sull’essere legati alla vita, sulla lotta per la sopravvivenza, per persistere nell’essere. Cioran contesta con veemenza il primato di quest’idea, contrapponendole una formula che mi sembra profondamente comica (dimensione questa spesso dimenticata nella sua scrittura), l’idea di una inconvenienza di essere nati. L’ESISTENZA, per Cioran, oscilla sempre in questa delicata tensione tra, da un lato, l’assumersi come tragedia incommensurabile e, dall’altro, l’essere messa in prospettiva come una lieve noia, come un tedio che deve essere sopportato…  Ad ogni modo, si tratta sempre (come nel caso di Pessoa) di un inquadramento molto specifico: una teologia senza teologia, una forma di riflessione interstiziale e nomade che sorge quando il nichilismo è attraversato da un certo misticismo dai contorni indefiniti. Ciò che emerge da una tale riflessione è quella nostalgia intangibile che viene comunicata, quella fame di un assoluto irraggiungibile che potrebbe essere avvicinata al mistero della relazione dell’uomo con ciò che Rudolf Otto aveva definito «il numinoso», quel mysterium tremendum che non può non assalire colui che si avvicina al trascendente.

EMCioran/Br: Lei è uno studioso dell’opera di George Steiner, al quale ha dedicato un libro: Iminência do Encontro (2009). È risaputo che Steiner ha scritto delle cose durissime su Cioran. Come valuta la critica devastante che egli indirizzò all’opera di Cioran nel suo saggio Short shrift e, nello specifico a Écartèlement (Drawn & Quartered nella versione inglese di Richard Howard)? Non pensa che tale critica vada nella stessa direzione dell’accusa che Sartre mosse a Camus, poiché secondo lui l’autore de La peste «odia Dio più di quanto odi i nazisti», i quali «non contano mai veramente nel mondo di Camus». Per Susan Neiman (nel contesto della sua riflessione sul problema filosofico del male nel XX secolo), la critica di Sartre non è priva di fondamento (e lo stesso si potrebbe dire della critica di Steiner a Cioran) in quanto, secondo lei, «la metafora di Camus sconfina nell’irresponsabilità volontaria. […] La discussione dei mali morali e naturali di Camus è il risultato non di una confusione concettuale ma di un’affermazione consapevole. I mali morali e i mali naturali sono casi particolari di qualcosa di peggiore: il male metafisico insito nella condizione umana» [11]. Questo ci rinvia alla controversia intorno alla funzione sociale dello scrittore, dell’artista, dell’intellettuale moderno, il suo ruolo in quanto figura pubblica impegnata e solidale con la sua epoca, tema tra l’altro de La morale dans l’écriture: Camus, Char, Cioran di Michel Jarrety [12]. A giudicare dalle sue Notas [13], ci troveremmo di fronte a un caso eccezionale di désoeuvrement: l’«anti-opera» di chi aspirò voluttuosamente alla santità dell’ozio e a essere più inutilizzabile di un santo. Come giudica la relazione tra la poetica del disastro e una certa metafisica del fallimento in Cioran? È forse la generosità del fiele il suo contributo a un’epoca dominata dall’auto-aiuto, dall’angelismo new age e ottimismi affini?


R.G.S.
: Confesso che sono sempre stato affascinato dall’opera steineriana. Iminência do Encontro è il frutto di un assiduo dialogo con il maestro di Cambridge. Tuttavia, già in questo libro provavo a interrogare l’ermeneutica della trascendenza facendo ricorso all’ermeneutica radicale, di cui il caposcuola fu il filosofo nordamericano John Caputo. Ma, per rispondere direttamente alla sua domanda, le considerazioni steineriane su Cioran mi sembrano francamente ingiuste e quantomeno strane, dato che è lo stesso Steiner, in apertura di questo testo [14], a confessare apertamente le sue affinità elettive con il pessimismo filosofico che il sermone funebre di Cioran certamente racchiude: «In effetti, il mio stesso istinto non punta in direzioni più luminose». Come sottolinea Robert Boyers nella sua introduzione al volume George Steiner at the New Yorker, raccolta nella quale ha incluso questo testo su Cioran, la resistenza dell’autore di Grammatiche della creazione si direbbe un bruttale eccesso di semplificazione da parte di uno scrittore che aveva dimostrato di essere dotato di fine ironia e di una grande sottigliezza stilistica. E questo è ancora più strano dal momento che una delle principali accuse mosse contro Steiner è stata giustamente quella di un suo eccesso di semplificazione argomentativa e teorica, così palese nel saggismo impressionistico e nell’eccessiva oscurità dogmatica che tinge il suo pensamento (penso a opere permeate di pessimismo filosofico come La morte della tragedia, 1961, Linguaggio e silenzio, 1967 e Nel castello di Barbablù, 1971). Del resto, l’accusa secondo la quale Cioran subirebbe il fascino del suo stesso tono oracolare è stata mossa anche a Steiner. E Steiner ha sempre replicato (a ragion veduta, credo) sottolineando che, per quanto riguarda l’indagine umanistica, la teoria non è che un’intuizione impaziente [15]. Nel testo in questione, Steiner valorizza Minima Moralia di Adorno a scapito dell’opera recensita – Écartèlement (1979), ma questa è a mio avviso un’opera non meno fertile, piena di folgorazioni disarmanti e di un commovente lirismo. Vorrei ribadire questo aspetto: oltre a essere un pensatore autorevole (e non un mero epigono di Nietzsche come alcuni vorrebbero farci credere), Cioran fu uno scrittore assolutamente eccezionale. Quando Cioran scrive: sono così triste e così felice che le mie lacrime riflettono il cielo e l'inferno con la stessa precisione non è solo il pensatore che cerca di soggiogare il linguaggio e di lasciarsi soggiogare da esso; è anche il poeta che si arrende all’alchimia del verbo. Per quanto riguarda la seconda parte della questione da lei sollevata, mi trova totalmente d’accordo. Credo anzi che la rivendicazione di una prerogativa morale da parte dello scrittore non potrebbe essere più lontana dalla posizione cioraniana. Cioran è molto chiaro al riguardo. Se dovessimo prestare fede alle sue dichiarazioni, lo scrivere era per lui solo un modo per poter meglio formulare le sue ossessioni, una terapia squisitamente individuale, dunque. Un pensiero che non ispirasse seguaci e che fosse unicamente frutto di una solitudine indicibile e intrasmissibile: era questo il suo desideratum.
In questo senso, penso che potremmo considerare l’opera cioraniana un prezioso manuale di anti-aiuto, un catalogo di istruzioni che mette in mostra l’audacia di celebrare la metafisica del fallimento in opposizione al culto puerile del successo che ha segnato in maniera indelebile la nostra era del vuoto, per citare la terminologia di Lipovetsky. Tuttavia, pur rimanendo ineluttabilmente ai margini dei dettami infantilmente ottimistici della nostra epoca, non ho dubbi che Cioran continuerà a essere letto da spiriti che a lui sono elettivamente affratellati. Perché? Perché, in fondo, Cioran è stato un esimio seduttore: qualcuno che ha portato la radicalità del pensiero al suo limite, qualcuno che è stato implacabile con tutto, a cominciare da se stesso. Ma chi si arrischia a leggere questo anti-filosofo sa che dalla discesa agli inferi è sempre possibile estrarre una dura lezione di luce – che potremmo chiamare lucidità. I suoi lettori sanno di cosa sto parlando. Cioran l’ha detto con parole migliori: una persona può dirsi nichilista e, tuttavia, innamorarsi come il più grande idiota.




Traduzione di Amelia Natalia Bulboaca
(febbraio 2019, anno IX)



NOTE

[1] Cf. História e Utopia, Lisboa, Bertrand 1994.
[2] Nel frattempo sono stati pubblicati altri due libri di Cioran: Silogismos da Amargura (Lisboa, Letra Livre 2009) e Do inconveniente de ter nascido (Lisboa, Letra Livre 2010).
[3] BRÁS, João Maurício, O Pensamento Insuportável de Émile Cioran. Um Itinerário do Desespero à Lucidez, Porto, Campo das Letras 2006.
[4] SZYMBORSKA, W., Paisagem com grão de areia, Lisboa, Relógio D’Água, 1998, p. 315; [ed. it. Amore a prima vista, Adelphi 2017].
[5] DERRIDA, Jacques, La farmacia di Platone, Jaca Book Milano 2015, p. 52.
[6] PESSOA, Fernando, Livro do desassossego: composto por Bernardo de Soares, ajudante de guarda-livros na cidade de Lisboa, São Paulo, Companhia das Letras, 1999, p. 149; [ed. it. Il secondo libro dell’Inquietudine, Feltrinelli 2018, a cura di: R. Francavilla].
[7] «Dicendo addio al modello rappresentativo e puntando sull’infinito del linguaggio, si potrebbe dire che il testo scrivibile è ciò che si scrive sulla soglia. Essendo in un certo senso un libro in divenire che fornisce un’inaccessibile esperienza di follia, il testo scrivibile è attraversato da una parola plurale, fecondata dalla molteplicità e dalla discontinuità, tratti inequivocabili della tela rizomatica nella quale s’iscrive questa tipologia testuale. Pochi scrittori come Clarice Lispector hanno sfidato così radicalmente l’idea di mimesi nel lavoro letterario. La sua scrittura, in particolare l’esperienza del linguaggio e del mondo, come si evince dalle opere della maturità, costituisce un esempio paradigmatico di una letteratura che interroga ontologicamente i propri limiti». SOEIRO, Ricardo Gil, A sabedoria da incerteza: imaginação literária e a poética da obrigação, Ribeirão, Húmus 2015, p. 123.
[8] Cf. BRÁS, João Maurício, Fernando Pessoa e a filosofia: um diálogo com Emil Cioran e John Gray, in: 100 Orpheu, org. Dionísio Vila Maior/Annabela Rita, Porto, Edições Esgotadas 2016, pp. 113-124; e BORGES, Paulo, Emil Cioran e Fernando Pessoa: salto no absoluto e «fuga para fora de Deus», in: O teatro da vacuidade ou a impossibilidade de ser eu. Estudos e ensaios pessoanos, Lisboa, Verbo 2011, pp. 231-271.
[9] LISPECTOR, Clarice, A Descoberta do Mundo, Lisboa, Relógio D’Água 2013, p. 108.
[10] Cf. CIORAN, Emil, Entretien avec Sylvie Jaudeau, in Entretiens, Paris, Gallimard 1995, p. 230; cf. Précis de Décomposition, Oeuvres, Paris, Gallimard 1995, pp. 607-609.
[11] NEIMAN, Susan, In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Editori Laterza, Roma-Bari 2017.
[12] «Nous sommes désormais sortis d’une époque où la disjonction radicale de l’auteur et de l’œuvre conduisait à n’envisager la relation de l’écrivain au monde, pour l’essentiel, que sous la forme d’un engagement qui, justement, le dégageait largement de ce qui l’avait fait écrivain, et l’établissait parmi les intellectuels. Le prestige que ses livres lui valaient pouvait sans doute fonder l’autorité qu’on lui reconnaissait : elle se dissociait néanmoins largement de ce qu’il avait pu écrire et procédait moins de l’auteur lui-même que de la figure publique qui s’était construite à partir de lui. Ainsi socialisée, rabattue au versant de l’histoire culturelle et du politique, la présence de l’auteur au monde se trouvait pour une part déliée des valeurs que ses livres, précisément, mettaient en œuvre, et dont on ne retenait, dans le meilleur des cas, que des principes abstraits, c’est-à-dire séparés tout à la fois de l’expérience privée qui le avait forgés et de la forme qui leur donnait force». JARRETY, Michel, La morale dans l’écriture: Camus, Char, Cioran, Paris, Presses Universitaires de France 1999, p. 5.
[13] «All’agiografia dell’opera Cioran contrappone il désoeuvrement del neutro, un movimento perpetuo di dislocazione di forze e di intensità, la rovina dell’edificio». SOEIRO, Ricardo Gil, Volúpia do Desastre: Notas Soltas para Cioran (in corso di pubblicazione), Fafe, Labirinto 2019, pp. 7-8.
[14] STEINER, George, Short Shrift (On E. M. Cioran), in: «New Yorker», 16 aprile 1984 (ed. it. in Letture, Garzanti, Milano 2010).
[15] STEINER, George, Os Logocratas, Lisboa, Relógio D’Água 2006, p. 152. Nel suo opus magnum, Steiner propone la seguente definizione: «Mi piacerebbe definire l’aspirazione teorica nel campo degli studi umanistici come impazienza sistematizzata». STEINER, George, Presenças Reais, Lisboa, Presença 1993, p. 84 [ed. it. Vere presenze, Garzanti 1992].