Maria Teresa Caprile: «La poesia di Giorgio Caproni per imparare l’italiano e per conoscere l’Italia»

Focus dell’intervista a Maria Teresa Caprile è il suo recente volume dedicato a La poesia di Giorgio Caproni per imparare l’italiano e per conoscere l’Italia (Sestri Levante, Gammarò, 2022).
Maria Teresa Caprile è stata professore a contratto di Letteratura italiana per stranieri dal 2011 al 2021 presso l’Università di Genova, dove pure è docente dal 2006 nei corsi di Lingua italiana per stranieri, ed è studiosa della Letteratura Italiana, materia nella quale ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università di Granada. È autrice, in collaborazione con Francesco De Nicola, dei saggi-antologia "Italia chiamò". 150 anni di storia italiana nelle pagine degli scrittori liguri (De Ferrari, 2010), Gli scrittori italiani e il Risorgimento (Ghenomena, 2011), Gli scrittori italiani e la Grande Guerra (ivi, 2014) e della monografia Giorgio Caproni (“Dante Alighieri”, 2012). Ha curato la ristampa dei romanzi La prova della fame (Gammarò, 2016) di Carlo Pastorino e Sissignora di Flavia Steno (De Ferrari, 2017) e l’edizione delle poesie di Riccardo Mannerini (ispiratore di alcune canzoni di Fabrizio De André) in Il viaggio e l’avventura (Liberodiscrivere, 2009). Per l’insegnamento dell’italiano a stranieri è autrice dei volumi Attraversiamo l’Italia! I nostri poeti per imparare l’italiano e amare l’Italia (Vannini, 2015) e In viaggio con i poeti (Gammarò, 2018) e, in collaborazione con Emanuela Cotroneo e Alessandra Giglio, Lezioni di italiano (ivi, 2012).


Professoressa Caprile, Lei si richiama costantemente alle parole e alle rime «chiare» ed «elementari» di Giorgio Caproni. Qual è il suo scopo? A chi lancia il guanto di sfida?

Le rime «chiare» ed «elementari» formate da analoghe parole sono alla base della poesia di Caproni e proprio dell’ampio uso di «lessico domestico» – dunque di un vocabolario concreto, come espressione della vita quotidiana – parlo diffusamente in un mio recente libro, La poesia di Giorgio Caproni per imparare l’italiano e per conoscere l’Italia, dimostrando, con una sorta di ‘censimento’ delle parole da lui più usate, che la sua poesia è ordita con un linguaggio ‘pratico’ e non aulico, distanziante e inaccessibile. Egli resterà comprensibile anche quando adotterà una forma metrica spezzata, con versi che sembrano perdersi nella vastità della pagina bianca, per esprimere la sua angoscia di trovarsi alle prese con una realtà intimamente inconoscibile e che dunque, inevitabilmente, sfugge al linguaggio e tuttavia continuerà a scrivere, contraddicendo dunque la sua tentazione al silenzio, il rischio dell’afasia. Con una lingua ‘quotidiana’ – senza per questo rinunciare alla creazione di estrosi e comunque ben comprensibili neologismi – Caproni, come tutti i grandi poeti (e come i grandi cuochi, che dagli ingredienti più semplici preparano i piatti più prelibati e sorprendenti), ottiene un linguaggio poetico, insomma, sa declinare in poesia anche la lingua di tutti i giorni. Però, ben più persuasive e «chiare» delle mie osservazioni, ci sono le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Caproni nel suo intervento all’Università di Urbino del 1° dicembre 1984, quando fu insignito della laurea ad honorem in Lettere e Filosofia:
«Linguaggio pratico e linguaggio poetico usano lo stesso codice di convenuti segnali […]. Ma mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati armonici che ne forma sua peculiare forza espressiva. Farò un esempio molto grossolano. Mi trovo in una caserma, dove ancora i segnali vengono trasmessi da una cornetta. La cornetta squilla il segnale del rancio, e il marmittone che conosce il codice prende la gavetta e si allinea nel cortile per ricevere la “sbobba”. Ma supponiamo che un estroso ufficiale, invece dalla solita cornetta, faccia suonare quello stesso segnale da un virtuoso di flauto. Il soldato, sì, capisce che quello è il segnale del rancio, ma anche sente qualcosa d’altro (il valore musicale di quel segnale: il significante, si direbbe oggi), e certamente resterà interdetto (incantato ad ascoltarlo), anziché precipitarsi alla chiamata».


La produzione letteraria caproniana, sia in poesia che in prosa, riflette appieno la realtà italiana del Novecento. Qual è stato il suo sguardo sulla cultura e sulla società rispetto a un’evoluzione soventemente sconfortante?

Caproni, consapevole del male insito nell’esistere e anche di quello operato dagli essere umani, non era sostenuto da una fede religiosa, dunque il suo sguardo sulla realtà era privo di un conforto e di una speranza di risarcimento in alcun aldilà. Fece comunque la sua parte nel mondo, contribuendo come poteva secondo i suoi valori (il suo contributo alla Resistenza fu quello di riaprire la scuola per i figli dei contadini, quello alla società fu di curare le nuove generazioni con il suo lavoro di maestro), ma con il disincanto di chi appunto non si aspetta un senso ultraterreno al vivere, né di poter attribuire un senso alla vita terrena. Per dirla con le belle parole di Calvino, forse si dedicò a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».


La natia Livorno, gli anni Trenta a Genova, la seconda metà della vita vissuta a Roma. Qual è stato l’apporto dei luoghi nella formazione di Giorgio Caproni?

Per rispondere nel modo più adeguato lascio la parola allo stesso Caproni, citandone una lettera inedita del 1979 – e parzialmente pubblicata su «la Repubblica» del 6/10/2002 – scritta ad Attilio Bertolucci in occasione della pubblicazione, da parte di quest’ultimo, di Viaggio d’inverno
«La tua poesia, come una terra, come un’aria, come un paese antico e sempre nuovo della terra, non si legge, non è fatta di parole, si cammina, si respira, si guarda, si tocca, come una pietra della campagna, come una cupola della città o una ragazza o un bosco troppo profondo (troppo tremendamente vero […]) per poterlo “ridire”, perché si possa dire il perché di tanta naturale e mozione e verità. È come se dovessi dirti perché mi piace un albero o una marina o il pensiero di un antico saggio […]».
Credo che altrettanto Caproni avrebbe potuto dire della sua poesia, nella quale il paesaggio – e non solo le sue «città del cuore» (Genova e Livorno, a cui aggiungerei il borgo di Loco in cui ha scelto di essere sepolto) e la «necessaria» Roma, ma il mare, i paesi dell’entroterra ligure, i boschi…  – entra sempre, come dato terreno in cui cercare ancoraggio al reale anche quando è in realtà metaforico (come le lande in cui si svolge la caccia alla fantomatica Bestia delle sue ultime produzioni). Lo sguardo di Caproni si sofferma sulla realtà e la appunta nei suoi versi, in modo più spiccatamente sensoriale nella sua prima produzione, ma comunque anche – pur se trasfigurata – nelle ultime raccolte. La conoscenza diretta, di impatto sensoriale, della vita, è stata fondamentale per tessere i suoi versi e non a caso, nel suo lessico, il campo semantico della percezione della realtà attraverso la vista è ampiamente rappresentato, con il ricorrere spesso ai verbi guardare e vedere, al vocabolo occhi e ai colori.


Lei reputa che chiunque, anche uno studente italiano, attingendo dal denso vocabolario caproniano, possa intraprendere e ampliare la sua conoscenza della lingua italiana. Ebbene, qual è lo specifico linguistico di Giorgio Caproni?

Caproni, soprattutto dopo il «primo tempo» della sua produzione poetica, ha indagato in particolare i temi del lutto, della negatività, del male e dunque ha sviluppato tutto un linguaggio – in termini di vocabolario e metafore – per esprimerli. In certe sue poesie si assiste a un’evidente complicazione sintattica – e sono questi i temi proponibili a studenti madrelingua, assai adatti per chi desidera approfondire questa tematica, per verificare quanto la creatività di un poeta possa non discostarsi dal linguaggio quotidiano (per quanto riguarda sia il lessico, sia la costruzione dei periodi). Per quanto riguarda invece l’opportunità di usare testi di Caproni, opportunamente selezionati e ‘guidati’, agli studenti stranieri, soprattutto a questo argomento è dedicato il terzo capitolo del mio più recente libro, dove ho indicato alcuni esempi di suoi testi poetici utilizzabili per una specifica didattica rivolta a chi vuole imparare l’italiano (e conoscere l’Italia), non essendo questa la sua lingua madre.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Non credo che l’attuale momento sia molto diverso dai precedenti per quanto riguarda la presenza di scrittrici intente a rinnovare la tradizione quando questa includeva una visione emarginata delle donne. All’inizio del Novecento Sibilla Aleramo, scrivendo Una donna,aveva rivendicato alla moglie protagonista il diritto di sottrarsi alle sopraffazioni del marito, ma c’erano anche autrici – esattamente come c’erano autori – che scrivevano (oggi come allora) soprattutto per raggiungere il successo di vendita dei loro romanzi, magari assecondando i comportamenti sostenuti anche con violenza dal fascismo oppure, in tempi a noi più vicini, strizzando l’occhio al mercato o compiacendo il pubblico nei suoi temi preferiti. Per affrontare l’argomento in termini generali, ma facendo riferimento a esempi concreti, vorrei portare l’attenzione sul Premio letterario nazionale per la donna scrittrice, tenutosi a Rapallo per oltre trent’anni (precisamente dal 1983 al 2021; ora ne è stata varata una nuova versione piuttosto lontana da quella originale): questa manifestazione ha scoperto o valorizzato talenti indiscutibili quali, per citarne estemporaneamente solo alcuni, Edith Bruck, Paola Capriolo, Laura Mancinelli, Paola Mastrocola, Margaret Mazzantini, Sara Rattaro, Susanna Tamaro; facendo riferimento a questa ‘vetrina’, certamente di qualità e riferita al tempo presente, mi pare di poter affermare che generalmente le scrittrici sono orientate a trattare, nelle più svariate declinazioni, tematiche suggerite dalla vita familiare – e del resto uno dei primi romanzi femminili di successo fu nel 1963 Lessico familiare di Natalia Ginzburg – con particolare attenzione per le difficoltà delle figlie nell’età adolescenziale – e anche su questo argomento era già uscito nel 1963 l’importante romanzo L’età del malessere di Dacia Maraini. All’interno di questo ‘serbatoio’, le scrittrici hanno poi certamente affrontato altri argomenti, aperti verso altre problematiche come, ad esempio, l’emigrazione, trattato con grande efficacia ad esempio da Laura Pariani in Quando Dio ballava il tango (2002) e da Melania Mazzucco in Vita (2003) dove ancora protagoniste sono ora le «vedove bianche», ora i bambini vittime di una saga familiare.


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

Come già sostenuto, sin dalla fine dell’Ottocento – e tutt’oggi – sono esistite ed esistono scrittrici che svolgono un ruolo importante per la rivendicazione di un ruolo femminile non subalterno. Per fare un esempio, tratto dalla mia esperienza personale, nel 2017 ho curato la ristampa del romanzo Sissignora, scritto nel 1940 da Flavia Steno: è la storia di un’orfana quindicenne affidata dagli zii alle suore che, dopo aver fatto i propri interessi, le procurano un lavoro come ‘servetta’ presso famiglie che richiedono da lei la totale sottomissione in cambio di paghe miserevoli. Con questo romanzo, pubblicato in tempi di maschilismo di stato, Flavia Steno aveva dunque compiuto una denuncia esplicita (e l’autrice non manca di osservare la mancanza di solidarietà tra le donne stesse) non diversa da quelle che anni prima avevano svolto Grazia Deledda e Ada Negri e che proseguiranno la già ricordata Dacia Maraini ed Elsa Morante. Questo è il fil rouge più resistente e significativo che accomuna molte scrittrici italiane.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode ed a qualsivoglia ambito del gusto. Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama letterario italiano e internazionale? Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Come in tutti i tempi, anche oggi la letteratura può avere una funzione didascalica anche se quella prevalente è piuttosto orientata verso l’evasione. Esiste però attualmente il forte pericolo che molti romanzi che affrontano temi difficili lo facciano perché questi sono ‘di moda’ e dunque non aiutano ad affrontare certi spinosi problemi perché danno l’impressione di essere scritti ‘a tavolino’, come una specie di compito, con poca originalità e partecipazione e con l’attesa di un buon successo di vendita. È il caso appunto della questione della libertà femminile, ampiamente trattata ma spesso attraverso luoghi comuni o trame piuttosto scontate che spesso incidono poco o nulla sul pensiero di chi legge, probabilmente perché non sempre chi scrive un romanzo possiede la creatività necessaria per coinvolgere attivamente il lettore, dando vita a personaggi memorabili, che ‘buchino’ la pagina così come di una grande attrice si dice che ‘buca lo schermo’, o con uno stile e una scrittura convincenti e artisticamente notevoli e originali.


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Posso rispondere certamente «No» a questa domanda. Ad esempio, come autrice di saggi e libri specializzati nella didattica dell’italiano a stranieri, ho collaborato sia con editori sia con editrici, trovando in entrambi i casi apprezzamento per il mio lavoro, incoraggiamento e collaborazione. In generale posso affermare che in ogni occasione, nella mia vita professionale, mi sono sempre comportata – fin dal primo incontro con i miei interlocutori – con correttezza e gentilezza non meno che con risoluta fermezza e posso affermare di non aver mai subito ostacoli dovuti a discriminazione di genere. Al di là di abusi e situazioni deprecabili che ancora esistono, credo sinceramente che, almeno in parte, molte cose siano cambiate in questi ultimi cinquant’anni e che ci si possa rapportare tra generi diversi con lealtà e in modo paritario, arricchendo la società e il mondo culturale con l’apporto (e la rivendicazione, per quanto mi riguarda) della propria differenza. So anche bene però che molte donne non possono affermare altrettanto, per aver vissuto situazioni pesanti fino alla violenza (minacciata o esplicita) o comunque condizionanti, ma onestamente nel mio percorso professionale – che pure è stato tutt’altro che facile – la «sperequazione di genere» mi è stata risparmiata.








A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 12, dicembre 2022, anno XII)