Astronomia: dalla ricerca scientifica all'ammmirazione estetica. In dialogo con Magda Stavinschi

Magda Stavinschi è il più noto e il più rinomato astronomo romeno vivente. Laureata in matematica, specialità astronomia, presso l’Università di Bucarest, con un dottorato nelle stesse discipline, ricercatore onorifico e direttore (1990-2005) dell’Istituto Astronomico dell’Accademia Romena, ricercatore associato all’ IMCCE – (L'Institut de Mécanique Céleste et de Calcul des Ephémérides) di Parigi, membro, poi vicepresidente (1994-1998) e presidente (1998-2002) del Comitato Nazionale Romeno di Astronomia, membro dell’Unione Astronomica Internazionale UAI e primo romeno a presiedere alcune delle sue commissioni. È membro fondatore di più società astronomiche internazionali, presidente dell’Associazione «Eclisse 99» (ora «Astronomia 21»), membro  CIRET (Centre International de Recherches et Études Transdisciplinaires) e ISSR (International Society for Science and Religion) e rappresentante della Romania in vari programmi internazionali. Magda Stavinschi è inoltre autrice di innumerevoli articoli e relazioni di specialità e di presentazioni rivolte al grande pubblico. Attenta ai legami dell’astronomia con altri saperi, al dialogo interdisciplinare degli specialisti e al dialogo culturale con i nonspecialisti, la Stavinschi è anche Presidente dell’Istituto di Studi Transdisciplinari Scienza, Spiritualità, Società IT4S,  dell’Associazione per il Dialogo fra la Scienza e la Teologia, e co-direttore delle collane «Scienza e Religione» e «Scienza, Spiritulità, Società» della casa editrice Curtea Veche di Bucarest. Per i suoi contributi in tutti questi campi Magda Stavinschi ha ricevuto vari premi e onorificenze fra cui quella di Officier de l’Ordre National du Mérite della Repubblica Francese e il Diploma di eccellenza UNESCO.
Con Magda Stavinschi ho una vecchia e rispettosa amicizia, di cui ho approfittato quando, lavorando ai testi di Giordano Bruno, di Galilei e Campanella, avevo bisogno di una corretta traduzione della terminologia astronomica. Senza dimenticare tali contributi che volens nolens la legano all’Italia, il nostro dialogo si incentra sulla sua poliedrica attività scientifica e professionale, non priva di singolari curiosità.


Magda Stavinschi, come nasce, in base alla sua esperienza, l’aspirazione di diventare astronomo?

 
Forse la mia risposta la sorprenderà, ma l’astronomia non è stata per me un amore a prima vista. Mi sarebbe piaciuto fare l’architetto o l’archeologo o la professoressa. Ma grazie a un mio eccezionale professore di matematica, del liceo «I.L. Caragiale» di Bucarest, Cristofor Gaidargi, ho scelto questa scienza; ma dopo tre anni di facoltà ho sentito che non ne vedevo l’applicazione pratica; annegavo in teoria, solo e soltanto teoria. Allora ho scoperto che il campo ideale per applicare la matematica era l’astronomia. E le speranze si sono presto avverate, soprattutto perché ho avuto l’ispirazione di dedicarmi a un campo molto interessante, anche se non dei più spettacolari: il tempo, ossia lo studio della rotazione della Terra, o, in parole povere, l’ora esatta.   
Oggi esistono tanti modi per innamorarsi del cielo e non solo per ammirarlo ma anche per investigarlo: dai circoli o clubs di astronomia ai programmi dedicati agli amatori in internet. Ma la cosa più importante è la partecipazione sempre più numerosa degli allievi romeni alle olimpiadi di astronomia, con risultati impressionanti: decine di medaglie di bronzo, argento e oro, e ciò – cosa straordinaria – proprio quando l’astronomia non viene più insegnata nelle scuole romene. Questa sì che è passione! 

Gli astronomi fanno osservazioni, interpretano e a volte elaborano addirittura nuove teorie sull’universo, ma possono lavorare anche per rafforzare le strutture di ricerca, comunicare i risultati delle ricerche agli specialisti e diffonderli nel gran pubblico. Come sono presenti questi aspetti nella sua attività?

Oggi le scoperte astronomiche sembrano meno spettacolari di quelle di una volta: sono frutto del lavoro di équipe e la maggior parte risultano dalle osservazioni delle missioni spaziali. Ma ciò non vuol dire che molte di esse non siano affascinanti o non abbiano conseguenze imprevedibili. Prova ne è la partecipazione di più di 12000 membri dell’Unione Astronomica Internazionale – UAI – a un numero impressionante di convegni scientifici, dove si presentano le più recenti scoperte, poco accessibili, certamente, al gran pubblico. Dopo il 1989 ho avuto la fortuna di partecipare a sessioni o congressi su quasi tutti i meridiani, dall’Argentina o Brasile fino all’Australia. Ogni volta vi ho presentato le mie ricerche o quelle del mio gruppo di studio ma ho partecipato anche ai dibattiti sulle nuove scoperte nel mio campo specifico, l’astrometria.
La cosa interessante è venuta quando, a causa dell’eccellenza degli ultimi tipi di telescopi, terrestri o spaziali, mi sono chiesta se quelli vecchi siano ancora utili oppure stiano per diventare semplici oggetti museali. Il risultato delle mie investigazioni è stata la creazione di un gruppo di lavoro internazionale dedicato all’astronomia dei piccoli telescopi, gruppo che ho diretto dal 2000 al 2009.
Un’altra conseguenza della mia collaborazione con i membri UAI è stata la direzione della sua Commissione per l’Educazione (2006-2009), direi la più difficile di tutte a causa della partecipazione di tutti i paesi. Voglio dire che, mentre nelle altre commissioni partecipano pochi specialisti di pochi paesi, in questa tutti vogliono essere presenti perché tutti si interessano al dibattito delle più recenti metodologie di educazione per e tramite l’astronomia. In quell’attività di grande aiuto mi è stata anche la metodologia transdisciplinare assunta in quanto membro CIRET e presidente dell’Istituto di Studi Transdisciplinari Scienza, Spritualità, Società – IT4S.

Quali eventi cosmici cui ha assistito si sono rivelati più interessanti per la sua specialità e perché? E quali l’hanno commossa di più?

Se lo chiede a me, quello che mi impressiona di più anche ora è la scoperta dei pianeti extrasolari, terre alle quali non si osava neanche sognare prima. Ma ogni passo nella ricerca cosmica non smette di sorprendermi e di affascinarmi. Gli sforzi che si fanno in questo campo, umani e finanziari, sono immani, e molti forse credono che si tratti di una competizione tipo «chi è più bravo» o «chi sa di più». Il bisogno di mostrare fin dove la mente umana è capace di spingersi può essere, senz’altro, una delle spiegazioni dell’investigazione del cielo. Ma pochi si rendono conto quante applicazioni derivino da queste scoperte cosmiche per noi, esseri terrestri: dalle cose semplici cui siamo tanto abituati che ci dimentichiamo della loro provenienza (ricorderei solo l’ormai banale navigatore) fino al futuro dei prodotti farmaceutici, degli elementi chimici che sulla terra cominciano ad scarseggiare, alle soluzioni ai cambiamenti climatici ecc.

Di recente ha presentato alla fiera del libro «Gaudeamus» il suo volume dedicato alla personalità di Nicolae Donici, un astronomo romeno dimenticato. Mi congratulo con Lei per l’acribia con cui ha ricostruito la sua traiettoria, ma le chiedo: perché questo sforzo? Quanto può contare in questa scienza conoscere la vita e l’attività dei predecessori? La domanda può sembrare retorica, ma mi sono sempre chiesta perché a scuola (di ogni grado) nelle discipline letterarie si fa riferimento alla vita e all’esperienza dello scrittore, mentre mai a quelle degli scienziati nelle materie scientifiche, proprio quelle che si sviluppano passo dopo passo con il contributo di chi è venuto prima. 
      
Si riferisce alla storia della scienza? Ma questa, almeno da noi, è una vera Cenerentola. Quanti di noi conosciamo chi sono stati questi nostri predecessori senza i quali noi non saremmo dove siamo adesso? Questo è solo uno dei motivi per cui mi dedico alla loro memoria. Ma facendo questo ho scoperto man mano che la storia della scienza è anch’essa una ricerca scientifica (documentazione, ricerca nelle biblioteche, negli archivi, incontri internazionali, pubblicazioni) ma, oltre a questo, può essere anche un lavoro da detective. Almeno questo è successo a me e Donici è forse il miglior esempio: fino a qualche mese fa non sapevamo cose fondamentali su di lui. E le scoperte sono state eccezionali, ma di tutto questo parlo nel mio libro che non è solo la monografia di un astronomo diventato membro d’onore dell’Accademia Romena, un recordman nell’osservazione delle eclissi solari e membro fondatore dell’Unione Astronomica Internazionale, ma anche la storia della decifrazione di tanti enigmi che lo circondavano. Qualcuno, leggendo il libro, ha confessato di avere avuto l’impressione di leggere... un giallo!

Ha detto che le scoperte astronomiche portano a una migliore conoscenza del nostro pianeta. Ma ora si sa che in grande misura esse prospettano anche possibili alternative alla vita terrestre. Come stanno veramente le cose?

Suggerivo prima che gli immani finanziamenti per la conoscenza del cosmo non sono soldi sprecati: l’uomo deve conoscere ciò che si trova al di là della sua casa, deve capire come gli altri corpi celesti lo possano aiutare a sopravvivere su questo suo pianeta sempre più popoloso, ma anche dove potrà traslocare quando il suo pianeta non esisterà più. E Marte e la Luna (ma si andrà oltre) sono i primi che ci possono aiutare a conoscere meglio la Terra ma anche a mettere a prova la capacità umana di adattamento a condizioni di vita completamente altre.
Non è semplice vivere nell’ambiente della Luna o di Marte, ma ecco quanti volontari si sono già offerti a esperirlo nelle simulazioni recenti. L’adattamento è difficile ma vale la pena: e giorno verrà quanto si andrà a vivere là per un periodo più lungo. Perché solo così si potrà investigare direttamente il suolo, gli effetti dell’attrazione minore di quella terrestre (sulla Luna sei volte inferiore, su Marte quasi tre volte). Solo così ci si potrà avvicinare ad altri corpi del nostro sistema solare per constatare in che misura possono esserci utili. Dirà forse che questo lo potrebbe fare anche l’apparecchiatura spaziale: d’accordo, ma non si è ancora scoperto niente che possa sostituire completamente il cervello e la sensibilità dell’uomo. Certo la questione è più complessa, ma quello che, secondo me, va ritenuto sin da ora, è che tutte queste ricerche e tutti gli sperimenti vadano fatti!

L’astronomia si trova all’origine della grande svolta che ha segnato l’inizio della modernità. Oggi, con un’umanità ben abituata alle scoperte scientifiche, sarà ancora capace l’astronomia di determinare delle svolte nella conoscenza e nella mentalità?

L’astronomia ha compiuto una svolta con Copernico (ahimé! la Terra non era più «il centro» dell’universo), poi con Galilei (non a caso l’anno 2009, quadricentenario della prima osservazione fatta con uno strumento tecnico, il telescopio di Galileo, è stato dichiarato Anno Internazionale dell’Astronomia) e l’elenco può continuare.
Ma, vede, non si tratta di scoprire dei fenomeni, delle leggi o dei corpi celesti. Si tratta del fatto che l’astronomia ha cambiato il modo di pensare dell’umanità. E sì, continua a cambiarlo. Forse in maniera meno spettacolare, ma continua a farlo, a passi piccoli. Basta pensare che la teoria della relatività di Einstein ha compiuto appena un secolo, che a quei tempi non si parlava ancora di big-bang, che oggi sappiamo di pianeti che girano intorno ad altri soli. Così ci possiamo rendere conto che ogni novità astronomica ci obbliga a pensare diversamente, che decifrando i misteri dell’universo possiamo risolvere problemi essenziali del nostro vivere terrestre.

Non solo nelle epoche premoderne, ma anche in quella moderna, il cosmo è stato percepito non solo come qualcosa che va conosciuto ma anche come un possibile pericolo – mi riferisco al tema delle catastrofi cosmiche. Che sia questo l’inevitabile lascito del progresso dell’astronomia? Lo spavento?

Io credo che da sempre l’uomo ha realizzato quanto sia piccolo rispetto all’Universo. La paura delle comete, delle eclissi e di tanti altri fenomeni, per non parlare «della fine del mondo», è stata ricorrente e non direi che nell’ultimo secolo si sia amplificata, al contrario, è diminuita, ma non del tutto – e parlo della mentalità della gente e non del successo di pubblico e degli incassi dei film SF. Non Le dico di quante «fini» ho dovuto parlare io: dall’allineamento dei pianeti, all’apocalisse del 2000 (!)  ai vari cataclismi tanto mediatizzati.
Al contrario, le informazioni procurate dall’astronomia ci aiutano a capire questi fenomeni e l’incombenza di un pericolo cosmico. D’altronde è già in funzione una commissione internazionale che si occupa dei corpi celesti che si avvicinano alla Terra e ci sono delle équipes internazionali che studiano in che modo tali catastrofi possono essere evitate (deviare o far esplodere il corpo cosmico a una giusta distanza). D’altra parte sappiamo che a un certo momento il nostro pianeta morrà, quando la nostra stella, il Sole, consumerà tutto il suo combustibile, ossia, con approssimazione, fra 4,5 miliardi di anni. Ma fino allora il pericolo non viene dal cosmo, ma da noi uomini, benché io continui a sperare che l’uomo sarà sufficientemente saggio per non autodistruggersi. Ma chi sa?
Ma ci sarebbe un’altra causa di quello che chiama spavento cosmico: la credenza nell’astrologia, questa pseudoscienza che ci «predice» quello che succederà a noi in funzione degli astri. Se io tento di spiegare la relazione esistente fra gli uomini e gli astri non sono mai così convincente come un astrologo. Non voglio lanciarmi qui in una polemica su questo tema ma, dato che molti fra quelli che credono nell’astrologia sono anche persone religiose, ricorderei loro le parole del Deuteronomio (18: 10-14): «Non si trovi in mezzo a te [...] chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini [...]non così ti ha permesso il Signore tuo Dio».

A proposito di questa citazione: una parte importante della sua attività recente è dedicata al dialogo fra la scienza e la religione. Che cosa spera dal dialogo fra una conoscenza che suppone una verità eterna e certa, quella della religione, e una conoscenza consapevolmente incompleta e infinitamente provvisoria, come quella scientifica?

Ho ricevuto spesso domande su questo dialogo. Prima di tutto devo rammentare che io appartengo a una generazione che non ha avuto un’educazione religiosa e a un periodo storico in cui non era consigliabile tenere una Bibbia in casa. Mi ricordo che una volta mio padre ha dovuto spiegare a un suo collega che era venuto a casa nostra che gli era necessaria la Bibbia per capire le ragioni per cui si deve essere... atei (!). Non dimentichiamo che a quei tempi eravamo invitati a tenere conferenze per l’educazione «ateista-scientifica» (faccia attenzione all’ordine delle parole!). Alla fine di una di esse (dove noi non facevamo altro che divulgare la scienza), una ragazzina mi ha chiesto: «Se si scoprisse che c’è vita su un altro pianeta, essa avrà lo stesso Dio nostro?»
Tutto quello che ho detto prima prova che gli astronomi sono più coinvolti di molti altri scienziati nei problemi dell’Universo, nelle domande sul da dove esso viene e dove va, sul che cosa si trova «oltre» quello che conosciamo o conosceremo nel futuro. Questa è anche la ragione per cui molti astronomi, di varie religioni, partecipano a questo dialogo: basta enumerare alcuni di essi pubblicati nelle nostre collane «Scienza e Religione» e «Scienza, Spiritualità, Società»: Carl Sagan, Trinh Xuan Thuan sau Owen Gingerich.
Ma il fatto di dialogare, di ascoltarsi reciprocamente, di analizzare i propri argomenti dal punto di vista dell’altro, è in sé un grande successo. E siccome tale dialogo si interroga sui grandi misteri del mondo, non credo che richieda altre giustificazioni. Il dialogo fra gli scienziati e i rappresentanti delle varie religioni non può essere se non benefico per tutti: un teologo non può fare astrazione del mondo materiale in cui vive, e uno scienziato non può avere l’arroganza di sostenere che la mente umana sia capace di rispondere a tutte le domande. Non dimentichiamo il detto di Einstein: «La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca». C’è un equilibrio tra le due: quando la scienza mette l’uomo in pericolo di perdere la testa (basta pensare alla dinamite o alla bomba atomica) la religione può impedire il collasso dell’umanità. Questa è forse anche la spiegazione del fatto che la straordinaria evoluzione della scienza, invece di fermare le religioni, le rende, sembra, ancora più necessarie – e ciò si rispecchia nella recrudescenza del fenomeno religioso odierno. Non si può vivere solo di materia e per la materia. La fisica quantica non ha fatto altro che rendere più numerosi i fisici credenti.

Le propongo di concludere parlando del «bello». Ben si sa per quanto tempo (fino a Keplero) i pregiudizi estetici, cioè l’immagine di un cosmo oggettivamente bello, abbiano bloccato il progresso dell’astronomia. Oggi però pare che la scienza ci dica che la bellezza del cosmo è un dato tutto soggettivo, cioè esiste solo in quanto esiste l’occhio e l’orecchio che la percepiscono. Oggettivamente l’universo è nero e muto?

Prima di tutto vale osservare che il cosmo è accessibile anche ai ciechi. Ho avuto l’occasione di assistere alla visita di alcuni ciechi a un osservatorio astronomico: veniva loro presentato ciò che l’uomo di oggi conosce senza poter vedere. Secondo, le performances della tecnologia spaziale ci hanno regalato uno spettacolo dell’Universo che fino a poco fa era inimmaginabile. Chi guarda ora attraverso un semplice telescopio resta deluso perché non può vedere le immagini favolose offerte da un telescopio spaziale. Ma nessuno strumento può annullare l’emozione di un chiaro di luna, di una pioggia di stelle, del buio che cala in pieno giorno durante un’eclisse solare o lo spettacolo di una cometa.
Misuriamo le coordinate degli astri, studiamo la composizione chimica dei corpi celesti, compariamo le loro velocità, commentiamo le osservazioni, scopriamo nuove proprietà, nuovi elementi dell’universo, facciamo scienza. Ma, con sorpresa dei nonspecialisti, lo scienziato vive più intensamente di loro il fascino dell’Universo, un fascino che non viene per via dei suoi sensi ma che gli è svelato dalla tecnica. Ma oltre alla sua bellezza percettiva, l’universo ci parla, ci affascina, forse, anche per il mistero infinito che pare chiudere in sé, e questo fascino si esercita su ogni astronomo, come su ogni nonspecialista. Quanto più profondamente si studi il cielo tanto più si risente il fascino della sua insondabile profondità.
L’anno 2015 è stato dedicato alla Luce. Quanti segreti non cela essa ancora? Abbiamo cominciato a scoprire l’immensità dello spettro elettromagnetico solo due secoli fa quando si è indagata per la prima volta la radiazione infrarossa. Negli ultimi cinquanta anni sono stati scoperti tanti nuovi «colori», cosa che nell’astronomia ha segnato una rivoluzione; sono state scoperte stelle strane, pulsanti, galassie estremamente attive, una misteriosa radiazione di fondo ecc. Penetriamo in zone sempre più nascoste dell’Universo, la dove l’occhio non ha nemmeno sognato di arrivare... E allora possiamo veramente parlare del buio dell’universo, del suo silenzio? Non mi pare. Io credo solo che ogni nuova scoperta ci scioglierà un altro segreto ma ci metterà davanti altre migliaia che aspettano di essere indagati. E tale «gioco» continuerà «finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane». Intanto lasci stare il cosmo visto in internet, nelle fotografie e nelle riviste: si metta una volta a guardare in solitudine l’immensità del cielo stellato in una notte serena: si convincerà da sola della bellezza dell’universo.




Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 1, gennaio 2016, anno VI)