Da Nellie Bly a Carol Hanisch, «il personale è politico». Dialogo con Melania Soriani

Bly di Melania Soriani è vincitore del Premio Selezione Bancarella 2022. Il romanzo edito da Mondadori racconta la storia vera e ancora poco nota di una donna eccezionale, Elizabeth, nata nel 1864 in un piccolo borgo in Pennsylvania, che diventerà una figura leggendaria del femminismo ante litteram, pioniera delle pari opportunità in una società maschilista e profondamente conservatrice, ma anche l’inventrice del giornalismo sotto copertura e un’avventuriera straordinaria. Melania Soriani mette in luce la forza e la fragilità, il coraggio e la tenacia che hanno portato questa donna a realizzare traguardi impensabili per i suoi tempi, dopo aver combattuto, più di cent’anni fa, le stesse battaglie che, purtroppo, ancora oggi non sono state completamente vinte.
Melania Soriani è nata a Roma nel 1965 e vive a Carrara. Ha pubblicato diversi racconti in antologie e riviste. Con il romanzo per ragazzi In viaggio con Amir (Leucotea editore, 2018) si è aggiudicata il premio Selezione Bancarellino 2019.


Bly: Elizabeth diventerà una figura leggendaria del femminismo ante litteram, pioniera delle pari opportunità in una società maschilista e profondamente conservatrice. Quale significato assume, oggi, il termine «femminismo»?

Oggi in molti parlano di morte del femminismo. Dicono che i diritti ci sono e non è più necessario proseguire questa battaglia. Nulla di più sbagliato il poter pensare di tirare i remi in barca. Non è il momento di riposare, ma quello di tirare fuori la nostra voce, di dare libero sfogo alla rabbia. Non dobbiamo vergognarci di essere arrabbiate. La rabbia delle donne è ciò che ci dà potere, che ci fornisce la carica per la ribellione sociale. Perché, poi, non dovremmo essere arrabbiate?
A parte il cosiddetto fenomeno «Glass cliff» (scogliera di vetro) analizzato in una ricerca condotta da due professori inglesi, Ryan e Haslam, che ha rilevato come, in situazioni di completo fallimento (di un’azienda, di un governo, di uno Stato), le posizioni apicali vengano affidate a una donna (come per dire vediamo se una donna riesce dove l’uomo ha fallito); a parte questo caso, dicevamo, l’empowerment femminile (l’incremento del numero delle donne nelle posizioni di comando) è ancora lontano. E non è sufficiente la quota rosa, o l’impegno del G20, il PNRR e via dicendo, per porvi rimedio.
In Italia, in 75 anni di storia della Repubblica sono saliti al governo 4.864 fra presidenti, ministri e sottosegretari; di questi solo il 6,56% sono state donne (319 su 4864). Nell’attuale Consiglio dei ministri, su 23 solo 8 sono donne.
Eppure, tutto ciò non accade per mancanza di personale femminile specializzato. Una ricerca Istat ha evidenziato come il numero delle donne laureate superi di gran lunga quello degli uomini; Almalaurea attesta che i percorsi formativi delle donne sono più brillanti di quelli maschili. Dove sono quindi queste donne laureate? Qualcosa impedisce loro di arrivare dove i colleghi uomini giungono.
Non si può certo dire che avere più donne in politica sia sinonimo di maggiore equità di genere; guarda caso, però, nei Paesi con un minor empowerment femminile, sono garantiti anche meno diritti alle donne.
Altro motivo per cui lottare è la questione della violenza di genere. Nel 2021, è stata uccisa una donna ogni 72 ore; in questi pochi mesi del 2022 i femminicidi sono stati già 57. Più di cinquantamila donne vengono accolte ogni anno nei centri antiviolenza (in Italia sono solo 302). L’Italia adotta ancora il metodo di gestione della violenza di genere in sopravvenuta emergenza; si interviene, cioè, solo quando c’è l’emergenza. Questo non ci consente di prevedere percorsi in cui inquadrare queste donne affinché possano affrancarsi dalle situazioni familiari pericolose e rendersi economicamente autonome. Nella legge finanziaria del 2020 è stato previsto il «Reddito di libertà» (rifinanziato poi nel 2022): 400 euro mensili erogati per 12 mesi a cui le donne dei centri antiviolenza possono ricorrere. I fondi stanziati, però, consentono l’accesso solo a 625 donne su 50.000, ogni anno. E in un momento in cui la disoccupazione femminile è al 51%, capite bene come sarebbe necessario che questi fondi fossero implementati con la massima urgenza.
Questo livello di disoccupazione così alto, identificato con il termine «She-cession», è stato generato dalla crisi dovuta al Covid-19, che ha colpito i settori occupazionali in cui erano impiegate soprattutto le donne (assistenza all'infanzia, commercio e turismo). E dove non si è trattato di licenziamento, si trovano le dimissioni volontarie dovute alle esigenze di curatela famigliare, ancora affidata alla donna.
Un’indagine gestita da Save The Children e i cui risultati sono stati pubblicati nell’articolo Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2020 pone in evidenza come, a causa proprio dell’emergenza sanitaria, il carico del lavoro familiare sia enormemente aumentato per 3 donne su 4.
Dobbiamo imporci affinchè si attui una ridistribuzione di questi compiti, dobbiamo pretendere che le donne siano più libere, anche di gestire il proprio corpo.
I dati, di indagini e ricerche scientifiche effettuate nell’ultimo decennio, evidenziano come non esista la «vocazione femminile alla famiglia e ai figli».
In Italia si è garantito il diritto alla scelta dell’aborto, ma esercitarlo è davvero difficile. Nell’ultima Relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978 (dati aggiornati al 2018) si evidenzia che il 69% dei ginecologi italiani è obiettore di coscienza. E nonostante esista l’obbligo, per le cliniche private come per gli ospedali pubblici, di garantire l’accesso sanitario all’interruzione volontaria della gravidanza, in più di cinque regioni il numero dei medici obiettori sale all’80%. Il caso limite è del Molise, in tutta la Regione esiste un solo medico abortista che ha dovuto rimandare il pensionamento per ben due volte prima di riuscire a trovare una sostituta.
Di recentissima data è poi la decisione delle Corte Suprema degli Stati Uniti di togliere fra i diritti costituzionali garantiti quello del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza. Questa abolizione non ha colpito solo le americane, ma tutte noi. Crea un precedente pericoloso per tutti i Paesi che fino a questo momento avevano tutelato le donne indigenti e allontanato le pratiche clandestine.
L’aborto è una scelta complessa che però dovrebbe essere sempre garantita, così come il sostegno professionale (psicologico e non) e la struttura assistenziale per le madri in difficoltà; una rete sociale di supporto, insomma, che oggi manca. Così come manca l’educazione sessuale garantita in tutte le scuole. Dovremmo investire nella prevenzione e nell’educazione, piuttosto che proibire un diritto sacrosanto. Educare porta a un progresso sociale; proibire, invece, no.
Per tirare le somme, quindi, alla luce di queste e molte altre problematiche perché dovremmo far morire il femminismo? C’è ancora tanto per cui lottare e non possiamo restare in silenzio. Dobbiamo, proprio come ha fatto Nellie Bly, far sentire la nostra voce. Arrabbiarci, piuttosto che chinare il capo innanzi a queste ingiustizie sociali.
Come dice la scrittrice Soraya Chemaly nel suo libro La rabbia ti fa bella. Il potere della rabbia femminile: «Se mai c’è stato un tempo per non autoimporci il silenzio, per incanalare la nostra rabbia in direzioni e scelte benefiche, quel tempo è adesso».


Elizabeth è di certo una donna emblematica: le sue passioni ardimentose, le scelte intrepide, la debolezza e l’impeto del suo essere ma anche l’inarrendevolezza, il genio e la forza di volontà che le ha connotate. Quale messaggio ci offre?

Elizabeth offre a tutti un modello, un esempio, uno stile di vita. Lottare per realizzarsi, per essere sé stessi. Investire tutte le proprie forze per realizzare i nostri sogni. Rialzarsi dopo una caduta e andare avanti con maggior decisione: vietato arrendersi.


«Col tempo avrei imparato che a una donna non solo non sarebbe mai stato consentito di scegliere liberamente il proprio futuro, ma neppure da amministrare da sé il proprio patrimonio». Come si fa la rivoluzione femminista?

Lottando ciascuna nel proprio piccolo. Lo slogan delle battaglie femministe di questo anno è stato definito da Carol Hanisch, attivista degli anni ’70: «Il personale è politico». Cosa vuol dire? Semplicemente che per creare la parità di genere è necessario lottare per i diritti che ciascuna di noi si vede negati. Mi è mancato l’accesso a una carica amministrativa? Devo fare di ciò la mia battaglia, devo andare a riprendermi ciò che mi è stato negato. Questo farà in modo che nessuna donna si ritroverà mai nelle mie stesse condizioni. Lavorando per me ho lavorato per tutte quante. È così che il personale diventa politico (cioè esigenza di tutte).


Nellie Bly è stata la prima giornalista investigativa che ha raccontato la storia delle donne, dalla casa alle fabbriche. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

La strada di Elizabeth è costellata di sperequazione di genere. La strada di tutte le donne del suo tempo lo era. Poche però non si arrendevano e continuavano a lottare per realizzare le proprie aspirazioni. E in questa arrendevolezza va inserita l’educazione vittoriana a cui le donne venivano istruite sin dal primo vagito.


«In un villaggio della Pennsylvania c’era una bambina che si vestiva sempre di rosa. Si chiamava Nellie». Da Storie della buonanotte per bambine ribelli a Nellie Bly, reporter. Quanto la vita straordinaria del mondo di ieri ci mostra come dovremmo cambiare il mondo di oggi?

È il passato che forgia il presente e il futuro. Per questo racconto storie del passato, perché conoscerle ci aiuta a vivere meglio oggi, ad avere maggiore consapevolezza di chi siamo e di come siamo giunti fin qui. Dobbiamo istruire sul passato i bambini, gli adolescenti, i giovani che sono gli adulti di domani. Saranno loro, domani, a costruire un nuovo mondo. Migliore, si spera.


«Ho imparato in fretta e a mie spese non solo che una donna ottiene dalla vita la metà di ciò che desidera realmente, ma che farebbe meglio a farsela bastare. Ci viene chiesto di essere tutte uguali». Nellie Bly quale paladina dell’unicità, dell’irripetibilità d’ogni donna?

Nellie Bly dimostrò in prima persona che le donne potevano fare, e a volte anche meglio, le stesse cose che erano riservate agli uomini e proibite al genere femminile. Fu questa la cosa vincente: dimostrare vivendo in prima persona. Questo è ciò che l’ha portata poi a ideare l’undercover journalism.


Nellie Bly giornalista, esploratrice, corrispondente di guerra, sempre schierata dalla parte delle operaie sfruttate, dei bambini, delle domestiche. Reputa che le lotte da lei combattute siano ancora in corso?

Molto di ciò che ha combattuto Nellie Bly ci affligge tutt’oggi. Il problema, oggi come allora, è che non fa audience occuparsi di affari scomodi, è impopolare. Nellie Bly se ne infischiava della popolarità, di intraprendere indagini scomode; è stato questo che l’ha resa unica, che l’ha resa popolare.


Lei ha disegnato un profilo storico d’indubitabile fascino, gettando luce sulle ombre della condizione femminile. Ciò, evidentemente, ha richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo si è imposto di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?

Non esiste una ricetta per mettere su carta, in un romanzo soprattutto, le informazioni che abbiamo acquisito da una ricerca storica. Al contrario, la ricerca storica deve essere fatta con metodo e bisogna selezionare con attenzione le informazioni che può essere utile inserire in un romanzo, piuttosto che quelle che darebbero vita solo a un eccesso nozionistico.







A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)