Con Mirko Volpi su Dante e sul primo commento integrale della «Commedia» Per celebrare i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta, abbiamo intervistato Mirko Volpi, ricercatore presso l’Università degli Studi di Pavia, attorno all’imponente edizione da lui curata del primo commento integrale della Divina Commedia di Dante Alighieri eseguito dal bolognese Iacomo della Lana, detto il Laneo, e pubblicata in quattro volumi da Salerno Editrice nel 2009. Databile tra il 1323 e il 1328 (poco dopo la morte di Dante, avvenuta nel 1321), il commento del Lana fu subito apprezzato dai lettori non solo per l’uso del volgare (quando gli altri glossatori preferivano il latino), ma per l’acume dell’interpretazione e la chiarezza espositiva. Il commento non si limita agli aspetti retorici e grammaticali, ma affianca alla spiegazione letterale dei passi danteschi un’esposizione organica dei problemi dottrinari, filosofici e allegorici: a corredo delle parafrasi interpretative Lana inserisce dettagliati racconti mitologici, biblici, di storia antica e moderna. La notevolissima fortuna che conobbe il commento lanèo è testimoniata dall’elevato numero di codici che lo tramandano (oltre un centinaio): anche il successivo e importante Ottimo Commento incorpora interi brani o sezioni del commento, a conferma dell’indubbio prestigio di cui godeva il lavoro di Iacomo della Lana.
A questa domanda è praticamente impossibile rispondere in maniera affermativa. Non si può dire e, se non avviene il miracolo del ritrovamento di un autografo, credo che non lo potremo dire mai. C’è molto dibattito negli ultimi anni proprio sulla veste linguistica del poema e l’aspetto secondo me più importante delle ultime edizioni, critiche e commentate, che sono uscite e che stanno per uscire proprio in questo 2021, riguarda appunto la lingua del testo. Si cerca di individuare il massimo della fiorentinità nei codici a disposizione: c’è però un problema, che i più antichi manoscritti fiorentini sono comunque posteriori di alcuni anni alla morte del poeta (e il fiorentino degli anni Venti o Trenta del Trecento era un poco diverso da quello della fine del Duecento, quando cioè si era formato il giovane Dante), mentre quelli che vengono ritenuti più affidabili dal punto di vista testuale provengono dall’area della prima diffusione della Commedia, e cioè l’area emiliano-bolognese. Direi che oggi leggiamo il poema vicino con buona o discreta approssimazione alla sua veste originaria, ma per i singoli punti, per i singoli fenomeni, per le singole forme che possono anche variare (per plausibile volontà d’autore) quando in rima o fuori rima, ad esempio, rimarremo sempre nel campo delle ipotesi. Dante adotta un linguaggio di verità: bello, brutto, maestà e squallore, operosità e rassegnazione, meraviglia e mistero convivono, s’intrecciano e si confondono. La modernità di Dante sta nel consentire al lettore di riconoscersi tra le terzine delle Cantiche? Io ho sempre cercato di evitare, riguardo a Dante, aggettivi come moderno o, peggio ancora, contemporaneo. Preferisco dire che è eterno, cioè che trascende i tempi, benché egli sia profondamente radicato nei suoi (che sono cioè gli anni della fine del Medioevo), e noi, lettori del XXI, lo siamo altrettanto nei nostri, però così inconciliabili. Detto questo, è vero che quello che lei chiama linguaggio di verità, e aggiungerei della realtà, permette ancora a noi di identificarci con le grosse questioni che il poema pone, nonché con le strabilianti finezza ed esattezza con la quale Dante sa descrivere e rappresentare ogni cosa che riguarda l’uomo, i suoi sentimenti, i suoi dubbi, le sue paure, i grandi interrogativi che da sempre ci tormentano. Occorre pure riflettere sul fatto che sofisticati meccanismi narrativi, formali ed espressivi contribuiscono a porgere alla Commedia l’illusione della verità. Quali sono le strutture fondamentali della Commedia? Io per Dante non parlerei mai di illusione. Lui possiede una verità, come qualsiasi uomo dotato di una fede profonda, e ritiene di potercela indicare attraverso questa opera d’arte perfetta. Non c’è nessun passaggio della Commedia in cui Dante ci dica, anche solo implicitamente: «Questo viaggio è una finzione, un’allegoria»; ma ce lo presenta sempre come «vero», come reale. Questo è già un asse portante della struttura del poema. Come diceva il grande dantista americano Singleton, la più grande finzione della Commedia è che non si tratta di una finzione. Secondo me l’impianto narrativo del testo (perché, ricordiamolo, la Commedia è anzitutto un racconto) ha un peso decisivo nel mostrarci questo viaggio provvidenziale come in tutto e per tutto reale; viaggio di cui il protagonista, il poeta Dante Alighieri, ha fatto esperienza vera, al termine della quale, facendosi scriba (uso ancora le parole di Singleton), registra tutto quanto accaduto. La grandezza poetica di un uomo investito di una missione profetica, che compie un iter a dir poco miracoloso: lo conferma Dante stesso nel celebre incipit di Par., XXV: «Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra…» Morale, religione, politica, amore, odio, passioni, vizi, virtù: come far coesistere il messaggio e la visione dantesche con l’umanità divisa e fragile del Terzo Millennio? Per la piena comprensione del suo messaggio (che poi si può anche sintetizzare molto facilmente, attingendo all’Epistola a Cangrande: il fine della Commedia è rimuovere i viventi dal presente stato di infelicità e condurli alla condizione di felicità – ovviamente eterna, spirituale, oltre che terrena) noi dobbiamo necessariamente tornare a lui. Siamo noi a dover, cioè, recuperare all’indietro il tempo che ci separa da lui. Difettiamo di conoscenze (storiche, teologiche, filosofiche, linguistiche…), ma soprattutto siamo lontanissimi dal condividere quell’idea del mondo e degli uomini e di Dio. Noi, intendo il 98% degli esseri umani attualmente vivi, numero più numero meno, non condividiamo più quasi nulla del pensiero e delle convinzioni dantesche: non quelle politiche, non quelle economiche, non quelle sociali, non quelle etico-morali – se non in termini genericissimi e dunque annacquati. Stentiamo addirittura a riconoscere e capire i novissimi, figuriamoci a crederci. Eppure se vogliamo leggere con pienezza Dante non possiamo girarci troppo attorno, dimenticando o fingendo di non vedere che la Commedia è un’opera totalmente religiosa, cristiano-cattolica nel suo senso più puro e anche dottrinario. L’Inferno condanna senza appello tutto ciò che la dottrina riteneva, e ritiene, peccato mortale; attacca con violenza i papi, e li danna, ma è sempre salva la reverenza al ruolo, al papato in sé. Nel Purgatorio, anzi nell’Eden, per poter procedere Dante deve sottoporsi a una durissima confessione sotto la severa sferza di Beatrice. In Paradiso il poeta viene interrogato da tre grandi santi sulle tre virtù teologali, prima di poter accedere alla visione finale. Prima di inumidirci sentimentalmente gli occhi con la storia di Paolo e Francesca, o con l’episodio del conte Ugolino, facciamo i conti con tutto questo. Quanto della Commedia è rintracciabile in opere precedenti e posteriori? La Commedia supera di slancio, per ispirazione, lingua e contenuti, tutte le altre opere dantesche. Ma è indubbio che alcune cose presenti in questi testi, sotto vari aspetti (da quelli strettamente poetici, come per l’esperienza lirica, a quelli filosofico-scientifici, ossia a molti contenuti del Convivio), vengono ripresi e talora aggiornati e modificati nel poema (penso a certi cambiamenti di opinione, come quello che riguarda la lingua ebraica, la valutazione della cui storicità varia nel passaggio dal De Vulgari Eloquentia al Paradiso). Di certo l’opera che maggiormente confluisce nel poema, addirittura per certi versi anticipandolo, è la prima, la più antica, cioè la Vita Nuova, che si chiude nella promessa e nella speranza da parte di Dante di poter scrivere qualcosa di molto più degno in lode di Beatrice. La Commedia (lo hanno notato in molti) è anche un viaggio, un ritorno a Beatrice; è lei il motore stesso del pellegrinaggio (ricordiamo Inf., II); è lei che lo guida fin quasi al limite estremo: quasi, diremmo, è in nome di lei che tutto accade. Insomma, la Vita Nuova, la storia dell’amore per questa donna già «beata» e meritevole della più alta «loda», è davvero l’antefatto della Commedia. E per certi versi la sua prefigurazione. Si può affermare che l’Italia sia venuta alla luce anche grazie a una sorta di «Dantemania» che ha appassionato l’intelletto e l’animo di innumerevoli giovani tra Settecento e Ottocento. Dante può essere considerato il nostro autentico Padre della Patria in senso politico? Certo Dante ha giocato un ruolo notevole negli anni risorgimentali, assurgendo – con le ovvie forzature dettate dal momento storico-politico – a emblema delle istanze indipendentiste. Dante «ghibellin fuggiasco» (ma lui non era affatto ghibellino!), l’esule fiero e incrollabile allontanato ingiustamente dall’amata Patria (come molti italiani protagonisti dei moti di quegli anni, pensiamo a Mazzini), trova speciale risalto lì, in quella particolare temperie storica, in cui ne veniva enfatizzato ad arte, tra gli altri, l’aspetto «anticlericale» del poema. Non è incongruo definire Dante padre della Patria, e anche della stessa identità nazionale, se vediamo come è stato sfruttato e «raccontato» nell’Ottocento soprattutto. Ma Dante, a dirla tutta, più che un’Italia unita (che pure aveva in un certo qual modo preconizzato), desiderava il ripristino pieno ed effettivo del Sacro Romano Impero: non credo che i nostri benemeriti patrioti, che pure lo hanno letto e amato, potessero concordare! Il 2021 celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante in maniera notevolmente articolata e corale, escludendo barriere tra le discipline artistiche e non. Cosa ha rappresentato ed ancora oggi rappresenta Dante? Troppo ci sarebbe da dire, e alcune cose già ho provato a dirle. Mi limito a una cosa soltanto. Per noi italiani, Dante continua a rappresentare la nostra stessa lingua. Il titolo di «padre della lingua» italiana non è retorico né immeritato. A me dà una certa vertigine pensare che parlo la stessa lingua di Dante, quella lingua che lui stesso ha contribuito in maniera decisiva a forgiare, anzi addirittura a «inventare», a rendere – come è stato detto – capace di tutto, di parlare di tutto, esprimere ogni sentimento e ogni concetto, lungo tutta la scala delle possibilità espressive. Per usare le sue stesse parole (riferite a Virgilio nell’incontro con Sordello, che le pronuncia: Purg., VII 17): davvero Dante «mostrò ciò che potea la lingua nostra». Qual è la terzina a cui è maggiormente affezionato e perché? Quella circulazion che sì concetta
Intervista realizzata da Giusy Capone
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