«Entropia, Utopia, Distopia». A Timisoara, la pittura di Marco Gradi

Lo scorso 23 aprile si è inaugurata presso la Galeria Primariei, Galleria del Comune di Timisoara, la mostra delle opere dell’artista Marco Gradi, dal titolo Entropia, Utopia, Distopia, nell'ambito degli eventi culturali organizzati con il patrocinio del Consolato onorario d’Italia a Timisoara, della Camera di Commercio Italiana per la Romania e della sezione territoriale Timis di Confindustria, nonché con il sostegno del Municipio di Timisoara. Qui l’intervista all’artista.


Marco Gradi, mantovano di nascita, che attualmente vive sul Lago di Garda, inizia la sua carriera già nella seconda metà degli anni ’70; vuole parlarci, Marco, dell’importanza di quegli anni a cui risalgono i suoi esordi?
    

Il Buio oltre la scena, questo era il titolo della mia prima mostra, siamo nel 1974, poi proprio in quegli anni inizia l’avventura a Bologna, città in cui si avverte l’effervescenza del fermento culturale che la fa diventare un vero e dinamico laboratorio internazionale delle arti; nasce il DAMS e l’Art First.

In quella temperie storica, quando a Bologna confluiscono personalità quali Eco, Maldonado, Arnheim nonché artisti del Calibro di Marina Abramovic, Max Bill, Louis Cane, qual è l’aria che si respira? 

Bologna è un vero crocevia in cui i linguaggi, in una moltitudine di espressioni, si incontrano. Io ero comunque un pittore e sono rimasto tale, un pittore, e la pittura è la mia lingua, lo è sempre stata. Ho iniziato con la sperimentazione analitica sulle tracce degli elementi «primi» che compongono «l’intorno a noi», procedendo per giungere ad  «azzeramenti» assoluti sulla tela: Bianco su Bianco in forma di «tautologia».

Quali sono stati i suoi riferimenti culturali?

I miei riferimenti culturali erano i «Support Surface» francesi e la «Pittura Oggetto». Il risultato era, in opposizione alla «rappresentazione», una Pittura dal carattere spiccatamente autoriflessivo, da potersi intendere dunque come una «presentazione». Dipingere non crea più uno spazio illusorio o la finzione della realtà, ma tutto si rovescia nella realtà della finzione, dando adito addirittura all’ipotesi di una nuova oggettività.

Quali le tecniche, gli strumenti, i supporti, i materiali?

Ho utilizzato anche materiali extrapittorici, come ad esempio graffe, nastri adesivi, carte veline e quant’altro, cercando in essi anche una valenza compositiva.  Ricordo la mostra allestita nel 1980 al Palazzo D’Accorsio di Bologna, dal titolo Accursia, curata da Concetto Pozzati, in cui con una installazione al soffitto presentavo L’Azzurro del cielo e poi ancora a Ferrara, in una mostra di mie opere, intitolata Rapido Fine, in cui provocavo un allagamento con Olio Combustibile; usando inoltre àncore di imbarcazioni, distribuite e sparse negli  spazi espositivi, creavo l’idea di un approdo mancato e in quel caso l’olio combustibile aveva un ruolo preciso, era funzionale, cioè alla creazione di un Mare senz’acqua, di un fondo marino nero, visibilmente NON vero.  

Quanto è importante lo studio nelle sue opere e quanta parte ha la casualità? Quanto le escursioni emotive, interiori, possono renderla imprevedibile nelle sue creazioni?

Ecco, proprio da esperienze del tipo che ho descritto nasce nel mio lavoro l’idea di una deriva immaginativa: così la casualità, l’incidente, l’imprevisto prendono forma. Di recente a Basilea ho creato e fatto creare al pubblico inconsapevole le Tracce Ritratte, cosicché il pubblico stesso, da «flâneur», camminando, appunto, sul verso dei miei dipinti ancora freschi ha contribuito alla creazione. L’idea che ho voluto esprimere è che la pittura contiene sempre il seme di una o più tracce casuali, sebbene l’artista, con ostinazione, provi sempre ad esserne causa consapevole. Mi chiedo se sia questa la natura della pittura, uno sguardo estremo, un blitz della percezione trai i segni, un disseppellimento al crepuscolo per agognare una nuova luce. 

Quale la ricerca a cui si dedica adesso?

A Timisoara  mi è piaciuto proporre alcune opere che definirei piccole impronte degli umori, dei segni. In queste opere ho cercato suggestioni che mi riportassero all’idea del «nero d’Inferno» oppure all’idea delle «origini del fuoco e del disegno». Insomma, il nucleo centrale dell’idea comune a tutte le opere vuole essere una pura dichiarazione di Entropia, che si dipana e si racconta dalla notte delle Grotte di Lescaux ai giorni nostri, di Utopia, come forma di seduzione della mente e da ultimo di Distopia, suggerimento di qualche forma di salvezza dopo il naufragio?!  



 

 

 

 


Intervista realizzata da Gloria Gravina
(n. 5, maggio 2019, anno IX)