Tra letteratura e cinema. Dialogo con Paola Populin

Ospite questo mese dei nostri Incontri critici è Paola Populin, docente presso Universidad del País Vasco. È dottore di ricerca in Beni culturali e Letteratura comparata (Letterature e Cinema) presso la Universidad del País Vasco e, in cotutela internazionale, presso l'Università degli studi di Roma TorVergata. Di recente, ha lavorato su un progetto di ricerca riguardante la costruzione dell’immagine di identità nella narrazione cinematografica. Altri temi di ricerca sono relativi a letteratura e Filologia Italiana, Letteratura Comparata, cinema e letteratura, critica cinematografica, sistemi produttivi, Pirandello e il cinema, questioni di genere e movimenti transgender. Inoltre è titolare di produzione cinematografica indipendente e ha partecipato, in qualità di esperto, alla progettazione e realizzazione di festival internazionali di cortometraggi. Ha partecipato a diversi convegni nazionali e internazionali, come relatore e nei comitati organizzatori.



Quali sono le principali sfide artistiche e narrative che si incontrano nel tradurre un'opera letteraria, ricca di introspezione e dettagli, in un'opera cinematografica visiva e temporaneamente limitata?


‘Tradurre’ significa, letteralmente, ‘portare qualcosa da una parte a un’altra’. In questo caso parliamo di ‘transcodificazione’, o, con termine tecnico cinematografico, adattamento, cioè un trasferimento di codici, che prevede una mutazione del testo. È difficile, tuttavia, pensare solamente a una trasformazione: in questo caso, infatti, dovremmo avere una certa fissità negli elementi che caratterizzano i codici, e su cui nei testi letterari o audiovisivi o musicali non possiamo contare; anche il codice, infatti, subisce la mutevolezza dell’osservatore, del contesto, del sistema dei segni, dunque, che lo compongono.
Nelle grandi opere del passato ciò che intercorre tra lo scrittore e il destinatario resta sempre un sistema di segni complesso e mutevole, nonostante il rigore del codice dello scritto di partenza. La ‘rete di relazioni inesauribili’ a cui fa riferimento Eco nel discorso sull’opera aperta, è quell’atto interpretativo che il fruitore attua liberamente, senza necessità. E, nell’atto del fruitore (lettore/spettatore), avviene il mutamento dei segni, parzialmente del codice, e in definitiva, del senso.
La sfida di chi ‘traduce’ o meglio adatta un’opera letteraria in un film non può non tenere conto di un atto interpretativo che sempre caratterizza il pubblico. In questa mutevolezza tuttavia c’è sempre un’idea di quello che è un romanzo, una poesia o un film.
Soffermiamoci sulle due parole chiave da Lei utilizzate: ‘introspezione’ e ‘dettagli’.
Se intendiamo l’introspezione come quella possibilità, che ha lo scrittore, di dilatare il tempo narrativo con un fermo immagine in cui intervengono racconti, ricordi, commenti, pensieri e descrizioni e altro tipo di estensioni, se intendiamo parlare di dettagli per quanto concerne la libertà dello scrittore di muoversi sul piano delle immagini generate dal racconto, allora vediamo che l’autore del film può operare con la medesima libertà nella gestione dei codici.
Pensiamo per esempio alla durata/estensione, su cui Deleuze ci ha lasciato fondamentali riflessioni.
Se è vero che nel cinema lo spettatore ha meno tempo di quello che può avere il lettore, in un tempo breve di qualche minuto possono esistere più elementi che, presi separatamente, costituirebbero pagine di descrizioni, con la conseguente maggiore durata del testo.
Il fatto è che il concetto di durata del film non ha lo stesso criterio di misura del testo scritto. Si pensi proprio alla struttura del testo filmico: ad esso cooperano differenti elementi: il suono, il colore, la luce, i toni di voci e colori, la disposizione nel tempo e nello spazio, il montaggio. In quei dieci secondi di inquadratura il suono percorre una linea di racconto che può essere seguita anche indipendentemente dal resto, riferendosi a un sistema di segni proprio, così il colore e i toni – sia del suono che del colore –, i movimenti della macchina, degli attori, lo spazio e l’illuminazione dello spazio (diversa dal concetto di ‘colore’). I tre elementi di suono – voce, musica, rumori – hanno in sé codici propri che creano il testo se combinati, ma sono comprensibili se presi a sé stanti. Pertanto, ci troviamo davanti a dieci secondi di inquadratura che si estende in orizzontale e in verticale, con una compresenza e contemporaneità che nella scrittura è impossibile. Il concetto di tempo, pertanto, e di limitazione dello stesso per quanto riguarda il film, è un falso problema. Certo, la ‘riduzione’ filmica della Recherche sarebbe un’impresa non da poco, ma dobbiamo ricordarci che nel prodotto audiovisivo ci sono possibilità infinite. Necessario saperle cogliere e combinare.


Come cambia il concetto di autore quando un romanzo viene adattato per il grande schermo? Il regista può essere considerato co-autore dell’opera narrativa
?

Da quanto detto in precedenza, l’autorialità assume un significato tutto diverso tra l’opera letteraria e quella audiovisiva, o filmica. Se infatti nel romanzo c’è un autore, nel film si deve parlare di co-autorialità: il regista solo in parte può essere considerato unico autore, dato che l’apporto degli altri contribuisce in modo decisivo alla creazione dell’opera. Si può trattare di co-autori, ma anche in questo caso non sarebbe corretto definire i registi (e gli altri) co-autori dell’opera: meglio forse lettori-interpreti-creatori. Ogni opera è un mondo a sé.


In che modo il cinema è riuscito a rendere visibili tecniche letterarie come il flusso di coscienza o l’uso simbolico dei dettagli?


Mi piace non essere io a rispondere a questa domanda, ma voglio riproporre un intervento di Jean Epstein:
‘L'altro potere del Cinema è il suo animismo. Un oggetto inerte, ad esempio un revolver, a teatro è solo un accessorio di scena. Il cinema ha i primi piani. La Browning che una mano estrae lentamente da un cassetto semiaperto (non c'è un film americano, ormai, nel quale un revolver non venga lentamente estratto da un cassetto semiaperto) d’improvviso si anima. Diventa il simbolo di mille possibilità. I desideri, le disperazioni che rappresenta, lei, cosa senza vita; la quantità di circostanze che può innescare; e, il dramma che stringe o scioglie, la fine o l'inizio con cui coincide, tutto garantisce alla Browning una sorta di libertà e di anima, non diversa dalla nostra. Quella libertà, quell'anima sono forse epifenomeni più delle nostre?’ Jean  Epstein, Lo sguardo del vetro, in «Les Cahiers du mois» Cinèma, n. 16/17, Paris 1925, trad.it. ed. Cineteca di Bologna.

Credo che sia molto interessante valutare queste parole: siamo nel 1925, quasi trenta anni dopo la nascita del cinema. Da allora il cinema aveva esplorato quasi tutte le sue possibilità narrative e soprattutto tecniche: il legame profondo con le Avanguardie artistiche aveva fatto in modo di accentuare la relazione tra i linguaggi, l’utilizzo di codici differenti in testi differenti, le intersezioni. Il cinema offre la possibilità di esprimere uno stato d’animo in modo anche più significativo del testo: lo spaesamento di Mattia Pascal nel film  L’Herbier (1924) è reso con la tecnica della sovrimpressione, in una immagine che mostra tutto il personaggio, la sua evoluzione e il suo pensiero. I versi di Desnos dell’Etoile de mer  acquistano senso attraverso il filtro di vetro della ripresa nella versione di Man Ray (1928), così come il flusso onirico e irreale dei desideri. Le possibilità si sono moltiplicate con l’avvento del digitale e ora , dell’AI. Ma questo è un altro discorso.


Come l'adattamento cinematografico di un'opera letteraria riflette i cambiamenti socio-culturali e ideologici del periodo in cui viene realizzato rispetto al contesto storico dell'opera originale
?

Avviene in maniera naturale che molto di ciò che si realizza, crea, produce sia fatto in funzione del pubblico: proporre una cosa che non può essere compresa né accettata significa andare incontro a un fallimento. Molto spesso si scelgono soggetti che possono essere incomprensibili o inaccettabili se proposti in epoche diverse da quelle in cui sono stati scritti, ed è pertanto necessario una traduzione culturale,  nell’ottica di luoghi e tempi, che possa garantire una creazione comprensibile. Il principio base della comunicazione, il discorso, come sappiamo a partire dalla Retorica di Aristotele (1358a) in poi, è fondato su tre elementi: colui che parla, ciò di cui si parla, colui al quale si parla. Il fine (telos, per rimanere sulle parole di Aristotele) del discorso è l’ascoltatore, indipendentemente dalla retorica, di natura vincolata a una decisione. Anche nel caso dell’opera letteraria e poi filmica, lo spettatore o lettore prende una decisione: credere o no, accettare o no. Si rende dunque necessario un adattamento che tenga conto del contesto in cui la nuova opera sarà proposta; se il contesto storico di partenza è riferito a un fatto particolarmente noto o eclatante, conosciuto e indiscusso, la ricostruzione del contesto letterario sarà facile mentre, se il contesto è riferito a storie locali e poco conosciute, sarà necessario operare secondo criteri che agevolino la diffusione dell’opera.


In quali modi il cinema può essere considerato un mezzo poetico, capace di evocare immagini e sentimenti in modo analogo alla letteratura? Quali registi o opere incarnano meglio questo legame?


Per quanto riguarda i registi, non saprei rispondere: mi piace considerare ogni opera a sé stante, come un prodotto che debba essere considerato autonomo dall’insieme delle opere del regista e dei suoi collaboratori. Che poi ci sia un particolare tono, un carattere, che rende riconoscibile l’autore/autori, è vero, ma non credo che ci sia un regista particolarmente ‘letterario’. Il cinema, d’altro canto, lavora sulle metafore come la poesia: letteratura e cinema non possono essere considerati disgiunti e differenti.
Se vogliamo pensare a un film che incarna il legame tra un codice poetico/letterario e quello dell’immagine, mi viene in mente Lo que arde (2019) di Oliver Laxe. Non si tratta di soggetto derivato, ma la qualità di mezzo poetico è evidente sin dall’inizio: la scena iniziale mostra alberi scossi dal vento, lungamente. Non c’è elemento umano, ma il vento, che spesso, secondo un codice narrativo cinematografico prelude a qualcosa di magico, soprannaturale e malefico, anticipa allo spettatore il male di vivere, la solitudine e l’isolamento che vive il protagonista e che è il leit motiv del film. E che è la direzione che lo spettatore deve prendere prima di iniziare il film.


Quali sono gli esempi in cui un film ha contribuito a rinnovare o ridefinire il valore culturale di un'opera letteraria caduta nell'oblio
?

Più che di un’opera caduta nell’oblio, parlerei di un’opera che per lungo tempo non è stata amata e compresa in ambito internazionale: Un’altra Giovinezza, di Mircea Eliade. Non si tratta di un romanzo semplice, poichè indaga sulle forme del linguaggio e del tempo, accostandosi a generi letterari trasversali e piuttosto lontano dal linguaggio dello studioso e del filosofo; si tratta però di un romanzo che porta il lettore nel mondo del possibile, in sentieri incrociati di percorsi indefiniti, fino al raggiungimento della rigenerazione. Un romanzo da leggere, insomma. E con l’aiuto della Zoetrope di Francis Ford Coppola, il romanzo è stato narrato un’altra volta, e portato sugli schermi internazionali. Il protagonista Dominic Matei, interpretato da Tim Roth, si fa accompagnare nella strada del sapere e della scoperta, del mistero dell’impossibile tra la morte che torna vita, suggerendo allo spettatore le linee del pensiero di Eliade e il senso dei suoi scritti.


Qual è il ruolo dell’interpretazione soggettiva di un regista nel creare versioni cinematografiche che divergono significativamente dal testo originale? Quando questa libertà creativa è giustificata
?

Secondo quanto si è detto in precedenza, la libertà creativa rispetto a un testo dovrebbe essere massima e non condizionata. Se però il testo è totalmente divergente e non ha lo spirito e il senso del romanzo a cui si ispira, naturalmente, si tratta di altra cosa.
Sto pensando ad un caso recente: il film di Lanthimos derivato dal romanzo di Alasdair Gray, scrittore che ho scoperto anch’io non molti anni fa con Lanark, pressoché sconosciuto a molti lettori. In questo caso si accostano due personalità ben definite, non certo neutre. Nel film inoltre, per il ruolo di Bella Baxter è stata scelta Emma Stone, un attrice che avrebbe dato al suo ruolo un rilievo estremo, ben oltre quello della protagonista del romanzo di Gray.
Forse non sempre tutto coincide, ma è stata una operazione necessaria; conferire a Bella il compito di una donna che vuole affermare diritti e libertà di scelta al di là di quanto la stessa possa apparire nel romanzo significa operare quella traduzione di cui si parlava in precedenza: una attenzione maggiore ad un pubblico cinematografico che ama le donne quando rivendicano le loro scelte, soprattutto sessuali, che si mostrano libere e indipendenti, dominanti e autonome. Una concessione al pubblico, e ad un personaggio che possa rivelare sempre più le doti di Stone. Necessario.


In che modo le tecniche cinematografiche influenzano la narrativa contemporanea? È possibile identificare autori che scrivono "cinematograficamente"?


Sì, sicuramente. A parte l’arcinoto caso di Pasolini, che si muove tra i generi liberamente, li mescola e se ne appropria fondendoli, mi piace ricordare una lunga chiacchierata di qualche anno fa – nel periodo della pandemia, in un parco insolitamente solitario – con lo scrittore Bernardo Atxaga, uno degli scrittori baschi più tradotto nel mondo. Avevo sempre letto Atxaga con piacere perchè immediatamente mi trovavo davanti a un film: la natura e l’interazione tra uomini e animali, permeate di quel realismo magico proprio dell’autore, mi avevano sempre immediatamente collocato in un mondo ‘visivo’, nei colori e suoni dei boschi di Euskadi, tra le parole di esseri animati che conversavano tra loro. Alle prese con la traduzione di una sua vecchia sceneggiatura inedita, gli chiesi dei suoi procedimenti creativi e, semplicemente, mi rispose: ‘Anche quando scrivo, prima immagino tutto: la scena, i movimenti, le inquadrature, i tagli: li vedo.’ Quindi, l’avere tutto chiaro, il vedere i personaggi come se fossero su uno schermo, anche se solo destinati alla pagina, fa dell’autore uno scrittore che agisce in modo cinematografico, e del lettore uno spettatore. Non dimentichiamoci poi che la grande letteratura offre immagini: che dire di quel dolly (ora sarebbe un drone) verso il basso dell’incipit dei Promessi Sposi? E forse che non siamo anche noi ospiti a pranzo dai Guermantes?


Come il cinema trasforma personaggi letterari complessi in icone culturali riconoscibili, talvolta alterandone la natura originaria
?

Uno dei casi potrebbe essere quello di cui abbiamo già parlato, a proposito del film di Lanthimos. Si tratta di una necessità, conseguente e dipendente dai presunti gusti del pubblico, dal contesto di produzione, dal contesto culturale. In genere si procede ad una semplificazione: si isolano i caratteri salienti del personaggio, lo si fa esprimere in situazioni che il pubblico possa condividere o far sue, rispondendo a desideri e aspettative, si forgia il suo linguaggio, parole e azioni in modo che il pubblico sia attratto, e in modo che sia il più evidente possibile, giocando su maggiorazione e enfasi. Meno sfumature, ma più incisive. Del resto anche questo è un vecchio gioco e una vecchia tecnica: la creazione del personaggio nella retorica, la creazione del personaggio nell’azione teatrale. E anche qui compare il nostro Aristotele.


In che misura le rappresentazioni cinematografiche di grandi opere letterarie contribuiscono a plasmare l’immaginario collettivo più di quanto faccia il testo scritto
?

Perché il libro non ha più, attualmente, lo stesso impatto dell’immagine. Mi viene da pensare che ‘guardare le figure’ sia più facile che raffigurarsele mentre si percorrono righe nere su carta bianca. Un po’ come quando, secoli fa, qualcuno entrava in chiesa e, vedendo l’immagine di un bel giovane legato ad un albero e trafitto da frecce, magari con il volto in estasi, pensava a un certo Sebastiano e al suo martirio. O quando le complesse teorie della rivoluzione di Ottobre non potevano essere lette agevolmente dai contadini del villaggio di campagna lontanissimo dalla capitale: si trasformavano in immagini, si portava il necessario per la proiezione anche nei luoghi più lontani e reconditi della Russia, e si faceva vedere, con accorgimenti esemplari di regia, chi era il cattivo e chi il buono: Ejzenštejn docet.
È naturale, dunque, che la rappresentazione cinematografica sia più efficace di un testo scritto laddove sin dai primi anni l’apprendimento avviene per colori e immagini piuttosto che nell’ambito della dicromia della pagina scritta. Chiediamoci però quale sia lo schermo: sempre meno quello della sala, in cui allo spegnersi della luce c’è quella sorta di emozione causata dall’entrata in chissà quale mondo, ma uno schermo più piccolo, in luogo meno chiuso e discreto, che lascia aperta la possibilità di comunicare con l’esterno e lascia entrare tutto.
Però qui entriamo in un altro ambito e altre riflessioni.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 2, febbraio 2025, anno XV)