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Maddalena Fingerle: «La lingua è legata all’affetto, l’italiano è la lingua in cui mi sento a casa»
La sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, si apre all’edizione n. 76 del Premio, avviata con le segnalazioni iniziate lo scorso primo febbraio. A partire dal numero di marzo vi proponiamo una nuova serie di incontri con gli scrittori segnalati e i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Maddalena Fingerle, nata a Bolzano nel 1993, è segnalata per il romanzo Lingua madre (Italo Svevo Edizioni, 2021), che ha vinto la XXXIII edizione del Premio Calvino (nel 2020, quando ancora inedito), poi il Premio Fondazione Megamark, il Premio Città di Girifalco, il Premio Comisso under 35 e il Premio Flaiano under 35. Il libro è presentato da Raffaele Manica: «Lingua madre è riflessione sulla forza della lingua e romanzo di grande energia. La vicenda parte dalla città di nascita dell’autrice, una Bolzano odiata per la retorica del bilinguismo, per diventare figura dell’abbandono di una lingua, l’italiano, nella ricerca di un’altra lingua, incontaminata».
«Ci sono alcune persone che quando parlano mi sfamano. Non è una metafora, non è retorica: davvero a me passa la fame…» La lingua possiede una sua dimensione affettiva? Può tangere il luogo più recondito della nostra anima e colloquiare con il nostro inconscio?
Nel caso di Paolo certamente la lingua ha una dimensione affettiva, il binomio sporco/pulito su cui si basa la sua ossessione linguistica è di fatto emotivo. Ciò che lo fa sentire accettato e che percepisce come onesto e sincero è pulito, ciò che invece è ipocrita e violento è sporco. Nell’ultima parte del romanzo Paolo perde il controllo sulla lingua – e sulle lingue – ed è così in stretto contatto con la sua parte inconscia.
Anche per me la lingua è legata all’affetto, l’italiano è la lingua in cui mi sento a casa, è quella radiofonica delle voci romane che mi ricordano quella di mia nonna, è quella filosofica di mia madre, quella letteraria con cui sono cresciuta. Il tedesco invece è la lingua dell’età adulta, e dell’amore. Ma non sono divise, per nulla, si mescolano. È quando mi cade qualcosa o in momenti particolarmente emotivi che la voce mi esce italiana e non tedesca e nelle prime stesure il colloquio con l’inconscio è qualcosa che sento molto vicino al sogno.
«A Bolzano tutto ha due nomi, a volte anche tre: uno in tedesco, uno in italiano e a volte, quando si deve, se proprio si deve, anche in ladino. Questo è un problema perché le parole hanno un potere metamorfico sulle cose». Cosa non basta alla lingua per esprimere se stessi e il proprio immaginario, anche facendo riferimento al suo luogo natio?
Per il protagonista ciò che manca è una sicurezza linguistica e identitaria, ma anche affettiva. Non sentendosi a casa, in un luogo che percepisce come nemico e giudicante, storicamente complesso e violento, linguisticamente e culturalmente diviso, non riesce a essere se stesso. È solo la distanza dalla città natale e la leggerezza berlinese che gli permettono di esprimersi così com’è.
Paolo e Mira di Pienaglossa con la sua lingua monda e immacolata. Quanto la parola ha un potere balsamico e curativo?
La parola di Mira, nella prospettiva di Paolo, riesce a curare perché è sincera e pulita. In realtà, cambiando prospettiva, si tratta di un’ossessione capovolta, dal negativo al positivo, in cui la ragazza di cui è innamorato viene idealizzata a tal punto da affidarle un lavoro che solo e unicamente Paolo può essere in grado di svolgere. La parola – e tutto ciò che sta dietro alla parola – è in grado di ammalare e curare perché il protagonista le conferisce il potere di farlo.
Lingua madre: ci spiega il titolo del libro, che chiaramente richiama il termine «madrelingua»?
Per me era importante che ci fossero sia la lingua che la madre, perché sono i due nodi centrali della narrazione. Con la madre si apre e si chiude il romanzo, mentre la lingua è la grande ossessione del protagonista. Volevo che la lingua fosse anche madre, per Paolo, che nella madre vera ci vede solo l’anagramma merda.
Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukacs afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un ‘genere aperto’, destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme ‘ibride’. Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Le forme ibride ci sono sempre state, non credo sia una peculiarità odierna. Non saprei dire, in generale, quali tendenze di sviluppo ci siano nel genere romanzo, ma noto, in Italia, una particolare attenzione di una certa produzione letteraria giovane nei confronti di un linguaggio forte e di una voce marcata, una ricerca linguistica sperimentale e di precisione, che inventa una lingua impossibile, che ne crea una verosimile o che si basa sul dialetto rendendolo però comprensibile a livello nazionale. Sono elementi che mi affascinano molto, ma credo anche che la mia sia una percezione selettiva dettata dal gusto personale, per cui leggo volentieri romanzi che hanno queste caratteristiche e mi sembra quindi che ci sia una tendenza in questo senso.
La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?
Anche l’innovazione basata sulla tradizione mi pare un tema che caratterizza molte epoche, penso in particolare al Seicento, in cui sul dialogo con la tradizione si basa gran parte del suo «superamento». Giovan Battista Marino ne è un esempio perfetto: proprio attingendo a citazioni e riferimenti intertestuali della tradizione riesce a creare una poetica estremamente moderna e nuova. Che poi anche questa sia stata imitata porta a un movimento circolare. Non vedo una differenza, in questo senso, tra scrittrici e scrittori.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. Quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?
Ecco, Cărtărescu è ancora in una lista infinita di letture che vorrei iniziare, ma non saprei quando. Mi sa che dovrò farmi un calendario… e già che ci sono ne aggiungo qualche altra/o!
Foto della scrittrice: © Julia Mayer
A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 3, marzo 2022, anno XII)
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