Massimo Triolo: «Oggi ha corso il dionisiaco come dimensione estranea al lato apollineo» «La poesia contemporanea è il risultato e lo specchio fedele di processi di dissociazione e caos, condizioni eterodirette e smarrimento, nell’età moderna e postmoderna. Se vogliamo usare una metafora, si può affermare che oggi abbia corso il dionisiaco come dimensione estranea all’armonia del canone, al lato apollineo dell’ordine e della misura». I tratti distintivi di questo corso storico fanno della cultura paccottiglia per le masse, della politica un mercimonio che favorisce solo certe consorterie, per così dire. Un contesto di stagnazione che ha come ascendente istanze pedagogiche pavloviane e volte a informare più che formare i più giovani, da un lato, e a un ammaestramento sistematico dei gusti del pubblico verso prodotti commerciali – e dico prodotti e non opere, a ragion veduta. Il dialogo con sé stessi presuppone rigore e lucidità e una educazione affettiva che non può prescindere dal rapporto con il prossimo (si intenda pure la parola evangelicamente: lo stesso Pasolini pensava al Vangelo come a «una grande opera intellettuale»). Ma, vede, tale rapporto è oggi minato da una cultura dell’usa-e-getta, da un consumismo barbaro che rende tutti uguali ma senza amore: ovvero dei consumatori prima ancora che dei soggetti pensanti e operanti, reificati e che reificano a loro volta l’altro come se fosse un mezzo e non un fine. Dialogare con sé stessi significa sicuramente fare i conti con zone del nostro intimo spesso contrastanti e caotiche, generatrici di disguidi e sofferenza, ma vedo il gesto di interrogarsi e di avere una dialettica «interna» non eteronoma, come uno splendido atto di autocoscienza e l’occasione preziosa di non mutilare parti di sé con posture narcisistiche e anodine. Tutto sommato esso è un esercizio di libertà e autarchia stoicamente intesa. Se l’arte, letteraria e non, stimola ad avere un dialogo con sé stessi, non credo sia nel segno distintivo di lenire conflitti interiori, o almeno non solo: ho sempre pensato che essa non possa fare altro che guarire ferite o infliggerle, ogni altro suo connotato è una scialbatura appena di fronte a questo ruolo. Non ho poi una visione hegeliana delle conflittualità, ma piuttosto di matrice irrazionalistica: non tutti i conflitti nascono tra opposti, e non tutti gli opposti generano conflitti; in ogni caso non vedo la conflittualità come un vulnus etico ma come scontro di Potenze nietzschiane, anche nella dinamica interna ai soggetti... e non per un verso schizoide. Storicamente, poi, i conflitti sono stati gli elementi propulsivi di ogni cambiamento sanamente rivoluzionario. Temo più la stagnazione e la reazione e penso l’arte vera come qualcosa che ha il diritto-dovere di essere rivoluzionaria e non di maniera.
Essa è il risultato e lo specchio fedele di processi di dissociazione e caos, condizioni eterodirette e smarrimento, nell’età moderna e postmoderna. Lo stile che se ne fa voce privilegia posture brachilogiche, un’espressione più puntiforme, e ritmi franti, concitati e meno armoniosi, almeno in senso classico, mettendo così in discussione armamentari retorici e di versificazione tipici di un periodo ben diuturno ma che è volto al termine da più di un secolo. Se vogliamo usare una metafora, si può affermare che oggi abbia corso il dionisiaco come dimensione estranea all’armonia del canone, al lato apollineo dell’ordine e della misura.
Il problema è quando si scrivono e vengono propalate «lattughe» poetiche, per usare un linguaggio da Beat Generation. Senza bisogno di scomodare Allan Poe, che aveva una visione tipicamente romantica della poesia, per cui l’elemento estetico era preponderante persino sui temi, va detto che lo stile non è un mero strumento ma il sostrato stesso che invera una poiesi potente e plastica di idee, sentimenti, suggestioni in forma poetica; esso rende possibile l’incisività e l’economia del gesto artistico o letterario. Ma essere icastici e profondamente evocativi, o essenziali e unici, per usare i suoi termini, non significa necessariamente avere uno stile rasciutto e brachilogico, il vero problema è quando si risulta ridondanti e ampollosi, oleografici e pedanti.
Tradurre, etimologicamente, significa «portare oltre». Se il gesto è applicato a un testo, significa farlo scollinare verso un’altra lingua. Naturalmente non è sufficiente una traduzione mot à mot, né possibile una sorta di traslazione scientifica del testo; e, per usare una allegoria evocativa, il traduttore deve in qualche modo sospenderne la vita per farla risorgere in altra forma. Questo non è un atto di vessazione, ma la traduzione intesa sia come gesto del tradurre che come risultato di esso. Se poi mi suggerisce che in questo processo gli elementi culturali, la dimensione antropologica dell’esserci storico dell’autore d’origine (per rispolverare Heidegger) hanno un peso, rispondo certamente di sì. E chi opera la traduzione non può non esserne avvertito. In questo senso essa è prima di ogni altra cosa una interpretazione e chi traduce deve calarsi profondamente nella dimensione non meccanicistica, non deterministica, del fine di un’opera e del suo senso (inteso come direzione) più intrinseco. Prima di operare una traduzione, mi sono sempre chiesto: dove vuole condurre il testo? Dove vuole condurci?
Non vedo come le due cose possano essere pensate disgiuntamente. E con questo ho già risposto. Ma vede, penetrare una cultura non significa possederla, significa piuttosto abitarla dall’interno: in questo senso vi si deve prendere dimora. Che è appunto un gesto di appartenenza elettiva e non di assoggettamento di essa a scopi etnocentrici. In aggiunta ho ancora molto da imparare sulla cultura romena.
Ho tradotto tre sue sillogi poetiche di gestazione piuttosto rapida e recente. Mocanu è un astrattista, ma non solo, egli tramuta l’ordinario in straordinario e ripensa tutto il rapporto filosofico classico Soggetto-Oggetto.
Sono affascinato dal teatro di Ionescu, dalle sue anti-pièce. Mi riferisco segnatamente al tema della difficoltà della comunicazione, alla disarticolazione della parola nel segno di una «tragedia del linguaggio», con la sua poetica del fallimento. Ho sempre ravvisato un’analogia col teatro Beckettiano.
Devo ammettere che seppure realtà vivace e interessante, io non ne ero a conoscenza prima di essere contattato da Giusy Capone, vostra valente collaboratrice. Era una lacuna che ho provveduto a colmare, leggendo con molto interesse le pagine della rivista. Auspico che in molti, nel segno di un connubio tra cultura italiana e romena, vengano a conoscenza di «Orizzonti Culturali», potendo attingere ai suoi ricchi e interessanti contenuti.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone |