«Poetry Vicenza»: il coraggio di rischiare e investire in cultura. Dialogo con Marco Fazzini È già il quarto anno che a Vicenza si svolge un festival che ha dell’incredibile, «Poetry Vicenza», dove poesia, musica e arti s’impregnano a vicenda e impregnano capillarmente la nobile città veneta. Per due mesi, ogni pomeriggio, in vari spazi della città, dai sontuosi palazzi palladiani al Teatro Olimpico, alle piazze, ai teatri, alle gallerie, ai caffè, ai licei, ai laboratori delle varie contrade e fino al Cantiere Barche, poeti di tutto il mondo convergono per far conoscere la loro poesia, per dialogare non solo fra loro e con il pubblico, ma pure con la musica di eccellenti complessi e solisti e con varie mostre di arte contemporanea. Ideatore, fautore e realizzatore di questo imponente evento culturale è Marco Fazzini, docente di lingua e letteratura inglese e postcoloniale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ma anche poeta, traduttore, editore, direttore artistico e quant’altro. Se la scelta di intrecciare poesia, musica, pittura, grafica deriva dalla sua squisita sensibilità artistica, la sua straordinaria apertura mentale e geografica ha le sue radici nella lunga esperienza internazionale, in Inghilterra, negli Stati Uniti e nel Sud Africa, dove ha assorbito poesia contemporanea, ha imparato a riconoscere quella autentica, quella che «serve»: perché esprime non solo la personalità del poeta ma anche del suo mondo e del suo tempo, delle domande e dei dubbi. Però lo straordinario del progetto «Poetry Vicenza» non risiede solo nei risultati, visibili e godibili, ossia nell’ampiezza e nella diversità degli eventi, nel coinvolgimento di tutta la città e nella signorile ospitalità; ma è da cercare a monte, nella capacità e nella fatica di interessare le autorità e le innumerevoli istituzioni della città, nell’ingente lavoro logistico, nell’immensa corrispondenza preparatoria con gli invitati dai vari continenti, nella realizzazione degli eccezionali volumi, programmi e album che accompagnano ogni edizione e che – cosa più unica che rara – sono pronti già all’inizio del Festival. Ho avuto il privilegio di partecipare all’edizione di quest’anno, svolta dal 21 marzo al 20 maggio 2018, in veste di traduttrice e presentatrice del poeta romeno Dinu Flămând, invitato a leggere le sue poesie nel palladiano Palazzo Chiericati. È così che ho scoperto (o credo di aver scoperto) l’universo di Marco Fazzini di cui vorrei che parlasse lui stesso. Sembra che tutto sia partito dalla sede dell’Associazione «TheArtsBox» – che ho avuto la fortuna di conoscere di persona. In che rapporto sta «TheArtsBox» con il Festival «Poetry Vicenza»? Com’è che questa iniziativa, apparentemente modesta, è arrivata a irrorare l’intera città? Fin dalla sua apertura l’associazione TheArtsBox ha promosso, in un modesto locale «tappezzato» di opere d’arte contemporanea, incontri con storici, romanzieri, saggisti e poeti da tutto il mondo, definendosi per statuto come uno spazio geografico e mentale, un luogo dove la letteratura e le altre arti s’incontrano in assoluta libertà creativa. Questi incontri hanno attirato un pubblico sempre più numeroso e il bisogno di moltiplicare gli spazi. Quando promuovemmo una forma embrionale di questo festival, nel 2014, non si voleva realizzare davvero un festival, ma una serie d’occasioni d’incontro con autori di varia estrazione, e comporre così una rassegna diluita nel tempo, a uso di tutti. È stato l’incoraggiamento d’un funzionario delle Gallerie d’Italia di Palazzo Leoni Montanari a convincerci a iniziare un festival vero e proprio. Si tratta d’un festival anomalo, lungo un paio di mesi. Non mi piacciono le grandi aggregazioni di tre/quattro giorni nei quali non si riesce a parlare con nessuno, e ascoltare ancor meno. In quel tipo di kermesse l’attenzione cala dopo qualche ora, e gli eventi paralleli ti fanno perdere ospiti preziosi. Poetry Vicenza permette a tutti di godersi tutti gli eventi, e permette ai poeti di godersi la città, e tutte le altre attività: le mostre collegate, altri ospiti, gli eventi collaterali. Tra l’altro, un festival di lunga durata ci permette anche di captare alcuni ospiti importanti che abbiamo a Ca’ Foscari, sia in occasione della rassegna che dirigo («Incroci di poesia contemporanea») sia del festival «Incroci di Civiltà», alla sua undicesima edizione, magari anche facendoli viaggiare all’incontrario, tra Vicenza e Venezia. Infatti, ho avuto occasione di conoscere di persona l’osmosi fra gli eventi culturali dell’Università di Ca’ Foscari di Venezia e il suo Festival vicentino. Ma il Festival è appoggiato da numerose altre istituzioni (il Comune di Vicenza, le Gallerie d’Italia di Banca Intesa Sanpaolo, musei e spazi espositivi vicentini ma anche licei, alberghi, ristoranti ecc.). Come funziona questa rete? La contaminazione e l’interazione tra le arti e i generi richiede una continua collaborazione con una vasta rete di istituzioni di vario tipo, esattamente come dici: gallerie d’arte, varie istituzioni pubbliche e private, culturali ma anche di tanti altri tipi, con altri spazi associativi e con altri festival cittadini, capaci di aiutarci nell’organizzazione e nella gestione del festival. Ed ecco che, con buoni esiti, già da quattro anni organizziamo «Poetry Vicenza», il festival di poesia contemporanea e musica, che ha portato una rappresentanza poetica dal mondo intero, per un totale, solo nel 2018, di ben 50 poeti in due mesi. Un solo esempio di come collaboriamo: visto che TheArtsBox ha operato da anni nel campo dell’arte ad acquarello, promuovendo alcune mostre internazionali, e raggiungendo di recente un accordo stabile con RI – Royal Institute of Painters in Water Colours (L’Istituto Reale degli Artisti ad Acquarello della Gran Bretagna), storica società di artisti britannici, in funzione già dai primi dell’Ottocento – riusciamo anche a coinvolgere grandi artisti a collaborare a Poetry Vicenza, in vario modo: pensando a delle mostre ispirate da testi poetici; ritraendo i poeti ospiti, come nel 2018 ha fatto l’americano Doug Lew; o anche semplicemente ispirandosi ad un tema sul quale alcuni testi insistono, come la guerra, la pace, la questione ambientale, ecc. Si tratta di una rete ampia, dove artisti, poeti e musicisti possono inventare un loro particolare percorso, e proporlo ad un pubblico attento. Quale è, per Lei, il senso e il valore di questo festival? Si tratta di divertirsi e far divertire istruendo. Nulla di più, e nulla di meno. Si fa tutto con il massimo della professionalità, ma alla base c’è il divertimento personale, e il completo disinteresse economico di tutti coloro che ci lavorano per mesi: quando si è convinti che questo non è e non sarà un business, riesci a veicolare emozioni a chi sta seduto e si gode una lettura, una performance di poesia e musica, uno spettacolo. Anche ai poeti non viene corrisposto alcun compenso, ma solo il rimborso delle spese. Quando questo è chiaro a tutti, siamo sulla stessa lunghezza d’onda: dobbiamo solo concentrarci su pensare, inventare e saper comunicare emozioni. Non desideriamo altro. Penso alle tante storie e letture commoventi che si sono alternate sui nostri palchi: la drammaticità e l’intensità della storia del sudafricano Roger Lucey; la poeticità del canto e della poesia di Gerda Stevenson; la creatività malinconica ed esistenziale di Eric Andersen nei suoi lavori su Byron; il tributo alle canzoni di Leonard Cohen; le finestre sulle dittature del Nicaragua, del Kenia, del Cile e del Portogallo con le voci di Gioconda Belli, Abdilatif Abdallah, Raúl Zurita e Manuel Alegre; le grandi performance vocali di Giovanni Fontana e Lello Voce, ecc. La lista è lunga, ma vedere il pubblico commuoversi è per me la prova che abbiamo scelto giusto, e che gli interpreti sono sinceri e professionali in quello che fanno. Sono stata piacevolmente sorpresa nel constatare la ripetuta presenza della Romania al Festival (oltre quella recente di Dinu Flamand, anche di Marta Petreu). Come sceglie gli autori da invitare e gli artisti da esporre? Racconti qualcosa dei contatti che preparano il Festival. Da circa 13 anni conduco una rassegna di poesia contemporanea a Ca’ Foscari, per scopi solamente didattici, eppure il pubblico che ci segue non è solamente costituito da giovani studenti ma è più genericamente veneziano, visto che si è avuta la possibilità di ascoltare celebrità come Mark Strand, Durs Grunbein, Yves Bonnefoy, Jack Hirschman, Jacques Roubaud, ecc. Da 11 anni abbiamo a Venezia il festival Incroci di Civiltà, al quale collaborano in vario modo tutti i colleghi che a Ca’ Foscari si occupano di letteratura contemporanea, ma non solo quelli. Già nel 1995, aprii per un piccolo editore marchigiano una collana di poesia contemporanea, sviluppando contatti e relazioni con traduttori, poeti, illustratori di copertine, artisti. Ho vissuto a lungo in Sud Africa, Scozia, Stati Uniti, Inghilterra. Poetry Vicenza è un po’ il compendio di tutta una serie di amicizie che nel tempo si sono rafforzate e concretizzate in un grande gioco di squadra. Tra l’altro, diverse istituzioni, come l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, varie ambasciate, consolati, atenei italiani e stranieri, e i programmi culturali ministeriali nazionali hanno capito l’importanza del nostro lavoro, sostenendoci a dovere. Non dimenticare, che da sempre i miei corsi insistono sulla poesia, e che qualche anno fa ho lanciato un corso specialistico su «Poesia e cantautorato», inserendo nel syllabus, ben prima del Nobel, le canzoni di Bob Dylan, quindi quelle di Leonard Cohen, Linton Kwesi Johnson, John Lennon, Mzwhake Mbuli, e di altri possibili ospiti che hanno letto per le mie affollate classi: Gerda Stevenson (Scozia), Roger Lucey (Sud Africa), Eric Andersen (USA), Chris Mann (Sud Africa), personaggi a cavallo tra la musica e la poesia, scrittori dall’alto senso ritmico e musicale. Ricordo con piacere che, oltre ai due poeti che lei menziona, a Venezia ha letto le poesie di Ana Blandiana, un’autrice che mi piacerebbe invitare di nuovo. Si tratta di scrittori di portata sovra-nazionale, grandi interpreti del contemporaneo, che in vario modo sono entrati in un circuito di contatti importanti. Poi, c’è il passaparola tra i vari protagonisti, la supervisione che opero in vari festival mondiali per scovare qualche novità – solo nel 2017 ho viaggiato in Nicaragua, Perù, Francia, Spagna, Macedonia, Lituania, Croazia ecc. – e la mia attività di ricerca che, com’è ovvio, non si ferma mai, insistendo come sempre su alcune zone «post-coloniali» a me care: Sud Africa, Scozia, Canada, Australia, Irlanda, ecc. Esiste anche un appoggio da parte degli abitanti? Nell’edizione di questa primavera avete ospitato, oltre ai 26 poeti stranieri e ai 24 poeti italiani, agli attori, ai musicisti, e ai poeti-cantautori – ossia creatori d’arte – anche diffusori d’arte (se così si può dire), cioè critici letterari, editori e traduttori (il mio caso). Perché questa attenzione, per esempio, ai traduttori? Un festival di questo tipo sarebbe impensabile senza la collaborazione dei traduttori, vero motore di tutte le iniziative, sia di quelle in cui il traduttore legge personalmente le sue traduzioni, sia di quelle in cui le «cede» agli attori che le fanno vivere con voce altra. Molte volte i traduttori sono anche critici letterari, insegnanti universitari, colleghi da varie sedi universitarie, amici coi quali ho condiviso, negli ultimi 30 anni, iniziative editoriali e pubbliche di vario tipo. Mi fido di chi da anni pratica l’arte della poesia e lo fa, in vario modo, con grande passione. È la strada migliore attraverso la quale ci si può assicurare un’ottima qualità delle traduzioni, e la certezza di poter offrire un evento pubblico di sicuro impatto. Penso, per esempio, al magnifico recital di poesia e canzone dell’islandese Marteinn Sindri, vera rivelazione e giovane talento dal nord; o, anche, all’haitiano Dalembert, da me incontrato in Nicaragua nel 2017; o all’algerino Tengour, o al romeno Flamand: questi ultimi li avevo ascoltati in originale a Struga, e ne avevo percepito la grandezza, ancora prima di leggere le traduzioni italiane. Ci si deve fidare del proprio fiuto, ma anche affidarsi alla perizia di colleghi e amici traduttori: sta qui la grandezza, e anche la sorpresa dei nostri eventi. In quest’ultima edizione avete organizzato in due spazi prestigiosi della città (la Loggia del Capitaniato e il Giardino del Tempio di Santa Corona) la fiera dei «libri invisibili». Che si nasconde sotto questa misteriosa espressione? Il primario intento è stato quello di rispondere alla domanda: qual è, se ce n’è, il mercato della poesia oggi? E, ancora: qual è la visibilità e la diffusione della poesia, e secondo quali canali riesce a raggiungere i suoi lettori se viene a mancare la grande distribuzione nelle librerie di massa? Nel Festival la poesia viene generalmente abbinata a concerti di jazz. Che sintonia trova in queste due forme di arte? La poesia, si sa, nasce con la musica, si permea di musica, vive grazie alla memoria musicale di lunghe strofe poetiche e poemi narrativi, canzoni, sonetti ballate e madrigali che poeti, giullari, musici, saltimbanchi, e cantori semi-ufficiali di laudi (autori «pop») hanno saputo far circolare, secondo diverse modalità e periodizzazioni, per secoli in tutta Europa. E non solo in Europa, ovviamente: basti pensare al ruolo dei griot delle corti dell’Africa occidentale. In Italia, il rapporto tra la poesia e la musica inizia in modo sostanziale sin da Petrarca che inviava ad amici ‘cantori’ non solo i testi concepiti nelle forme ‘per musica’ (madrigali, ballate), ma anche quelle dei suoi sonetti, perché venissero musicati, o meglio eseguiti accompagnandoli ad una melodia. È Zumthor a sottolineare una continuità, sin dai primordi aedici, della presenza della voce che mira dritta alle attualizzazioni contemporanee della lettura pubblica, della «performance poetry», e del recente fenomeno della «spoken poetry», come eventi fruibili dalle masse e pensati per le masse, momenti «necessari» di aggregazione, protesta, momenti anche elegiaci di partecipazione emotiva. Non che la poetica debba per forza di cose sposarsi con la politica o con la musica rock, jazz o di protesta, ma la musicalità è un fatto irrinunciabile di ogni poeta, e in quanto tale si può sviluppare in una varietà di forme e attualizzazioni. La creazione e la pubblicazione dei volumi dedicati alle singole edizioni richiedono una creatività e un lavoro non indifferente. Come e quando riesce a realizzarli? Quando passammo dalla fase, per così dire, «casalinga» del festival Poetry Vicenza, nel 2014, a quella che cominciò a snodarsi dentro i palazzi storici e palladiani di tutto il centro, dissi ai miei sostenitori che un libro antologico sarebbe stato strategico sia per dare il benvenuto ai nostri ospiti sia per tutte le strategie di diffusione e comunicazione che ne sarebbero seguite all’estero per il festival stesso. Oggi, tanti pensano che i libri digitali, che i «social» e che i «download» dalla rete possano ammazzare il libro cartaceo. Non la penso allo stesso modo: ho sempre amato i libri, i materiali pittorici e di design per le copertine, l’odore della carta e dell’inchiostro. In passato, ho anche lavorato su alcune collane pregiate di poesia per piccoli editori, come la Stamperia dell’Arancio e le Edizioni del Bradipo, grazie ai quali si sono realizzati libri speciali per Norman MacCaig, Philip Larkin, Douglas Dunn, Yves Bonnefoy, Eugénio De Andrade, Geoffrey Hill, Charles Tomlinson, Manuel Alegre, ecc. Sto solo tenendo fede a ciò che amo. Lo so che realizzare un volume di quasi 300 pagine è impegnativo, e anche costoso, e che il lavoro deve essere fatto in due mesi, proprio prima dell’inizio di Poetry Vicenza, rischiando di fare pasticci; eppure, se si osserva la qualità della carta, delle foto, e dell’impaginazione, non penso sia uno di quei volumi che si butta in un cestino con facilità. Un festival si esaurisce in due mesi, ma i libri restano: cerco di lasciare memoria del nostro lavoro in un modo che qualitativamente renda giustizia alla bravura degli invitati. Sfogliando gli splendidi volumi del «Poetry Vicenza» si osserva facilmente che il festival è cresciuto da un anno all’altro: nel numero dei partecipanti e dei paesi, nella tipologia degli eventi, nei luoghi in cui si svolge. Quale è stato il motore di tale crescita e fin dove vi proponete di arrivare? Confesso che l’edizione del 2018 è stata un po’ sovra-tarata rispetto alle forze in campo, e alle risorse. Ma sentivo, anche, che si era alla fine d’un ciclo, conclusosi naturalmente con il congedo della vecchia Amministrazione Comunale. Questa, assieme alle Gallerie d’Italia di Palazzo Leoni Montanari, al Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati di Ca’ Foscari e al Festival Jazz di Vicenza, ha dato un grosso contributo all’aspetto formale del tutto: Vicenza è il suo Teatro Olimpico, la sua Basilica Palladiana, le piazzette e gli scorci rinascimentali che spesso usiamo, il profumo dei Tiepolo e dell’arte veneta in generale dentro chiese e ville. Questo è, indubitabilmente, uno dei segreti del successo del nostro festival. Mi aspetto che la nuova Amministrazione Comunale faccia tesoro di questo nostro lavoro sulla poesia, e lo appoggi parimenti. D’altro canto, il festival è cresciuto per un serio e diretto coinvolgimento non solo di altre 10 associazioni culturali, ma anche di 4 istituti di istruzione superiore, perché un festival cittadino deve porsi la domanda se e come riesca a coinvolgere le nuove generazioni alla poesia. Sarebbe sterile se i giovani non contribuissero, e non imparassero nulla da tutti questi ospiti provenienti da tutto il mondo. Non è aspetto scontato, ma negli ultimi due anni sia le scuole sia le altre associazioni culturali sono riuscite a far raddoppiare gli eventi, magari coinvolgendo i poeti in doppi o tripli impegni che hanno regalato soddisfazioni sia a chi recita sia a chi fruisce della poesia. Mi aspetto di poter coinvolgere la Croce Rossa, alcuni istituti penitenziari, e magari anche il Festival Biblico, i cui eventi non sono troppo distanti dalla nostra programmazione. Mi pare che un festival di questo tipo offra un nuovo polmone alla città. Secondo Lei un tale fenomeno dipende dalle tradizioni culturali del posto? Potrebbe essere questa una ricetta esportabile per altre città italiane o straniere? Ogni città italiana (e probabilmente anche molte città straniere) può e dovrebbe proporre cultura, ad alto livello. Lo possiamo fare, perché da nessuna parte manca humus artistico, architettonico, e poetico per una ricetta simile. Se non si verifica, è solo perché non si vuol farlo, o perché non si ha il coraggio (o la competenza?) di rischiare e investire in cultura. Ripenso a ciò che un nostro ministro, con poca perspicacia e poco acume, affermò in pubblico anni fa per giustificare un basso investimento nella cultura: «Con la cultura non si mangia». A guardar bene la situazione, oggi, in Italia, l’unica macchina economica che funziona davvero, dopo la crisi, è quella turistico-culturale. A Vicenza, è vero, abbiamo già radicate varie realtà uniche: le settimane musicali all’Olimpico, la rassegna di Teatro Classico, gli omaggi a Palladio di Schiff, il Festival Biblico, il Festival Jazz, Vicenza in Lirica, il Festival degli Stati della Mente, Illustri, ecc. La riapertura della Basilica Palladiana, col suo caffè in terrazza e le grandi mostre, la nuova ala contemporanea del Museo di Palazzo Chiericati, il Museo Palladio e le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari aggiungono tesori imperdibili per chiunque visiti la città, magari anche solo per due giorni. Da parte mia, ho semplicemente tentato di sintetizzare e proporre i miei interessi nell’arte, nella poesia e nella musica, ma vedo che altre città si sono mosse in modo simile, Genova in primis, forse una delle prime serie aperture in Italia nei confronti della poesia performativa, della canzone, del cantautorato. Eppure, per incrementare il suo pubblico e soddisfare le aspettative (forse: politiche?) tanti hanno puntato spesso su nomi già molto noti, lasciando da parte tutto l’aspetto della ricerca dei nuovi talenti, che costa non poco lavoro, e comunque non ti fa finire in prima pagina. Una società basata sull’immagine, e sulla risonanza delle notizie eclatanti, ti spinge verso quel tipo di scelte roboanti: sembra che non si possa fare un festival se non si invitano i grandi personaggi della televisione, dello spettacolo, i pluripremiati in premi per la maggior parte pilotati, ecc. La poesia deve muoversi per altri canali, secondo altre logiche. Chi organizza eventi di poesia deve avere l’umiltà di rimanere in una nicchia, ma una nicchia onesta e rispettosa della dignità e della profondità del pensiero di intellettuali seri, animali ormai un po’ rari in tempi odierni. Non tutto è svendibile, o mercificabile secondo i dettami del mercato. Questo dobbiamo insegnare alle giovani generazioni, e sono contento quando molti dei poeti invitati a «Poetry Vicenza» dicono proprio questo, o direttamente o indirettamente attraverso i loro testi: si ha successo nel lavoro – qualunque esso sia – se si sa investire la giusta energia e il giusto entusiasmo in ciò che si fa, e in ciò in cui si crede. Se mai «Poetry Vicenza» diventerà una realtà «maggiorenne» in città, mi piacerebbe riuscisse a insegnare questi semplici principi d’ogni fare artistico e poetico: non conta altro, se non l’onestà, la tenacia, e una scuola giusta con i maestri giusti. Sono questi maestri giusti che vorremmo far frequentare ai giovani quando a Vicenza arrivano, catapultati dagli spazi di tutto il mondo, i nostri grandi poeti. È vero: chi organizza eventi di poesia deve avere umiltà, deve avere dei principi e una visione portatrice di speranza. Ma, credo io, prima di tutto deve avere un’anima grande e una mente operosa che creda, voglia e faccia. Insomma, avere un Marco Fazzini. Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian (settembre 2018, anno VIII) |