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Mario Sesti:: «Il pubblico romeno ha potuto toccare con mano la forza del cinema italiano di oggi»
«Credo che gli spettatori di Bucarest abbiano potuto toccare con mano la forza di un cinema dotato di un pluralismo di voci rigoglioso». E, in questi giorni così difficili di guerra, «vedere il pubblico romeno ridere ed emozionarsi per film in lingua italiana mi ha ricordato che c’è un modo del tutto diverso di avere relazioni e confronti tra popoli e nazioni diverse». Così il critico e regista Mario Sesti, a Bucarest in veste di consulente artistico e curatore degli incontri e degli eventi speciali del Festival «Nuovo Cinema Italiano in Romania», tenutosi dal 9 al 13 marzo scorso.
Nell’ambito del Festival è stato proposto anche al pubblico romeno il suo documentario Bernardo Bertolucci: No End Travelling, presentato a Cannes 2019 nella prestigiosa sezione Cannes Classics, «un omaggio a un autore che non credo abbia eguali», come ci ha spiegato il regista nell'intervista a cura di Afrodita Cionchin, «ma anche un modo personale per conservare la memoria di quei momenti e impedire loro di dissolversi».
Quali sono le sue impressioni a caldo su questa prima edizione del Festival Nuovo Cinema Italiano in Romania e sulla sua accoglienza?
Molto positive. Nella mia esperienza di proposte del cinema italiano all’estero, la risposta del pubblico, in termini quantitativi ma anche dal punto di vita del calore, dell’attenzione e del gradimento, è stata davvero molto buona.
Otto i film italiani selezionati per questa prima edizione del Festival. Qual è il filo rosso che li unisce?
L’idea che mi ha guidato è stata proprio quella di cercare un filo rosso che fosse l’unicità di sguardo di ogni film, la personalità degli autori, la differenza di generazioni anche molto distanti: tutto ciò che, insomma, caratterizza la ricchezza e l’energia di un cinema, come quello italiano, capace di rinnovarsi ad ogni stagione e di possedere dentro di sé la vita necessaria a reagire con linguaggi e narrazioni, mai uguali a se stessi, ai cambiamenti del mondo, della società, della Storia.
Se rivolge uno sguardo d’insieme sui tratti comuni del nuovo cinema italiano, quali ritiene siano i più significativi al giorno d’oggi?
Credo che gli spettatori di Bucarest abbiano potuto toccare con mano la forza di un cinema dotato di un pluralismo di voci rigoglioso: ognuna di esse dotate di un taglio di profondità non convenzionale e di un’esigenza di racconto inedita. Di comune c’è l’idea, molto radicata, nell’Italia contemporanea, dal secondo dopoguerra ad oggi, che il cinema non è uno strumento qualsiasi per comprendere se stessi e ciò che accade intorno a noi.
Dall’altra parte, come si vede in Italia il nuovo cinema romeno con le sue peculiarità?
Come critico ritengo che la cinematografia romena contemporanea, con nomi come Cristian Mungiu, Cristi Puiu, Corneliu Porumboiu, Radu Mihaileanu, insieme a quella messicana, abbia accolto il testimone di quella capacità d’innovazione che una volta era il tratto caratteristico della Nouvelle Vague in tutto il mondo. Le sue caratteristiche? Un mix di spietatezza e humour, una attitudine non ordinaria a rispecchiare senza belletti la società e anche, talvolta, una vocazione al grottesco che, mi sembra, sono anche elementi familiari alla cucina del cinema italiano.
L’Università Nazionale d’Arte Teatrale e Cinematografica «Ion Luca Caragiale» (UNATC) ha ospitato la presentazione e il dibattito sul suo documentario Bernardo Bertolucci: No End Travelling. Quali sono i momenti più importanti del suo legame con il grande cineasta parmense?
La prima volta che ho incontrato Bernardo Bertolucci, mi ha chiesto: «Quand’è che hai scoperto di non essere immortale?». A lui era successo sul set di Novecento, quando, a causa di un malessere provvisorio, aveva perso per qualche giorno la vista. Allora aveva 35 anni e, dopo film come Il conformista e Ultimo tango a Parigi, era già considerato un maestro del cinema in Europa come in America. Aveva diretto il suo primo film a 21 anni e aveva lavorato per la prima volta su un set come assistente di Pasolini per Accattone. All’epoca era già una sorta di divinità del cinema d’autore: un critico inglese scrisse del Conformista che era girato con lo stesso virtuosismo di Quarto potere e due anni dopo, con Ultimo tango a Parigi, realizzava uno dei maggiori incassi del cinema italiano e allo stesso tempo un film che esplorava con tale profondità l’intreccio di desiderio, amore e morte, da provocare la censura e subire il rogo del negativo, il destino di chi nella storia ha lottato per idee ribelli e rivoluzionarie (anche se Ultimo tango è forse l’unico film al mondo ad aver affrontato tale sorte). Per questo, si può capire perché a 35 anni, dopo aver sconvolto il cinema e anche un po’ il mondo, Bernardo Bertolucci era sorpreso di scoprire la propria vulnerabilità. L’ultima volta che ho avuto con lui una lunga conversazione – che questo film racconta – Bertolucci era da parecchio tempo su una sedia a rotelle e conosceva molto bene la fragilità del corpo, che aveva raccontato attraverso empatici, dolci e toccanti film come Il tè nel deserto, Piccolo Buddha, Io ballo da sola.
Quale metodo ha adottato nel documentario per rendere il suo personale omaggio a Bertolucci?
Il film racconta dei molti incontri che abbiamo fatto Bernardo Bertolucci ed io (a volte, su un palco, insieme a grandi personalità come Patti Smith, Wim Wenders, Gerard Depardieu, Marco Bellocchio), delle lunghe chiacchierate su film e registi, sul suo cinema e su quello, sterminato, che amavamo. Questo film è un omaggio a un autore che non credo abbia eguali – quanti sono stati un mito della Nouvelle Vague e allo stesso tempo hanno conquistato Hollywood con un canestro di Oscar? – e anche un modo personale per conservare la memoria di quei momenti e impedire loro di dissolversi.
Per allargare la prospettiva, come si coniugano, per lei, l’esperienza critica e quella cinefila?
Fino a un anno fa, fare film documentari è stato un prolungamento della mia attività di critico: usare il cinema per parlare del cinema che ho amato, di Germi, Pasolini, Fellini, Bertolucci, ecc. L’altro anno, però, ho fatto anche un film di finzione con attori, Altri padri. E quindi ho saltato uno steccato che mi ha portato in un territorio completamente diverso che è quello del cinema come racconto, personaggi, linguaggio.
Un tema di grande interesse del Festival riguarda il rapporto tra cinema e letteratura in Italia. Quali le sue riflessioni in merito?
Il cinema italiano, nel passato, ha vissuto soprattutto di soggetti e idee originali, la prospettiva, negli ultimi decenni, e soprattutto di recente, è cambiata: come nel cinema americano, l’editoria scritta è diventata una fonte importante del racconto del grande schermo e soprattutto della nuova serialità. Credo sia un passaggio importante che attesta quanto la letteratura sogni ormai da molto tempo il cinema (senza averne più diffidenza come all’inizio del ’900) e come il cinema sappia amare la letteratura.
Tra cinema e letteratura, questo è l’anno Pasolini in Italia. In quali termini potrebbe sintetizzare l’eredità pasoliniana?
È difficile affrontare una questione del genere nella risposta di una intervista. Cercherò di farlo in modo obliquo. Pasolini è stato così importante, e cruciale, nella cultura e nella società dell’Italia contemporanea, che dovremmo immaginare quale ruolo potrebbero davvero avere gli intellettuali nelle sorti di un Paese (e del mondo) se ogni nazione, e ogni decennio, potesse avere a disposizione una intelligenza e una creatività come la sua.
Con quali pensieri lascia la Romania e cosa rappresenta per lei questa esperienza umana e professionale?
Sono arrivato in Romania con pensieri cupi, a causa della guerra, ai cui confini mi avvicinavo. Sono ritornato in Italia con pensieri molto più positivi e felici: vedere il pubblico romeno ridere ed emozionarsi per film in lingua italiana mi ha ricordato che c’è un modo del tutto diverso di avere relazioni e confronti tra popoli e nazioni diverse.
Foto IIC Bucarest
A cura di Afrodita Carmen Cionchin
(n. 4, aprile 2022, anno XII)
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