Riscoprire Madame Vitti. In dialogo con Marco Consentino e Domenico Dodaro

Madame Vitti (Sellerio Editore, Palermo, 2022), di Marco Consentino e Domenico Dodaro, riscopre una storia vera e dimenticata in un romanzo dalla scrittura fortemente visiva. È il racconto di una donna italiana, Maria Vitti, nata nel 1872, che dalla Ciociaria emigra a Parigi alla fine dell’Ottocento e, nel pieno dei fermenti della Belle Époque, fonda un’accademia di Belle arti per sole donne. La scuola aprì i battenti nel 1890 ed ebbe come primo insegnante Paul Gauguin. Era la porta per entrare alla pari e da libera nel mondo della creazione artistica, districandosi tra pregiudizi invincibili, l’istinto di sopraffazione del marito, un rapporto complicato con le due sorelle, il ricatto dei sentimenti.
Marco Consentino e Domenico Dodaro, insieme a Luigi Panella, sono autori anche del romanzo I fantasmi dell’Impero (Sellerio, 2017), accolto come un caso letterario, Premio Selezione Bancarella 2018.


Madame Vitti diventerà una figura leggendaria del femminismo ante litteram, pioniera delle pari opportunità in una società maschilista e profondamente conservatrice. Quale significato assume, oggi, il termine «femminismo»?

La società è ancora oggi, nei fatti se non nelle intenzioni, maschiocentrica: basta consultare le percentuali di occupazione delle posizioni apicali in enti e imprese, le differenze retributive a parità di posizioni lavorative, le difficoltà che tuttora una donna incontra nel bilanciamento tra famiglia e lavoro. Anche Maria Caira, alias Madame Vitti, riesce a cogliere il successo soltanto grazie a un carattere straordinario, alla sua personalissima capacità e alle energie enormi spese nel destreggiarsi tra regole scritte e soprattutto non scritte.
Ecco forse, il termine «femminismo» (ma forse dovremmo dire «non-maschilismo») oggi dovrebbe esprimere la spinta, l’impegno a permettere che ognuno – non importa l’identità di genere – realizzi i propri obiettivi esistenziali senza dover spendere energie aggirando o superando ostacoli diversi da quelli intrinseci all’obiettivo: per dire, se voglio fare l’astronauta e partire per la stazione spaziale, devo sbattere la testa sui libri di astrofisica e sottopormi ad allenamenti estenuanti, non combattere contro i pregiudizi di chi si domanda come farò con i bambini a casa.


Nel pieno dei fermenti della Belle Époque, Madame Vitti fondò a Parigi un’accademia di Belle arti per sole donne, che aprì i battenti nel 1890. Prima di lei c’era stata Elisabetta Sirani, che nel 1660 fondò a Roma l’Accademia del Disegno di sole donne, la prima scuola europea in assoluto per donne fuori da un convento. Quali sono, a vostro avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo per le donne sottrarsi all’invisibilità?

Lo abbiamo appena detto: anche dopo la Rivoluzione, la Francia (pur avanti rispetto ad altri sistemi economico-sociali) è un sistema profondamente conservatore: il Codice napoleonico, nel riconoscere la famiglia come tassello ineliminabile della costruzione sociale, non apporta nessun elemento di novità rispetto alla posizione della donna, la cui indispensabilità nell’equilibrio famigliare costituisce l’ostacolo principale all’acquisizione di ruoli e di responsabilità per così dire esterni. Anche nella Parigi della Belle Époque, per qualsiasi attività d’impresa la donna è dipendente economicamente e giuridicamente dal padre o dal marito. Ci vorrà il 1900 perché una donna, la Signora Chauvin cui facciamo un piccolo omaggio nel romanzo, sia ammessa a svolgere la professione di Avvocato.


Maria ideò la sua Accademia Vitti per sole allieve, dove – rivoluzione nella rivoluzione – si esponeva il nudo maschile. Perché il nudo maschile è più ‘grave’ del nudo femminile?

Il nudo maschile non era più grave ‘in sé’ di quello femminile; anzi, scoprire in pubblico parti del proprio corpo è stato con poche eccezioni nei secoli (e comunque lo era ai tempi di Maria) assai più complicato per le donne che per gli uomini. Era considerato inaccettabile che le donne, per lo più ragazze di buona famiglia e disposte a sborsare consistenti somme di denaro per la partecipazione a corsi di Belle arti, potessero essere ‘esposte’ alla visione delle nudità maschili.


La famiglia di Maria aveva lasciato Gallinaro, un paese vicino a Frosinone, seguendo un canale migratorio che univa quell’angolo di provincia dell’Italia meridionale alla Ville Lumière. Perché mai anche a Parigi era mal tollerato «l’occhio femminile»?

L’accesso all’arte come professione era riservato agli uomini. Le donne praticavano le arti, anche quelle figurative, certamente, ma non avevano accesso alle grandi commesse pubbliche. Ricollegandoci alla domanda precedente, questa è certamente una ulteriore ragione per la quale alle donne non veniva concesso lo studio del nudo maschile dal vivo: studio indispensabile per la realizzazione dei panneaux a tema mitologico o religioso, su cui si concentrava gran parte della pittura allegorica nelle decorazioni di edifici pubblici e religiosi, territorio appunto riservato ai maschi.


Mossa non soltanto da un istinto imprenditoriale straordinario per una ragazza immigrata e analfabeta, ma anche da uno spirito libero che precorse una svolta nel costume, Maria è di certo una donna emblematica: le sue passioni ardimentose, le scelte intrepide, la debolezza e l’impeto del suo essere ma anche l’inarrendevolezza, il genio e la forza di volontà che le ha connotate. Quale messaggio ci offre?

Sarebbe troppo facile – per quanto indubitabile – ricordare che chi non si arrende mai ha più probabilità di vincere rispetto a chi si lascia andare. Maria è un raro esempio di combattente. La verità però è che Maria, oltre a possedere doti non comuni, si portava addosso una fatica di sopravvivenza imparata da bambina, rispetto alla quale, a Parigi, non c’era niente che potesse sembrare impossibile; probabilmente neppure difficile. Maria scommette e vince anche perché è grata di essere viva. Non è molto diverso, oggi, per gli immigrati negli Stati Uniti. Le posizioni apicali di aziende e studi professionali non di rado sono occupate da gente nata altrove, con motivazioni fortissime.


Voi avete disegnato un profilo storico d’indubitabile fascino, gettando luce sulle ombre della condizione femminile. Ciò, evidentemente, ha richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo vi siete imposti di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?

Per la storia personale di Maria, abbiamo avuto la fortuna di avere accesso a un archivio di documenti e memorabilia famigliari raccolto negli anni da un bis-bisnipote di Madame Vitti: Cesare Erario, titolare della «Casa Museo Académie Vitti» aperta qualche anno fa nella casa di Atina dove la stessa Maria Caira aveva trascorso con la sorella Giacinta e il marito Cesare Vitti gli ultimi trent’anni della sua vita. La contestualizzazione dei personaggi è stata complessa, ma fortunatamente il materiale disponibile, su un periodo storico vicino come gli anni a cavallo degli ultimi due secoli, è sterminato e facilmente accessibile.
Una risorsa impagabile sono stati, da un lato, gli epistolari di alcuni dei nostri protagonisti, da cui abbiamo potuto trarre informazioni di primissima mano su dati di luogo e di tempo della loro presenza a Parigi e della loro quotidianità. Dall’altro lato, l’imprescindibile lavoro svolto dalla Bibliothèque Nationale de France, che ha digitalizzato e reso disponibile online, tra l’altro, tutta la stampa quotidiana francese dal 1789, ci ha consentito letteralmente di ‘vivere’, tra notizie, pubblicità, piccoli annunci, informazioni meteo, quegli anni, di cui abbiamo annotato le vicende più curiose e vicine alla vita delle nostre protagoniste.
E poi abbiamo cercato di raccontare quegli anni, quelle vicende, immaginando di essere accanto a Maria (o agli altri protagonisti dei singoli quadri di cui si compone il romanzo). Ancorarci alla realtà quotidiana ci ha consentito di lasciarci stupire, come se anche noi li vedessimo per la prima volta, da luoghi, fatti, circostanze che a ben vedere fanno parte di un immaginario generale.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Veniamo da due anni in cui la nostra ‘proiezione’ esterna è stata molto condizionata, e la lettura ha avuto una vera e propria rinascita. Siamo stati colpiti dall’apprendere, da più di uno dei librai grazie ai quali abbiamo presentato Madame Vitti al pubblico, che negli ultimi cinque anni il profilo anagrafico dei lettori si è straordinariamente spostato verso gli adolescenti, che leggono in gruppo, si confrontano, comprano tanti libri.
Forse stiamo assistendo a una funzione nuova della lettura: intorno a libri si creano comunità, i ragazzi si cercano e si riconoscono. Sarà un’estensione dei social network o uno sviluppo delle comunità virtuali, non lo sappiamo: quello che è certo è che solo attraverso la narrativa i «movimenti» sociali, politici, di pensiero, possono essere ricostruiti in modo meditato e prospettico. Il resto è cronaca, a volte pure fake


La lotta politica, l’adesione a una causa: i nostri tempi possono ospitare, a vostro avviso, siffatti propositi di cambiamento sociale attraverso il canale della Letteratura?

È una domanda enorme. Noi speriamo di sì. Anzi crediamo di sì.


Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukács afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi.  Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvedete di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?

Con buona pace di Lukács, il romanzo probabilmente non morirà come non morirà la borghesia: apparteniamo a una generazione che ha assistito e sta assistendo a cambiamenti continui e più veloci di un tempo, tutto si trasforma, anche le «classi sociali» con una fluidità che certamente i teorici del terzo e quarto stato non potevano nemmeno lontanamente immaginare. A noi sembra che il romanzo sia una forma in grado di adeguarsi a questa fluidità, pur mantenendo connotati tutto sommato costanti. Però non siamo critici né filosofi, ci piace raccontare storie, tanto più se vere, che speriamo piacciano ai nostri lettori.





A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)