Norman Manea: «Mi definisco sempre più un esule, senza ulteriori localizzazioni»

Norman Manea è lo scrittore romeno-americano più famoso e, allo stesso tempo, uno degli autori romeni più tradotti e conosciuti al mondo. Emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, dove divenne professore e scrittore in residenza al Bard College di New York, continuò a scrivere in romeno, firmando diversi volumi di prosa breve e saggistica, pubblicati in 30 lingue.

In Romania i suoi libri sono pubblicati da Polirom, nella nota collana che la casa editrice ha lanciato nel 2008 e ad oggi annovera 19 titoli: Întoarcerea huliganului, Sertarele exilului. Dialog cu Leon Volovici, Înaintea despărțirii. Convorbire cu Saul Bellow, Vorbind pietrei, Atrium, Variante la un autoportret, Vizuina, Curierul de Est. Dialog cu Edward Kanterian, Plicul negru, Anii de ucenicie ai lui August Prostul, Fericirea obligatorie, Captivi, Cartea fiului, Zilele și jocul, Despre Clovni: Dictatorul și Artistul, Plicuri și portrete, Laptele negru, Pe contur e, il più recente, Umbra exilată.

In Italia sono stati tradotti i seguenti volumi, ritrovabili nel nostro database Scrittori romeni in italiano: Un paradiso forzato (trad. di Marco Cugno e Luisa Valmarin, Feltrinelli, 1994); La busta nera (trad. di Marco Cugno, Baldini&Castoldi, 1999) e, per Il Saggiatore, Clown. Il dittatore e l’artista (trad. di Marco Cugno, 1995); Ottobre, ore otto (trad. di Marco Cugno, 1998); Il ritorno dell’huligano. Una vita (trad. di Marco Cugno, 2004); La quinta impossibilità. Scrittura d’esilio (trad. di Marco Cugno, 2006); Felicità obbligatoria (trad. di Marco Cugno e Luisa Valmarin, 2008); La busta nera (nuova edizione, trad. di Marco Cugno, 2009); Il rifugio magico (trad. di Marco Cugno, 2011); Al di là della montagna. Paul Celan e Benjamin Fondane: dialoghi postumi (traduzione e a cura di Marco Cugno, 2012); Varianti di un autoritratto (trad. di Anita Bernacchia e Marco Cugno, 2015); Corriere dell’est (trad. di Anita N. Bernacchia, 2017). Sono stati inoltre pubblicati, sempre da Il Saggiatore, i volumi: Norman Manea e Saul Bellow, Prima di andarsene (trad. di A. Arduini, 2009) e Norman Manea e Hammes Stein, Conversazioni in esilio (traduzione dal tedesco e a cura di Agnese Grieco, 2012).

Norman Manea è vincitore di una serie di prestigiosi premi americani, romeni e internazionali, tra cui la Guggenheim Fellowship (1992), The McArthur Fellowship (1993), il National Jewish Book Award (1993), The New York Public Library Literary Lion Medal (1993), il Premio Internazionale Nonino per l’Opera Omnia (2002), il Premio Letterario Internazionale Napoli per il romanzo straniero (2004), il Prix Médicis Étranger (2006), il Premio Nelly Sachs (2011), il Premio Nazionale di Letteratura assegnato dall’Unione degli Scrittori di Romania (2012), il Premio della Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara (FIL) in Lingue Romanze (2016) e il Premio dell’Associazione romeno-americana Alliance for Arts and Letters (2018).

Il 5 novembre 2021, l’Istituto Culturale Romeno di New York e l’Ambasciata Romena negli Stati Uniti hanno dedicato a Norman Manea un evento speciale, per celebrare la sua lunga carriera di scrittore e intellettuale pubblico, nonché il suo contributo al rafforzamento delle relazioni culturali romeno-americane. L’evento, aperto dall’ambasciatore Andrei Muraru e ospitato dal direttore dell’ICR New York, Dorian Branea, ha incluso una conferenza tenuta dal professor Claudiu Turcuș dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca, studioso dell’opera di Norman Manea, la lettura dei messaggi inviati dal segretario di Stato Andrei Novac e dal Presidente del Bard College, Leon Botstein, le evocazioni dei tanti amici presenti, nonché l’inaugurazione della mostra Norman Manea - A Life in Pictures. In questa occasione, la sala principale dell’ICR New York è stata denominata «Norman Manea».



Mentre stavano preparando l’evento speciale dell’ICR New York del 5 novembre 2021, agli organizzatori è stato chiesto di non usare la parola anniversario e di non menzionare gli 85 anni che ha compiuto di recente. Perché?

Non era un capriccio senile. Come probabilmente saprai, non sono stato vezzeggiato dai vertici letterari o politici della Patria. Volevo, quindi, evitare una qualsivoglia giustificazione calendaristica di questa «discolpa» pubblica.


Dopo più di cinque decenni di carriera letteraria, lei è uno degli autori romeni più famosi, ma ha anche dovuto affrontare diverse polemiche. In questo iter cosa è stato decisivo, sia sul piano personale, sia in riferimento ai libri che ha scritto: il riconoscimento o la contestazione?

Il riconoscimento pubblico e la contestazione sono avvenuti in tempi e luoghi diversi. In entrambi i casi è stata decisiva la persistente concentrazione dell’autore sui propri progetti.


Si dice che lei abbia una vocazione per l’amicizia e si è spesso parlato del suo rapporto con Philip Roth o con altri grandi scrittori quali Antonio Tabucchi, Orhan Pamuk o Claudio Magris. Vorrei che ci soffermassimo su un altro nome, meno famoso, ma più vicino a noi: Sorin Titel, un eccellente autore della periferia mitteleuropea, oggi purtroppo letto troppo poco. Ci racconti dell'amicizia che vi lega.

Sì, il piacere e il bisogno di comunicare con chi mi circondava hanno spesso ravvivato le mie attese, portandomi gioia. L’amicizia ha giocato un ruolo importante, gli interlocutori hanno stimolato quel dialogo di cui avevo bisogno. Ho avuto tanti amici nel tempo, il dialogo intellettuale ed emotivo ha dato un senso al calendario, ha ravvivato la mia solitudine. Le amicizie letterarie mi hanno segnato, ad esempio, l’amicizia con Lucian Raicu e con Philip Roth. Ero molto legato a Sorin Titel. Ricordo la sera in cui andai, insieme al nostro comune amico George Bălăiță, a vederlo sul letto di morte. Ho anche pubblicato un’ampia e affettuosa evocazione della nostra relazione. Un tempo ci frequentavamo speso e le visite al negozio «Musica» facevano parte di un rituale di fratellanza spirituale.


In un’intervista a Claudio Magris, pubblicata qualche anno fa sulla rivista che ci ospita, lo scrittore italiano la evoca con parole affettuose, ricordando come vi siete conosciuti – su una piccola imbarcazione che trasportava turisti ad ammirare da vicino le Cascate del Niagara, incappucciati in una tuta buffa che proteggeva i vestiti – affermando che ciò che vi ha avvicinato è stato l’umorismo e «il senso della storia come circo». So che lei ha una storia altrettanto bella, con Claudio Magris e due scarpe di colore diverso…

Ci siamo conosciuti al Festival Letterario di Toronto e non ho dimenticato il primo incontro durante la gita alle Cascate del Niagara. Lui era con un collega italiano al quale mi presentò come un importante scrittore romeno. La dizione imperfetta fece la sua parte e il suo collega mi guardò perplesso. «Armeno, armeno hai detto? Non ho mai incontrato uno scrittore armeno. Straordinario!» Ci siamo divertiti tutti e tre. La vicenda delle scarpe spaiate con cui è apparso alla presentazione del suo ultimo libro, organizzata dall’Istituto Italiano di New York, fa parte della serie di «cose buffe», momenti di confusione e assenza a cui spesso si riferiva, divertito. Mi sono sentito vicino a Claudio, la nostra amicizia si è approfondita durante la sua prima visita al Bard College, subito dopo la morte della moglie, quando è venuto accompagnato da uno dei suoi figli. Ci siamo incontrati spesso in varie manifestazioni letterarie, ci unisce una simile visione del carattere burlesco dell’esistenza e anche «il senso della storia come circo», come dice lui. È rimasto uno dei miei interlocutori più cari.


Norman Manea e Philip Roth, New York, 1992
© The New York Times, photo by Fred R. Conrad



Norman Manea e Claudio Magris nella giuria del Premio Internazionale Nonino in Italia,
edizione del 2015



Norman Manea e Antonio Tabucchi, New York



Da sinistra a destra: Norman Manea, Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Joe Cuomo e Philip Lopate
Queens College, New York, 2006

  

Quali sono gli scrittori dell’Europa centrale e orientale che le sono più vicini?

Musil, Kafka, Schulz, Blecher, Danilo Kiš, Sebald... e Camil Petrescu nella sua discendenza proustiana.


In quali spazi culturali si sente meglio? In quale lingua ha avuto il maggior successo?

Nell’Europa centrale, a cui appartengono. Forse in Germania, per l’entusiastico apprezzamento del mio debutto tedesco-europeo, da parte di Heinrich Böll.


Pensa che, tra i suoi libri, ce ne sia uno che abbia subìto un torto o abbia avuto un destino inaspettato?

Il ritorno dell’huligano ha destato maggiore curiosità. Ha vinto il Premio Médicis in Francia ed è stato recentemente ristampato in una prestigiosa collana, in Spagna ha vinto il premio dell’anno, in Messico ha vinto il Premio della Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara (FIL) in Lingue Romanze 2016. La sua presenza è stata notata dai media di quasi tutti i paesi in cui è stata tradotto, a sorpresa anche in Cina.


Quanto ha inciso, al momento del suo arrivo negli Stati Uniti, il fatto di essere uno scrittore dell’Europa centro-orientale?

L’America è una meta per gli esuli di tutte le parti del mondo e l’interesse per una determinata area muta anche a seconda degli eventi politici contemporanei. L’Olocausto è difficile da dimenticare, così come la tirannia comunista, quindi il nostro territorio gode del ‘privilegio’ dell’orrore, che si competono oggi sempre più parti del pianeta, afflitte da altre orribili gesta dei nostri simili di varia appartenenza.


Com’è cambiato nel corso dei decenni l’atteggiamento degli americani nei confronti degli autori dell’Europa centrale e orientale? L’interesse è diminuito dopo la caduta dei regimi comunisti?

È difficile per me valutare la situazione, ma ho trovato negli sconosciuti yankees dei potenziali amici e ammiratori solidali, in grado di alleviare le mie carenze di orientamento e temperamento, essendo di mio poco propenso al pragmatismo e alla velocità del mondo che mi circondava. L’interesse per la realtà quotidiana dell’ex blocco comunista che non si è del tutto liberato dei suoi ‘tumori’ è probabilmente diminuito da quando l’Europa e il mondo si evolvono in modo diverso nelle loro mutevoli confusioni. Non mancano però le sfide pericolose del presente contaminato da nuove epidemie di demenza.


«Esiste ancora il sogno dell’Europa centrale?», le porgo, dopo quasi quarant’anni, questa domanda tratta da un famoso saggio di Konrád György. Qualcuno ricorda ancora le sue lezioni?

Non lo so, forse i bibliofili non del tutto guariti dall’esotismo pittoresco e dalle dinamiche delle metamorfosi sociali.



Norman Manea, vincitore del Premio Internazionale Nonino per l'Opera Omnia,
cerimonia di premiazione, gennaio 2002, Italia



Norman Manea vincitore del Premio FIL in Lingue Romanze, Guadalajara, 2016



Cella e Norman Manea insieme al vincitore del Premio Nobel per la Letteratura Imre Kertész,
Berlino, 2012



Norman Manea con Shimon Peres, ex presidente e primo ministro di Israele, vincitore del Premio Nobel per la Pace
Jerusalem International Book Fair, giugno 1999


In un’intervista da lei rilasciata qualche anno fa a Elianna Kan per «The American Reader», è stato sfidato a parlare di «etichette» e della difficoltà di evitarle. Vorrei chiederle di approfondire questo argomento. Come si può evitare l’etichettatura quando si scrive di argomenti come l’ebraismo, i campi nazisti, la vita sotto il comunismo? Esiste un lato buono di questa realtà?

In un saggio pubblicato diversi anni fa a Barcellona in occasione del 20° anniversario della caduta del Muro di Berlino, intitolato Monuments a la vergonya, sostenevo l’idea di evocare anche gli episodi storici riprovevoli e vergognosi con la stessa persistenza degli episodi consacrati come eroici. I temi di grande impatto collettivo non sono necessariamente una garanzia per la sopravvivenza spirituale nella posterità, ma costituiscono spesso delle conferme di autenticità nelle crisi dello spirito. Le etichette dipendono dall’orientamento, sia nelle scuole che nelle dinamiche sociali, e sono utili purché non stimolino il cliché che rimane il nemico dell’originalità essenziale. Si può essere letterariamente validi nel descrivere sia la maniglia della porta, sia le più complesse vicende storico-sociali, così come si può essere banali nello scrutare gli episodi sconvolgenti della sofferenza umana. Il talento fa sì che un testo diventi letteratura, indipendentemente dall’argomento trattato.
Non so se debba essere proprio io ad aggiungere l’antisemitismo senza fine alle etichette menzionate. Propenderei per le parole di un cristiano militante come Léon Bloy, il quale una volta affermò che «l’antisemitismo è lo schiaffo più orribile che nostro Signore abbia ricevuto nella sua Passione sempre in atto, è il più sanguinoso e imperdonabile, perché l’ha ricevuto sul volto di sua Madre e per mano dei cristiani». Nonostante le persecuzioni e i pericoli, la Madre del Salvatore rimase, come è noto, per sempre ebrea. Non oso chiedermi quanti cristiani, musulmani o atei potessero aderire con i fatti a un appello così pio come questo.


Il dominio delle etichette, così come la tendenza all’irreggimentazione ideologica, è sempre più diffuso negli ambienti culturali e intellettual-accademici degli USA. Cosa trova di prezioso, degno di emulazione, e cosa la preoccupa della cultura americana contemporanea?

Sì, c’è un’evidente polarizzazione isterica, con effetti scoraggianti sull’autentico impegno civico. È difficile separare oggi la manipolazione sempre più efficiente delle masse di creduloni e l’esacerbazione generalizzata degli slogan scanditi, nelle piazze sempre più pubbliche e sovraffollate, dagli scontenti che si sono moltiplicati a causa delle ingiustizie accumulate per secoli. L’attuale militanza politica riduttiva non incoraggia le sfumature e i dubbi, e la politica di una scandita «correttezza» militaresca d’irreggimentazione oscura l’obiettività e incoraggia le semplificazioni militantistiche. L’irreggimentazione frettolosa ha qualcosa di militaresco e rimane estranea a una valutazione rigorosa.


Crede nel potere della letteratura di opporsi al «pensiero prigioniero»? Qual è il suo posto e ruolo nel mondo di oggi?

Non ho mai creduto alla «vittoria» della letteratura e probabilmente non sarebbe neanche auspicabile, ma credo nella sua capacità di reagire al feticcio e alla falsità. Fortunatamente, il pensiero prigioniero ha sempre avuto avversari e critici di grande acutezza e forza, li ha oggi e li avrà sempre.


Le sono state più volte poste domande sull’esilio e sul problema identitario che ne deriva. Come si è chiarita questa problematica nel tempo? Chi è Norman Manea oggi e dove si sente a casa: negli Stati Uniti («il miglior albergo»), in Romania, in qualsiasi parte del pianeta dove può essere circondato da spiriti affini, nell’universo parallelo dei libri, da nessuna parte?

Il primo esilio citato nella Bibbia è quello imposto a Adamo dal suo creatore, quando gli chiede di lasciare il suo luogo natio e di compiere un pellegrinaggio nella Terra di Canaan, divenuta Terra Santa. Nel frattempo, cioè oggi, l’esilio si è generalizzato, con il suo ansito e la sua grandezza, ma non dimentichiamo che il vaccino contro il Covid è stato trovato da un esule! Mi definisco sempre più un esule, senza ulteriori localizzazioni.


Dall’esperienza dell’esilio, così come l’ha metabolizzata, quanto rimane rilevante per le attuali generazioni della diaspora? C’è una saggezza tratta da questa esperienza che si può tramandare?

La saggezza si afferma sempre e in qualsiasi maniera e ovunque, è vagabonda, non ci resta che perseguirla e coglierla.



































Foto: all'interno dell'intervista, foto d'archvio esposte nella mostra dell'ICR New York;
alla fine, foto dell'evento del 5 novembre 2021 e locandina © Johnny Vacar.



Intervista realizzata da Daciana Branea
Traduzione a cura di Afrodita Cionchin
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)