Massimiliano Parente: «La letteratura crea una nuova categoria di lettori, la propria»

La nostra rivista inizia una nuova inchiesta a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, questa volta nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di grande interesse per noi.
Nell’ambito dei nostri Incontri critici, qui il dialogo con Massimiliano Parente (n. 1970), autore della monumentale trilogia formata da La macinatrice (2005), Contronatura (2008), L’inumano (2012), pubblicata da La nave di Teseo in un volume unico, Trilogia dell’inumano (2017). Si aggiungono i romanzi Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (2014), L’amore ai tempi di Batman (2016), il saggio sulla Recherche di Marcel Proust L’evidenza della cosa terribile (2010), i pamphlet La casta dei radical chic (2010) e, insieme a Vittorio Feltri, Il vero cafone (2017). Del 2018 è il provocatorio saggio Scemocrazia – come difenderci dal pensiero comune. Nel 2018 ha pubblicato il romanzo Parente di Vasco e nel 2020 la raccolta Tre incredibili racconti erotici per ragazzi. 


Su «Zest Letteratura Sostenibile»nel dicembre del 2016 lei ha dichiarato di non voler più scrivere romanzi, avendo scritto ciò che desiderava scrivere, tuttavia successivamente ha redatto scritti scevri da qualsivoglia filtro religioso, metafisico, filosofico o soterico. Vi è differenza tra uno scrittore e un narratore?

In realtà in nessun mio romanzo c’è quel filtro di cui parla, la stessa Trilogia dell’inumano è un’opera di 1700 pagine scritta in dodici anni che combatte proprio la metafisica verso cui è culturalmente portata la maggior parte dei letterati, perfino quelli che si definiscono atei, cosa che io non sono, è un sostantivo inventato dai religiosi per definire gli altri per opposizione, ma come posso essere senza qualcosa che non c’è? Dopo il 2016 ho pubblicato diversi libri, vero, tra cui tre romanzi molto pop che non hanno tradito questa pensiero di base, e anche un libro con Giorgio Vallortigara, uno dei più grandi e affascinanti neuroscienziati del mondo, che ha avuto il coraggio (e mi ha fatto anche l’onore) di scrivere con me un epistolario, Lettere dalla fine del mondo, dove dibattiamo sulla questione delle credenze e in generale sui limiti della cultura umanistica. Per carità ci sono anche scienziati limitati, specialmente tra i fisici, un giorno ho parlato con Roberto Battiston e intellettualmente è una specie di prete. Ma sono una minoranza.
C’è differenza tra uno scrittore e un narratore? Assolutamente sì, il narratore non produce vera letteratura ma racconta storie, non cambia la storia della letteratura ma aggiunge una storia alla storia delle narrazioni, non si preoccupa delle parole o frasi che usa, usa quelle che sono già pronte nel cassetto delle narrazioni, della sedimentazione dei cliché linguistici perché il suo scopo è raccontare una storia, lo scrittore oltre che raccontare una storia deve anche creare un suo linguaggio, pesare ogni parola, non farsi parlare dalla lingua ma parlarne una che sia tutt’uno con la sua visione del mondo.


Nel 2016 la traduzione in ungherese de Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler restò in testa alle classifiche di vendita per ben cinque mesi, suscitando un acceso dibattito critico. La letteratura è governata dal mercato e dallo scandalo del giorno per cui indignarsi?

Come diceva Paul Valéry una pagina di letteratura è una pagina di letteratura. Certo, deve anche entrare nel mercato, ma mentre la narrativa è prodotta per dei lettori già esistenti, la letteratura crea una nuova categoria di lettori, la propria. In genere produce scandalo, ma quello è un effetto collaterale nello sfondare un orizzonte di attesa, non un aspetto fondamentale, bisogna vedere perché qualcosa scandalizza.


Oggi, in tantissimi scrivono romanzi, tuttavia ben pochi posseggono la contezza dei suoi sviluppi, delle sue ragioni, altresì storiche e, specialmente, della sua necessità. Lo «scrivere» è davvero necessario?

Dopo le mie opere direi di no.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Non distinguo la letteratura tra scritta da uomini e scritta da donna, la letteratura non ha sesso, così come gli scrittori. L’Italia è piena di autrici mediocri di cui si parla semplicemente perché portano avanti un’idea di femminismo, ma d’altra parte per lo stesso principio i romanzi premiati sono tutti di narrativa femminile indipendentemente che siano scritti da un uomo o da una donna. Se leggo Proust o Virginia Woolf non leggo opere scritte da un uomo o da una donna. Tuttavia vere scrittrici donne non ne vedo, perché la maggior parte delle autrici scrivono con l’utero, ossia portando avanti una visione vitalistica, procreativa della vita. Siamo tutti animali, ma le donne di più. Non riesco a immaginare una donna arrivare agli estremi di Bernhard, o Beckett, o Gombrowicz, o ai miei, perché non riescono a liberarsi del proprio sesso, a combattere i condizionamenti della propria biologia. In Italia lo ha fatto Barbara Alberti, grande scrittrice non a caso mai citata dalle suddette mediocri femministe.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Non mi interessa nessuna letteratura che sia portatrice della narrazione di una nazione, a un popolo, a un’idea sociologica. La letteratura conta quando resiste nel tempo, quando tocca temi universali. Non leggiamo Dostoevskij perché ci parla della situazione della Russia del XIX secolo, e Marcel Proust ha scritto la Recherche durante la Prima Guerra mondiale, della quale nella Recherche non c’è quasi traccia. 


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni «oralità»/«scrittura» e «poesia»/«prosa», ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Per me un libro ha bisogno di un corpo, di essere un oggetto. Ci sono anche degli studi scientifici al riguardo fatti sui nativi digitali: chi legge un libro in e-book lo memorizza meno. Quanto allo sguardo della critica, non penso debba essere condizionato dai profumi ma solo avere un cervello per capire cosa sta leggendo, cartaceo o digitale o scritto su un rotolo di carta igienica.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Pochissimo, a eccezione di Emil Cioran e forse Herta Müller, per via del Nobel.


Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, sono autori che, trascendendo il tempo e lo spazio, hanno narrato la burrascosa storia della Romania. Ebbene, le sono noti e ci sono scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?

Mi spiace ma di quelli citati ho letto solo tutto Cioran, che mi sembrava colui che toccava temi più assoluti. Guardi caso un espatriato, uno che voleva che il suo nome e cognome fossero pronunciati con la pronuncia francese. Io stesso non mi sento italiano, non mi interessa l’Italia, fatico anche a sentirmi perfino appartenente a questo orribile pianeta in questo terrificante universo, ma ho affrontato a modo mio, scrivendo, proprio per citare Cioran, l’inconveniente di essere nati.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2022, anno XII)