Poesia e critica nell’orizzonte letterario di oggi. In dialogo con Niccolò Scaffai

Ospite questo mese dei nostri Incontri critici è Niccolò Scaffai, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Siena, dove dirige il Centro di ricerca Franco Fortini. Si occupa di modernità letteraria, poeti del Novecento, letteratura ed ecologia, Primo Levi e scritture della Shoah. Ha curato edizioni delle opere di Montale (La bufera e altro, con Ida Campeggiani, Mondadori, 2019; Farfalla di Dinard, ivi, 2021) e l’antologia Racconti del pianeta Terra (Einaudi, 2022).
Il nostro dialogo prende spunto dal suo ultimo libro, Poesia e critica nel Novecento. Da Montale a Rosselli (Carocci 2024), che indaga la relazione fra poesia e critica nel secondo Novecento italiano, nel contesto in cui per Montale, Sereni, Orelli, Fortini, Rosselli, Raboni e gli altri autori presi in considerazione, la poesia è stata tanto il genere dell’espressione lirica, quanto la sede di elaborazione di un pensiero critico e le loro raccolte sono quindi anche forme critiche.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode e a qualsivoglia ambito del gusto. Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama letterario italiano e internazionale e quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Credo che la letteratura risenta sempre del clima storico, sociale e culturale nel quale si sviluppa, che anzi lo esprima spesso non direttamente attraverso il tema, ma attraverso le forme, come pensava Adorno. Per esempio, l’abuso di narrazioni e storytelling nella contemporaneità, recentemente osservato da un teorico della letteratura come Peter Brooks e da un filosofo come Byung-chul Han, si lega alla ricerca di forme espressive che vanno o nella direzione della non fiction (molto diffusa e sempre più autorevole e centrale nel campo letterario italiano ed europeo) o in quello dell’epicità, del racconto che recupera modi precedenti all’affermazione del romanzo moderno. Modi che tendono a dare voce a istanze non solo individuali come vuole la tradizione del romanzo moderno, ma condivise entro un’idea di vita in comune che unisca umano e non umano, nella direzione di una letteratura ecologica molto presente nell’orizzonte letterario di oggi. Un orizzonte che nei miei studi ho preso spesso in considerazione.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Leggo e utilizzo regolarmente e-book e fonti online, che sono stati strumenti essenziali per esempio durante la pandemia. Ma penso che la dimensione cartacea continui ad avere importanza (Umberto Eco non a caso diceva che il libro è l’oggetto perfetto), specialmente per ragioni materiali – e la materialità dell’oggetto e dell’esperienza concreta, fisica dell’oggetto-libro contano anche per la fruizione critica. O almeno questo resta vero per me. A ciò si aggiunge il fatto che certi autori, penso a Calvino tra gli altri, hanno bisogno di essere letti nella forma del libro, perché è in rapporto a quella forma che hanno concepito la struttura e le invenzioni di molte loro opere.


Montale sosteneva pressappoco che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe scritto prosa. Come considera inserita l’espressione poetica negli anni coevi?

La poesia continua ad avere grande vitalità e a esprimere istanze di ricerca che la prosa si concede con più difficoltà, ma resta un genere per pochi lettori, per lo più ‘complici’ loro stessi della scrittura e della critica di poesia. La forza della poesia si esercita in un campo a parte, non misurabile con i criteri che valgono, ad esempio sul piano editoriale, per altri generi.


Leggendo la poesia del Novecento emerge l’attenzione ai temi del silenzio attivo, della temporalità, del dato di coscienza, della corporeità senziente, del rilievo della percezione e degli enigmi della Natura. Quanto è vicina a una prospettiva neo-fenomenologica?

Forse questa vicinanza, questa sorta di nuova fenomenologia, è data dalla consapevolezza che la soggettività dell’io, già in crisi nel Novecento, ha lasciato il posto o si è moltiplicata attraverso altri ‘centri’ cognitivi e senzienti, come lei osserva. Il rilievo del corpo nella poesia contemporanea è uno di questi. La dimensione naturale assume un ruolo in questo ambito. Penso a un libro di grande interesse su questo piano: Noi (2021) di Alessandro Broggi, basato su una forma di spersonalizzazione e de-individuazione del soggetto. Nel libro per esempio si legge: «Dà ora forma alla nostra vita sociale e concettuale una copertura arborea relativamente fitta, ma potremmo anche accorgerci che percepiamo il paesaggio come un continuum, visibile ai nostri occhi e comprensibile con le nostre menti, perché e nella misura in cui vediamo e intendiamo solamente la nostra scala di aderenza, solo dal nostro punto di vista, il resto rimane inavvertito». Tra le istanze del libro di Broggi c’è la necessità di percepirsi in una relazione ‘orizzontale’, non solo verticale e gerarchica, con l’ambiente naturale e con l’ambiente sociale, di cui spesso la natura è stata considerata – da scrittori e poeti – come un’allegoria, un rispecchiamento


Al centro della prima parte de Poesia e critica nel Novecento. Da Montale a Rosselli è la funzione di Montale, che attiva il pensiero critico espresso dai poeti delle generazioni successive.

Nella poesia Piccolo testamento (inclusa nella raccolta La bufera e altro, 1956), Montale scriveva che «ognuno riconosce i suoi»; Vittorio Sereni, in uno dei suoi più importanti scritti sull’opera montaliana, mette a titolo quella formula per parlare del nesso, fondamentale per lui e la sua generazione, fra la poesia e la «presa di coscienza del mondo circostante»: «In altri termini», scrive Sereni, «Montale con i suoi primi versi precorreva in noi la presa di coscienza del mondo circostante e dei suoi stessi lineamenti fisici: nella misura in cui ci avvertiva che lo spazio immediatamente a noi vicino e nel quale già stavamo muovendoci con la nostra esistenza non solo poteva essere ma già era abitato dalla poesia» (Poesie e prose, Mondadori 2014, p. 1008).
Proprio la funzione di Montale sarà al centro della prima parte del mio libro Poesia e critica nel Novecento; le diverse forme di ‘montalismo’ di Sereni, Raboni, Rosselli convergono su alcuni punti. Innanzitutto, il ruolo del capofila novecentesco si esercita tanto rispetto al codice (fatto di elementi stilistici e lessicali) quanto rispetto ai referenti (il mondo dei fenomeni, che attraverso la poesia montaliana vengono percepiti e nominati). Più di altri, Montale non ha contato solo di per sé, cioè nella sua individualità di autore, ma anche come chiave di volta di una tradizione. In molti casi, la ripresa di elementi montaliani da parte dei poeti delle generazioni successive è un’indiretta dichiarazione di appartenenza, non solo poetica e linguistica ma perfino identitaria; questo si apprezza in particolare in poeti italofoni ma attivi fuori dai confini politici nazionali, come Orelli e Hindermann (per il quale l’italiano è stato un’opzione specificamente votata all’espressione lirica). Le tracce montaliane, allora, non suggeriscono tanto, o non suggeriscono affatto, una derivazione quanto il riconoscimento di uno sfondo, rispetto al quale ogni poeta conosce un proprio diverso svolgimento.


Il filo conduttore della seconda parte è un’idea attiva di tradizione. Ebbene, essa può essere posta in discussione?

La tradizione è in effetti un terreno in cui critica e poesia spesso convergono ma possono anche confliggere, perché molti sono i punti controversi in cui ci s’imbatte: ad esempio, la questione dell’inizio e della fine del secolo poetico, il Novecento (che non coincide con i suoi termini cronologici); poi soprattutto la selezione dei suoi rappresentanti e di conseguenza dei suoi destinatari: per chi opera la tradizione? per chi la immaginiamo quando ne evochiamo l’esistenza (a più forte ragione nel nostro presente, in cui l’ossessione delle ‘radici’, nel discorso pubblico e culturale, copre o rimuove il confronto con la molteplicità, la diversità)? Ancora: tra i poeti la tradizione conta più per chi la accoglie o per chi se ne allontana? Quale ruolo e riconoscimento hanno avuto e continuano avere le autrici? Come scriveva Montale in Auto da fé, «non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni». Di certo, nel Novecento è esistita più di una tradizione e sono diverse le linee che, partendo da quel secolo, raggiungono distinte regioni poetiche della contemporaneità. Nel libro, come si è detto, interessava soprattutto la tradizione ‘montaliana’; ma prima ancora che privilegiare un autore di riferimento, si voleva illustrare un’idea attiva di tradizione, assunta e discussa personalmente dagli autori come forma creativa e principio critico, anziché un’idea passiva e per così dire preterintenzionale, basata sui pur eloquenti fatti formali. Esiste sempre una sfasatura fra la coscienza poetica di un autore e i risultati effettivi della sua opera (i secondi possono essere più avanzati della prima, e viceversa); ma a saper guardare, quella sfasatura o attrito sono densi di significato e necessari per l’interpretazione e la collocazione dei poeti e dei loro testi.


Piani temporali scomposti, crepe, interstizi che compromettono il linguaggio medesimo. Quali sono le peculiarità della versificazione contemporanea?

È difficile, forse impossibile individuare delle peculiarità che caratterizzino l’insieme del linguaggio poetico contemporaneo; ma forse proprio questa varietà e anche interna conflittualità tra idee di poetica e di testualità è la vera peculiarità. In generale, direi che a emergere è una sempre più naturale ibridazione tra testo, immagini, verso e prosa, che rende la scrittura poetica una modalità di espressione concettuale, in certi casi postsemantica.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2024. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Credo si possa dire che la letteratura romena, nonostante il suo lungo sviluppo nel corso dei secoli e la presenza di autori di grande rilievo, sia ancora poco conosciuta dalla maggior parte del pubblico italiano, con l’eccezione di alcuni nomi che in anni recenti sono diventati quasi ‘di culto’, ma sempre presso una cerchia di lettori particolarmente sensibili e specializzati. Occorre un’opera sistematica di traduzione e diffusione, favorita da case editrici e altre istituzioni di mediazione culturale, per dare una più ampia diffusione. Le ragioni che rendono popolare una letteratura straniera presso i lettori e i critici di un altro paese, l’Italia in questo caso, sono varie e spesso sono legate a un effetto di ‘esotismo’ che non sempre equivale a una effettiva conoscenza delle coordinate culturali della nazione da cui gli scrittori tradotti provengono. A questo si aggiunge il fatto che alcuni grandi autori di origine romena, da Ionesco a Cioran, sono percepiti e letti come appartenenti più alla letteratura del paese di naturalizzazione, la Francia, che non alla Romania. Ma non è detto che le cose non possano cambiare, anche sulla scia di autori oggi decisamente noti e apprezzati anche in Italia come Cărtărescu.


Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, sono autori che, trascendendo il tempo e lo spazio, hanno narrato la burrascosa storia della Romania. Ebbene, le sono noti e ci sono scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?

Si tratta di grandi autori e autori, alcuni dei quali (in particolare Müller, Cărtărescu, Cioran, Eliade) che fanno parte stabilmente di un ‘canone’ europeo, in Italia tradotti da case editrici importanti e influenti sul piano del prestigio culturale (Adelphi ad esempio). Blandiana, di cui pure esistono traduzioni in italiano, e Manea, tradotto dal Saggiatore (come ora Cărtărescu) sono probabilmente meno noti, ma comunque presenti tra le letture mie e di altri interessati al contesto letterario internazionale.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)