Una vita per i libri. Alla memoria di Nuccio Ordine, grande amico della Romania Il 10 giugno di quest'anno è venuto a mancare Nuccio Ordine, saggista, storico e critico letterario italiano, prezioso collaboratore e amico insostituibile, co-coordinatore della collana bilingue «Biblioteca Italiana» della casa editrice Humanitas, che abbiamo coordinato insieme per diciassette anni. La notizia della sua morte colpì come un fulmine tutti coloro che lo conoscevano in tutto il mondo: perché Nuccio era l’incarnazione stessa della vitalità, della forza e dell’entusiasmo, e perché nel mondo delle lettere era conosciuto, pubblicato, premiato in tutti i continenti. È stato professore di Letteratura italiana e Teoria letteraria all’Università di Cosenza, cioè nella sua nativa Calabria, visiting professor presso le università e gli istituti più prestigiosi del mondo (come École Normale Supérieure di Parigi, Paris IV Paris-Sorbonne e Paris III Sorbonne Nouvelle, École des Hautes Etudes en Sciences Sociales anche a Parigi, Warburg Institute a Londra, Harvard, Yale e New York University negli USA), premiato – per i suoi studi dedicati all’opera di Giordano Buno, alla letteratura e alla filosofia del Rinascimento, nonché per le sue infuocate prolusioni sui fini della cultura e dei classici – con eccezionali distinzioni (ne ricordo solo alcune: Commendatore e poi Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, o, in Francia, Chevalier de la Légion d’honneur, oppure il recentissimo premio per la comunicazione e le discipline umanistiche «Princesa de Asturias», apprezzato nel mondo ispano-americano quanto il Premio Nobel), Nuccio (il soprannome con cui era conosciuto ovunque) era cordiale, disinvolto, naturale e soprattutto amichevole. Nuccio, per me, per gli italianisti di Bucarest, è stato prima di tutto un amico. Più volte è venuto a parlare ai nostri studenti, a seguire la traduzione e la pubblicazione dei suoi importanti studi su Giordano Bruno, poi, grazie alla sua eccezionale esperienza editoriale in Francia, Italia e altrove, ha avuto l’idea e ha fornito il modello della collana bilingue «Biblioteca Italiana», già citata. Era un caro amico, un amico ammirato.
Ho cercato di far parlare i classici per invitare i lettori ad ascoltare la loro voce. I classici – anche se bisogna collocarli sempre nel loro contesto storico – riescono a rispondere comunque alle nostre domande, ci aiutano a capire il presente. Mi interessano i valori universali, la giustizia, la solidarietà, il bene comune. I valori solidi della cultura. E sono i classici che ce li hanno tramandati. Ed è lì che bisogna tornare per riscoprirli. Da Platone a Italo Calvino – filosofi, letterati, scienziati – hanno tessuto, nei secoli, un elogio dei saperi inutili, di quei saperi cioè che non producono profitto, che non producono guadagni e che, quindi, vengono considerati inutili in una società in cui contano solo i soldi e il profitto. Questi grandi pensatori ci ricordano sempre che gli uomini hanno bisogno proprio di ciò che viene considerato inutile: perché la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la ricerca scientifica di base sono necessarie per nutrire lo spirito, per farci diventare migliori, per rendere più umana l’umanità. Si leggono poco i classici; nelle scuole e persino nelle università le lezioni frontali sono centrate esclusivamente sulla storia della letteratura e sui riassunti dei testi. Il mio libro richiama l’attenzione sulla centralità dei classici. Non è un caso che abbandoniamo il greco e il latino, lingue che ingenuamente pensiamo ormai inutili, come non è un caso che le grandi case editrici stiano chiudendo le collane dei classici e che siamo in pochi, noi sognatori, che lottiamo per farle sopravvivere. Dunque il mio saggio nasce ricco di citazioni dall’esigenza di ridare la parola ai grandi del passato e ciò anche come prova di umiltà e di gratitudine.
Senza coltivare l’inutile l’umanità diventerà sempre più corrotta e disumana, inseguendo l’infelicità e la violenza… Con i soldi si può comprare ogni cosa: dai giudici ai parlamentari, dal successo ai grandi appalti. Ma il sapere non si può comprare. Neanche il più potente magnate potrebbe diventar colto staccando un assegno in bianco. In più, il sapere è in grado di distruggere la logica dominante del mercato: in ogni scambio commerciale c’è una perdita e un acquisto. Se compro un orologio prendo l’orologio e perdo i soldi. Chi mi vende l’orologio prende i soldi e perde l’orologio. Nella trasmissione del sapere invece si crea un circolo virtuoso che permette a chi dona e a chi riceve di arricchirsi: posso insegnare ai miei allievi il teorema di Euclide senza perderlo e, nello stesso tempo, trarre profitto dai miei studenti mentre insegno. Lo ricorda Socrate ad Agatone: il sapere non si versa da una coppa piena a una coppa vuota. La conoscenza è in grado, miracolosamente, di arricchire chi dona e chi riceve. Il sapere è frutto di una condivisione e contemporaneamente di una conquista personale, di uno sforzo eccezionale che nessuno può fare al nostro posto. Un’utopia? No. È una battaglia che ognuno può dare giorno per giorno, con la convinzione di Socrate che l’amante della sapienza tenta di avvicinarsi a essa sapendo di dover rincorrerla per tutta la vita, o con quella del furioso di Giordano Bruno, cacciatore appassionatamente e consapevolmente impegnato in una caccia segnata dall’inafferrabilità della preda...
I concetti di inutile e gratuito sono le facce diverse di uno stesso prisma. Kakuzo Okakura, per esempio, individua il passaggio dalla feritas all’humanitas in un doppio gesto inutile: l’uomo che raccoglie un fiore (pianta inutile) per regalarlo alla sua compagna (gesto inutile) scopre, per la prima volta, l’essenza dell’arte. Così come l’esperienza di artigiano-orafo del celebre Aureliano Buendía, in Cent’anni di solitudine, mette in crisi la logica utilitaristica della madre Ursula: il colonnello, infatti, costruisce pesciolini d’oro, guadagna monete d’oro che poi rifonde per costruire altri pesciolini d’oro in un circolo vizioso senza fine dove ciò che conta non è il profitto ma la gioia autentica del lavoro per il lavoro. Lo stesso discorso vale per Jim dell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson che – dopo aver rischiato più volte la vita per impossessarsi del tesoro del famoso pirata Flint – una volta ritrovato il bottino finisce per essere attratto dal valore artistico e storico delle monete (i volti dei re, i disegni incisi, gli stemmi e gli emblemi) e non dal loro valore materiale. Qui contano gesti e parole, immagini e cose che sfuggono al dominio del profitto, del guadagno, dell’utile per l’utile. Si tratta di uomini, per riprendere la metafora di Platone, che non sono schiavi della necessità e che inseguono invece liberamente la loro curiositas… La maggior parte delle scoperte fondamentali che hanno fatto progredire l’umanità sono opera di individui animati dalla semplice voglia di soddisfare la propria curiosità, come ben scriveva Flexner nel 1939.
Spesso noi umanisti commettiamo l’errore di considerarci gli unici difensori dei saperi inutili. Invece le cose non stanno così. Anche la ricerca pura, la ricerca di base, la ricerca fondata sulla curiositas ha svolto un ruolo importante, nel corso dei secoli, per difendere la scienza dall’utilitarismo. Per queste ragioni ho voluto inserire in appendice al libro il bellissimo saggio di Abraham Flexner, uno dei fondatori dell’Institute for Advanced Study di Princeton, pubblicato nel 1939. Proprio in questo famosissimo Istituto – dove hanno lavorato Einstein e altri grandi scienziati – gli studiosi possono lavorare liberi da ogni condizionamento utilitaristico. Del resto, lo stesso Flexner svela l’importanza fondamentale della ricerca «inutile»: senza gli studi teorici di Maxwell e Hertz sulle onde elettromagnetiche, sarebbero state impensabili le invenzioni di Marconi. Separare le scienze umane e le scienze della natura significherebbe uccidere un fecondo rapporto che durante molti secoli ha dato frutti straordinari. Ecco perché l’appello del premio Nobel Ilya Prigogine a costruire una «nuova alleanza» è oggi sempre più fondamentale.
Certamente. La grande lezione del Rinascimento è che la conoscenza è una, per quanto fossimo obbligati a dividerla in discipline. Se separiamo i saperi, da un lato quelli scientifici e dall’altro quelli umanistici, non avremo né una scienza umana né un’umanità che cresca tramite le scoperte della scienza.
È vero: questo mio ultimo libro documenta gioie, speranze, sofferenze di un professore che ha cercato – in 24 anni di insegnamento – di far capire ai suoi studenti che è sbagliato iscriversi all’università per superare un esame o per conseguire una laurea, così come non si frequenta un liceo per ottenere un diploma. La scuola e l’università dovrebbero essere occasioni che la società ci offre soprattutto per diventare migliori, per diventare uomini liberi, capaci di ragionare criticamente con la propria mente. Se gli studenti – purtroppo – non sposano questo punto di vista non è colpa loro: è colpa, principalmente, della società utilitaristica, delle scuole e delle università trasformate sempre più in aziende: in aziende in cui conta solo la quantitas, mentre gli studenti vengono degradati a clienti. Insistere eccessivamente sull’aspetto professionalizzante degli studi (le scuole e le università concepite come luoghi dove si sfornano diplomati e laureati da immettere nel mondo del mercato) ha finito per far perdere di vista completamente il valore universale della funzione educativa dell’istruzione. Le scuole e le università educano all’utilitarismo e tendono a favorire il conformismo. Invece la scuola e l’università dovrebbero formare eretici: studenti in grado di contestare la conformità, di saper prendere le distanze da ogni forma di dogmatismo.
Questo libro non è contro l’utile, ma contro l’idea che l’utile divenga un fine in sé. È la conoscenza a rendere più umana l’umanità. Oggi la crisi che stiamo vivendo è una crisi soprattutto morale, non economica. E non è vero che in tempo di crisi tutto è permesso. La Corte dei conti ha rivelato che noi, italiani, spendiamo 150 miliardi all’anno a causa della corruzione. Abbiamo alcuni politici e alcuni funzionari che rapinano le casse dello Stato per accumulare denaro e per arricchire se stessi e i propri familiari. Basterebbe frenare la corruzione per avere i mezzi di sanare l’educazione. Sono commoventi i discorsi di Adriano Olivetti, un imprenditore tutto sommato «capitalista», quando rivendicava tra gli scopi principali di un’azienda quello di creare libertà, bellezza, felicità, istruzione, cultura e benessere per tutti… Io non credo nelle grandi rivoluzioni. Credo che sono necessarie tante piccole rivoluzioni individuali che devono cominciare col fare bene, con onestà e con amore, quello che facciamo ognuno di noi.
A cura di Smaranda Bratu Elian
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII) |