Massimo Triolo: «Oggi ha corso il dionisiaco come dimensione estranea al lato apollineo»

«La poesia contemporanea è il risultato e lo specchio fedele di processi di dissociazione e caos, condizioni eterodirette e smarrimento, nell’età moderna e postmoderna.  Se vogliamo usare una metafora, si può affermare che oggi abbia corso il dionisiaco come dimensione estranea all’armonia del canone, al lato apollineo dell’ordine e della misura».
Così Massimo Triolo, poeta, scrittore e artista del disegno. Ha pubblicato le sillogi poetiche: Due chiacchiere con il diavolo (2005); In ritardo sulla scena (2012); Acini di sangue (2017); Occhio e assenza (2018); Trilogia dell’estasi (2019), Due ali di fiamma (2020); Le forme del visibile (2020); Nero (2021). Ha pubblicato i romanzi Innocenza e altre deviazioni (2020) e Luce della mia tenebra (2021) e la raccolta di racconti gotici Raso rosso. Racconti e visioni (2021). È comparso con sue liriche nel prestigioso «Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea» (2018 e 2022). Ha vinto e ha menzioni di merito in numerosi premi letterari a carattere nazionale. Collabora con la rivista culturale «Pangea», con «Teatro contemporaneo e cinema» e con «Il Borghese». Sono comparsi articoli a sua firma su quotidiani nazionali tra cui «il manifesto». Ha condotto programmi culturali su diverse emittenti radio.


Lei è poeta e anche artista del disegno. In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dall’Arte, intesa nelle sue accezioni?

I tratti distintivi di questo corso storico fanno della cultura paccottiglia per le masse, della politica un mercimonio che favorisce solo certe consorterie, per così dire. Un contesto di stagnazione che ha come ascendente istanze pedagogiche pavloviane e volte a informare più che formare i più giovani, da un lato, e a un ammaestramento sistematico dei gusti del pubblico verso prodotti commerciali – e dico prodotti e non opere, a ragion veduta. Il dialogo con sé stessi presuppone rigore e lucidità e una educazione affettiva che non può prescindere dal rapporto con il prossimo (si intenda pure la parola evangelicamente: lo stesso Pasolini pensava al Vangelo come a «una grande opera intellettuale»). Ma, vede, tale rapporto è oggi minato da una cultura dell’usa-e-getta, da un consumismo barbaro che rende tutti uguali ma senza amore: ovvero dei consumatori prima ancora che dei soggetti pensanti e operanti, reificati e che reificano a loro volta l’altro come se fosse un mezzo e non un fine. Dialogare con sé stessi significa sicuramente fare i conti con zone del nostro intimo spesso contrastanti e caotiche, generatrici di disguidi e sofferenza, ma vedo il gesto di interrogarsi e di avere una dialettica «interna» non eteronoma, come uno splendido atto di autocoscienza e l’occasione preziosa di non mutilare parti di sé con posture narcisistiche e anodine. Tutto sommato esso è un esercizio di libertà e autarchia stoicamente intesa. Se l’arte, letteraria e non, stimola ad avere un dialogo con sé stessi, non credo sia nel segno distintivo di lenire conflitti interiori, o almeno non solo: ho sempre pensato che essa non possa fare altro che guarire ferite o infliggerle, ogni altro suo connotato è una scialbatura appena di fronte a questo ruolo. Non ho poi una visione hegeliana delle conflittualità, ma piuttosto di matrice irrazionalistica: non tutti i conflitti nascono tra opposti, e non tutti gli opposti generano conflitti; in ogni caso non vedo la conflittualità come un vulnus etico ma come scontro di Potenze nietzschiane, anche nella dinamica interna ai soggetti... e non per un verso schizoide. Storicamente, poi, i conflitti sono stati gli elementi propulsivi di ogni cambiamento sanamente rivoluzionario. Temo più la stagnazione e la reazione e penso l’arte vera come qualcosa che ha il diritto-dovere di essere rivoluzionaria e non di maniera.


Se parliamo di poesia tra piani temporali scomposti e interstizi che compromettono il linguaggio medesimo, quali sono le peculiarità della versificazione contemporanea?

Essa è il risultato e lo specchio fedele di processi di dissociazione e caos, condizioni eterodirette e smarrimento, nell’età moderna e postmoderna. Lo stile che se ne fa voce privilegia posture brachilogiche, un’espressione più puntiforme, e ritmi franti, concitati e meno armoniosi, almeno in senso classico, mettendo così in discussione armamentari retorici e di versificazione tipici di un periodo ben diuturno ma che è volto al termine da più di un secolo. Se vogliamo usare una metafora, si può affermare che oggi abbia corso il dionisiaco come dimensione estranea all’armonia del canone, al lato apollineo dell’ordine e della misura.


La brevità è, senz’altro, una nota distintiva della Poesia. Essenzialità, unicità ne sono gli elementi fondamentali. Data siffatta premessa, la densità come si concilia con il desiderio di scandaglio interiore, di sfoglio della mente, di attenzione a ogni possibile riverbero cerebrale connaturato al coevo modo di porsi di fronte all’umano?

Il problema è quando si scrivono e vengono propalate «lattughe» poetiche, per usare un linguaggio da Beat Generation. Senza bisogno di scomodare Allan Poe, che aveva una visione tipicamente romantica della poesia, per cui l’elemento estetico era preponderante persino sui temi, va detto che lo stile non è un mero strumento ma il sostrato stesso che invera una poiesi potente e plastica di idee, sentimenti, suggestioni in forma poetica; esso rende possibile l’incisività e l’economia del gesto artistico o letterario. Ma essere icastici e profondamente evocativi, o essenziali e unici, per usare i suoi termini, non significa necessariamente avere uno stile rasciutto e brachilogico, il vero problema è quando si risulta ridondanti e ampollosi, oleografici e pedanti.


Lei si dedica anche alla traduzione poetica. Henri Meschonnic adopera «il tradurre», Georges Mounin usa le locuzioni activité traduisante oppure opération traduisante. Ebbene, come si disambigua il termine «traduzione»?

Tradurre, etimologicamente, significa «portare oltre». Se il gesto è applicato a un testo, significa farlo scollinare verso un’altra lingua. Naturalmente non è sufficiente una traduzione mot à mot, né possibile una sorta di traslazione scientifica del testo; e, per usare una allegoria evocativa, il traduttore deve in qualche modo sospenderne la vita per farla risorgere in altra forma. Questo non è un atto di vessazione, ma la traduzione intesa sia come gesto del tradurre che come risultato di esso. Se poi mi suggerisce che in questo processo gli elementi culturali, la dimensione antropologica dell’esserci storico dell’autore d’origine (per rispolverare Heidegger) hanno un peso, rispondo certamente di sì. E chi opera la traduzione non può non esserne avvertito. In questo senso essa è prima di ogni altra cosa una interpretazione e chi traduce deve calarsi profondamente nella dimensione non meccanicistica, non deterministica, del fine di un’opera e del suo senso (inteso come direzione) più intrinseco. Prima di operare una traduzione, mi sono sempre chiesto: dove vuole condurre il testo? Dove vuole condurci?


Nella rappresentazione contemporanea della figura traduttiva, è stata fortemente voluta anche dagli organi istituzionali l’introduzione della codifica di mediatore. Lei ritiene di essere dotato esclusivamente di un talento traduttivo linguistico o di essere anche un mediatore culturale?

Non vedo come le due cose possano essere pensate disgiuntamente. E con questo ho già risposto. Ma vede, penetrare una cultura non significa possederla, significa piuttosto abitarla dall’interno: in questo senso vi si deve prendere dimora. Che è appunto un gesto di appartenenza elettiva e non di assoggettamento di essa a scopi etnocentrici. In aggiunta ho ancora molto da imparare sulla cultura romena.


Lei ha tradotto Ossa di luce (Transeuropa, 2019), Disincanto programmato (Nulla Die, 2020) e Artigli e Paure (di prossima uscita) di
Ștefan Mocanu. A suo avviso quanto incidono le specificità storiche sulle tipicità linguistiche del poeta romeno?

Ho tradotto tre sue sillogi poetiche di gestazione piuttosto rapida e recente. Mocanu è un astrattista, ma non solo, egli tramuta l’ordinario in straordinario e ripensa tutto il rapporto filosofico classico Soggetto-Oggetto.
Ha poi una concezione degli oggetti stessi di una vita, che può essere assimilata alla pittura di un Velásquez, alla poesia di un Rilke e alla filosofia di Walter Benjamin (si guardi a tale proposito Angelus Novus). In un’Epoca in cui gli oggetti non hanno memoria – ovvero non sono più addomesticati da un uso che li rende depositari di ricordi – e i soggetti sono terribilmente alienati e figli di nevrosi sempre nuove, la poesia di Mocanu è una risposta quasi sacrale e medicamentosa a quest’ordine di perdita di senso e allucinato smarrimento. Essa stessa allucinata ma non dissociata, lucidamente febbrile, e con prospettive di senso di una profondità che restituisce statuto di significanza a un presente in disarmo sia dal punto di vista assiologico che di pratiche di vita e arte.


Se ci riferiamo alla letteratura romena, quali poeti e prosatori hanno attirato la sua attenzione?

Sono affascinato dal teatro di Ionescu, dalle sue anti-pièce. Mi riferisco segnatamente al tema della difficoltà della comunicazione, alla disarticolazione della parola nel segno di una «tragedia del linguaggio», con la sua poetica del fallimento. Ho sempre ravvisato un’analogia col teatro Beckettiano.
Per quanto concerne il pensiero, trovo brillante, ironico e profondo Cioran, il suo caustico nichilismo è un balsamo contro l’ovvietà e ogni manierismo didascalico. Sto leggendo proprio in questo periodo, dopo aver divorato i Sillogismi dell’amarezza, Sommario di decomposizione.
Ho poi letto con grande interesse il trattato di Storia delle religioni di Eliade, un’opera monumentale, ispirata e ricchissima.
Amo Brâncuși, la sua concezione dell’arte e della vita; ricordo un suo aforisma davvero splendido: «L’arte deve unire e non dividere, riempire e non scavare precipizi nei nostri poveri spiriti già stravolti dalle domande. Non dimenticare mai che sei artista. Non perderti mai di coraggio. E non avere mai paura di niente: perché arriverai alla meta.Vorrei che i miei lavori si alzassero nei parchi e nei giardini pubblici, che i bambini giocassero su di loro come avrebbero giocato sulle pietre e i monumenti nati dalla terra, che nessuno sapesse cosa sono e chi li ha fatti, ma che tutti sentissero la loro necessità, la loro amicizia, come qualcosa che appartiene all’anima della natura.» È questa una splendida indicazione e dichiarazione di intenti, e se pure semplice e diretta come un raggio di sole, tutt’altro che naïf.
Per quanto invece concerne la poesia, naturalmente Eminescu, che è una sorta di padrino fondatore della moderna lingua romena e il poeta più eminente tra gli insigni della tradizione di quel Paese. Lo trovo capace di fondere insieme suggestioni poetiche, filosofiche e folkloristiche, con una composta eleganza che sposa stili classici, nitidi e puri, a elementi romantici.
Apprezzo anche Nichita Stănescu, purtroppo morto ancora giovane, e che aveva uno splendido registro, tale da allontanarsi dalla cosiddetta poesia impegnata, che era stata in voga dal dopoguerra – aggiungiamo pure prona alla propaganda del Potere. Vorrei citare alcuni sue parole pronunciate due mesi prima della sua morte, di fronte a una platea di studenti: «Se mai morirò, sono sicuro che non sarò cibo per i vermi, poiché io sarò trasformato in parola.»
A questi autori si aggiunge anche Adrian Păunescu, figura politicamente controversa ma splendido poeta della generazione contemporanea, mecenate per i cantautori folk alla cui musica sposava molte sue ballate. Ha saputo aggirare la retorica comunista, e pur essendo dovuto addivenire a compromessi col Potere, si è fatto voce di temi altri ed è rimasto artisticamente libero e autonomo, arrivando al cuore dei giovani con una poesia rimata, profonda e non astrusa. Egli ha saputo dare voce a una identità nazionale ma senza toni nazionalisti. In moltissimi si identificavano nelle sue opere e nei suoi spettacoli, e il pubblico si sentiva fiero riuscendo a dimenticare, anche per poco, le brutture del regime, e riscoprendo la tradizione nel segno di un canto di libertà e appartenenza.


La rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» registra le pubblicazioni di letteratura romena in traduzione italiana nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2023. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Devo ammettere che seppure realtà vivace e interessante, io non ne ero a conoscenza prima di essere contattato da Giusy Capone, vostra valente collaboratrice. Era una lacuna che ho provveduto a colmare, leggendo con molto interesse le pagine della rivista. Auspico che in molti, nel segno di un connubio tra cultura italiana e romena, vengano a conoscenza di «Orizzonti Culturali», potendo attingere ai suoi ricchi e interessanti contenuti.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)