Matteo Marchesini: «La sua ‘irrilevanza’ ci ricorda che la letteratura è il contrario del potere»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Matteo Marchesini, classe 1979. Tra le sue pubblicazioni: le poesie di Marcia nuziale (Scheiwiller, 2009) e di Cronaca senza storia (Elliot, 2016), le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon, 2010), i saggi letterari di Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012), le raccolte critiche Da Pascoli a Busi (Quodlibet 2014), Casa di carte (Il Saggiatore 2019) e Scienza di niente (Elliot 2020). Atti mancati (Voland, 2013) è il suo primo romanzo, Premio Lo Straniero, entrato nella dozzina dello Strega 2013. Del 2017 è False coscienze. Tre parabole degli anni Zero (Bompiani) e del 2021, Miti personali. Sedici racconti (Voland). Collabora tra l’altro con la redazione bolognese del «Corriere della Sera», con Radio Radicale, «Il Foglio» e «Il Sole 24 Ore».


Matteo, lei, oltre a occuparsi di critica letteraria, è uno scrittore di chiara fama; ha ricevuto altresì numerosi riconoscimenti. Può indicarci la sua cifra stilistica e se, attualmente, sperimenta vie e percorsi di un genere ibrido qual è il romanzo?

Ringrazio per questo riconoscimento di status, che temo troppo ottimistico. In ogni caso, considero la mia produzione critica e più generalmente saggistica un’opera di scrittore quanto quella poetica e narrativa. Faticherei a riassumere ciò che tento di fare in una «cifra stilistica», e forse non tocca a me. Potrei rimandare, però, a un mio vecchio scritto pubblicato in appendice alla raccolta Marcia nuziale (Scheiwiller 2009). In quelle pagine ragiono su alcuni tratti che non riguardano soltanto i versi. Preferisco comunque dire ‘ciò che non voglio’, e in cui non credo. E per quel che riguarda (anche) la narrativa: non credo né alla ‘scrittura da editing’, ovvero da sceneggiatura seriale, né all’opposizione di sua maestà a questa scrittura, cioè ai finti mostri che esaltano lo Stile promuovendone un’idea un po’ pacchiana, e lo confondono con la stilizzazione. Infine, sul romanzo: attualmente sto scrivendo dei racconti medio-lunghi; è una misura che sento più mia.


Il volume Miti personali si apre con una citazione di Vico, «gli uomini prima sentono senz’avvertire». Nell’età della comunicazione diffusa e dei social media facciamo i conti con l’obnubilamento delle facoltà di giudizio?

Nell’età della comunicazione diffusa e capillare, siamo dei barbari troppo civilizzati. È il legame tra il sentire e il giudizio che si spezza facilmente. L’uomo non può sopportare troppa realtà, diceva Eliot; specie se è ‘irreale’. E il fatto di essere tutti sotto gli occhi di tutti ogni momento ci inibisce: ci impedisce di sperimentare liberamente, andando a tentoni e concedendoci quegli errori che soli portano a qualche verità profonda, non immediatamente ‘socializzabile’. Io però, con l’epigrafe vichiana, volevo soprattutto indicare una situazione originaria, in cui si mischiano vasti orizzonti fantastici e allarmi sinistri, presagi di un destino che intrappola.


Lei, in Atti mancati traccia una traiettoria sul tempo trascorso caparbiamente a occhi serrati e su quello vissuto a occhi spalancati. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emotivo. Quale valore attribuisce all’elemento della «memoria» nella sua produzione?

In buona parte delle cose che scrivo, in versi e in prosa, torno a inquadrare la stessa situazione: quella di una crescita bloccata, di un destino malignamente ripetitivo. La memoria mi s’impone come rimorso, Erinni, materia che non si è stati capaci di assimilare e che quindi torna in forma mostruosa a sfregiare il presente.


Nel cuore di Bologna, Marco, trentenne diviso tra gli impegni del giornalismo e il tentativo di concludere un romanzo, si nutre di una solitudine tenace e il più possibile asettica. Il dolore come condizione ontologica all’essere umano?

Direi, piuttosto, l’immaturità come condizione prevalente dei miei personaggi, che sono un po’ adolescenti e un po’ senili, mai davvero adulti. L’immaturità e la difesa dall’esperienza.


Il suo romanzo presenta pagine oltremodo realistiche relative alla quotidianità del protagonista della narrazione e sensazioni di vuoto, di smarrimento e di malinconia. Ha desiderato compiere anche un atto di denuncia sociale in nome dei trentenni?

No, per carità. Se sono almeno un po’ credibili, i personaggi possono finire per rappresentare cose diverse. Ma non è certo con un intento di ‘denuncia’ che mi metto a scrivere un racconto o un romanzo.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Difficile dirlo. Da oltre un secolo non abbiamo più la fiducia ottocentesca nel fatto che la Letteratura rappresenti la Storia; e nemmeno crediamo sul serio che la vicenda di un personaggio rispecchi quella di una società. Si sono spezzate le connessioni di cui – prima della catastrofe della Grande guerra – parlava il Forster di Casa Howard. Oggi la letteratura ha un peso sempre minore nella cultura generale. Questo può deprimere, ma scioglie anche tanti equivoci. La sua ‘irrilevanza’ ci ricorda che la letteratura è il contrario del potere – che è fatta anche per esprimere le verità naturalmente represse o rimosse nei rapporti sociali, nelle rappresentazioni mediatiche, e insomma nelle dimensioni della vita nelle quali si esige da noi un’autorappresentazione coerente e stilizzata – cioè una ‘cattiva letteratura’.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

È un tema che si presta subito agli equivoci. Ragionando sulla letteratura tra Otto e Novecento, un critico ha osservato che alcune narratrici erano allora meno ideologizzate degli uomini, più brutalmente ‘oggettive’, e che in questo carattere si rifletteva un’esperienza da ‘classe oppressa’, capace di offrire un peculiare sguardo dal basso. Non direi però che esista una ‘letteratura femminile’; e temo che oggi il tentativo di stringere tra le mani questo fantasma serva più che altro ad alimentare tavole rotonde un po’ oziose, spregiudicate pubblicità editoriali, e una deprimente sindacalizzazione del dibattito.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni ‘oralità’/‘scrittura’ e ‘poesia’/‘prosa’, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Non c’è dubbio che i supporti cambino il modo di leggere. Ma di più, nel senso indicato, lo cambiano forse le sigle editoriali che troviamo su un testo. La critica – o meglio la critica che tradisce sé stessa – è condizionata da marchi e lanci pubblicitari che dovrebbero garantire un’autorevolezza ormai assente. Mette il cappello su ciò che è già brandizzato, non importa se ‘di nicchia’ o ‘mainstream’, e stenta invece ad affrontare a mani nude le scritture ancora non definite, cartacee o digitali che siano.


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

Non so dirlo. Ma penso che anche qui, purtroppo, prevalga un’attenzione ‘giornalistica’, nel senso deteriore del termine: in un festival, in una collana il migrante serve. Si confonde la politica con la letteratura, e questo è umiliante – anche e soprattutto per gli autori che vengono usati come testimonial.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Anni fa lessi Manea, e ne fui impressionato. Cărtărescu l’ho soltanto ‘annusato’, in attesa di avere, o meglio di darmi tempo: forse è la retorica lirico-monumentale da cui è circondato che per ora mi tiene a distanza. Quanto a Eliade e Cioran, classici di lungo corso anche in Italia, il discorso è diverso. Purtroppo Cioran è diventato la bandiera dei nichilisti a buon mercato, sprezzanti, estetizzanti e snob. La colpa è un po’ sua: sul tema consiglio un saggio di Alfonso Berardinelli che si trova in Stili dell’estremismo.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII)