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L’attualità di Benjamin Fondane. Parla Luca Orlandini
«Non dimentichiamo che i temi di Fondane – per rapportarci in maniera più stringente all’attualità italiana – sono il Dna su cui è nata una realtà editoriale come l’Adelphi alla fine degli anni sessanta; una realtà editoriale che darà spazio a quella cultura e quegli autori che proprio una certa cultura italiana aveva contribuito a relegare ai margini, a dimenticare o a pervertire con interpretazioni ideologiche, per non dire ʻantisetticheʼ». Così Luca Orlandini, classe 1971, curatore e traduttore di vari libri di Benjamin Fondane: Baudelaire e l'esperienza dell'abisso (Nino Aragno, Torino, novembre 2013), Falso Trattato d'estetica. Saggio sulla crisi del reale. (Mucchi Editore, Modena, novembre 2014), La coscienza infelice (Nino Aragno, Torino, in uscita a ottobre 2015); ha inoltre scritto un importante saggio critico su Fondane: L. Orlandini, La vita involontaria. In margine al Baudelaire e l'esperienza dell'abisso di B. Fondane (Nino Aragno, Torino, febbraio 2014), e un libretto di aforismi, pensieri, divagazioni sull'arte, la letteratura e la filosofia, intitolato Velleità della materia (Nino Aragno, Torino, in uscita nel 2015).
Partiamo con una domanda generale: chi è Benjamin Fondane? Può delinearcene un profilo esistenziale?
Benjamin Fondane è una figura affascinante e complessa nel panorama della cultura europea del primo Novecento. Uno splendido marginale – ancorché un marginale reattivo, occorre precisarlo. In un’intervista, Cioran lo definisce un «guerriero» e non un raisonneur (come sarà Šestov, in fondo, di cui Fondane sarà l’erede non tanto ideale quanto ispirato), uno «spirito avvincente, maestro nell’arte di animare le idee». Inoltre, del Baudelaire – l’ultimo libro di Fondane – Cioran affermerà che questa monografia fosse la cosa «più profonda mai scritta su l’autore delle Fleurs du Mal». Parliamo di un libro postumo, non finito, che avrebbe dovuto subire il taglio di un «buon numero di pagine». Come si sa, Fondane non ebbe mai la possibilità di mettervi mano, giacché fu deportato ad Auschwitz con la sorella Line, dove trovò la morte nell’ottobre del 1944.
Fondane era qualcuno – è semplicemente l’impressione che faceva sulle persone quando erano in sua presenza, «tutti sapevano che era qualcuno»: lo splendido esercizio d’ammirazione di Cioran, 6 rue Rollin, ne è una delle migliori testimonianze.
Era una personalità febbrile, polemica, che irritava non solo per la radicalità delle sue domande, ma anche per il suo stile metodologicamente disinvolto e la sua prosa lirica. Per natura e temperamento eguagliava e superava l’audacia di Šestov, «con la sua insolenza nel porre quelle domande da bambino sfacciato che hanno sempre avuto il potere di gettare i filosofi nel panico». Giacché in filosofia, questo era, e ancora è, qualcosa di più o meno inaccettabile, una lesa maestà alla rigorosa oggettività e impersonalità dell’habitus filosofico; anche per quello più soft, in fondo.
Qualcuno ha scritto su Fondane: «La sua voce infiammata, spesso ostile, mi sembrava fraterna», e altri: «adorava parlare, anche se era un vero solitario», o altri ancora lo descrivevano così: «alto e ardente… impetuoso, contradditorio e indisponente… vitale e brioso, ribelle, ruvido e aspro». Ci sono tutti gli ingredienti per esserne sedotti. Non dimentichiamo che anche Šestov, maestro di Fondane, sarà disprezzato da tutti i filosofi ufficiali; e, ciononostante, il filosofo russo avrà un’enorme influenza su molte personalità del Novecento, come G. Bataille, A. Camus, D. H. Lawrence, E. M. Cioran, J. Brodskij, C. Milosz, tra gli altri. I filosofi esistenziali avevano anche il grave difetto, agli occhi degli altri, di riportare l’ambito della radicalità del pensiero tragico non solo nel campo dell’arte ma anche in quello più generale della critica della cultura. E questo era decisamente uno scandalo. Tutto ciò era qualcosa di più o meno irricevibile, sia nel campo del religioso (per quanto riguarda Fondane, sulla possibilità del religioso o, meglio ancora, del «metafisico» – come accadeva per Giacomo Leopardi e le sue considerazione sul religioso – e non in quanto credente, giacché Fondane non «credeva» nel senso della fede… il suo era un ateismo non irreligioso, analogo a quello di Cioran o a quello del grande recanatese); sia nel campo del ripensamento della società e della cultura in generale. Soprattutto dopo la tragedia delle due Guerre Mondiali e le belve ideologiche del Novecento. La società, e in generale il mondo della cultura, non aspiravano altro che a iniettare una massiccia dose di Ragione umanista per ritornare all’ordine e riprendersi dai traumi delle guerre che avevano scosso la fiducia nei poteri di questa stessa ragione.
Fondane giunge alla filosofia attraverso la frequentazione a Parigi di Lev Šestov. Come si colloca rispetto alla corrente dominante dell’esistenzialismo francese? Quali sono le critiche che muove ai suoi contemporanei e gli aspetti di novità del suo pensiero?
La filosofia della tragedia di Fondane veniva definita in questi termini: «la faiblesse vertébral de l’existentialisme», senza che per altro questi detrattori si rendessero effettivamente conto – o volessero rendersi conto – delle radicali differenze che distinguevano-separavano l’Esistenzialismo dalla «filosofia della tragedia». Tutto veniva messo in uno stesso sacco, indistintamente; qualche anno più tardi, anche grazie al famoso saggio di Adorno, del 1963, contro Heidegger, Jaspers e il gergo dell’autenticità: l’esorcismo dello hiatus irrationalis. Perfino l’Esistenzialismo vero e proprio, che io definisco una semplice ideologia dell’esistenza (l’abisso che separa la profondità dalla specializzazione sull’esistenza, appunto dall’esistenzialismo), quello dei Camus e Sartre – ovvero una versione infinitamente meno profonda, meno radicale, della filosofia della tragedia –, veniva visto da molti come inadeguato a rispondere alle necessità del Tempo. Benché l’Esistenzialismo abbia poi avuto largo seguito e abbia affascinato gran parte della generazione di quel tempo, e non solo. È da sottolineare che l’esistenzialismo, in fondo, non fu altro che la versione razionalista, umanista e filosofica della «filosofia della tragedia». Non dimentichiamo un dettaglio fondamentale: l’esistenzialismo francese è stato spiacevolmente ed essenzialmente una emanazione di una certa filosofia tedesca, intendo – in particolare – di quella di Heidegger. Il Dna dell’esistenzialismo, nelle sue varie forme, è questo. Jaspers, Camus, Sartre e perfino, indirettamente, autori come Maurice Blanchot (in quanto più interessato alla strategia speculativa affascinata dall’esistenza nella scrittura, che non dalla scrittura nell’esistenza… se non è un «razionalismo» questo!) o figure particolari come quella di Georges Bataille (giacché qualunque autore che, nel parlare del male o del sacro, citasse primi di ogni altro G. Bataille, rivelerebbe di parlare dell’argomento giusto ma dal luogo sbagliato). L’esistenzialismo e la filosofia della tragedia, o «filosofia esistenziale» che dir si voglia, erano diametralmente opposte, direi perfino antagoniste. Lo sottolineo perché c’è chi ha accumunato Fondane a Camus, chiamandoli indistintamente «ribelli», senza sottolinearne adeguatamente le enormi differenze. È una disattenzione tutt’altro che «ingenua». È interessata, intendo dal punto di vista speculativo. L’esistenzialismo, in fondo, era un po’ come il surrealismo, ovvero un tentativo astuto di sfruttare i temi dell’irrazionale (le categorie «esistenziali», soggettive) con i mezzi razionali. Da questo punto di vista, per esempio, credo sia un errore mettere in parallelo Sartre con Leopardi – che si dice spesso sia un precursore, antelitteram, dell’«esistenzialismo». Giacché sono toto coelo diversi. L’elemento radicalmente «irrazionalista» e metafisico di Leopardi, in Sartre è completamente assente. Sartre è un filosofo-scrittore in cui l’assurdo e il tragico venivano messi in sordina, razionalizzati. Cadere in questo parallelo, dunque, rivela probabilmente un residuo razionalista. Il parallelo più opportuno con Leopardi, per certe analogie e coincidenze ideali, è evidentemente quello con Šestov, Fondane e Cioran – un territorio ben più profondo, lo stesso di Leopardi, per molti aspetti. Malgrado le differenze, giacché i filosofi esistenziali del Novecento erano estranei alla verginità classica e settecentesca di Leopardi.
Lo sottolineo ancora: l’esistenzialismo sarà una razionalizzazione del tragico, una sua pastorizzazione; e ciononostante, l’esistenzialismo non sarà ben visto nell’ambito della critica della cultura. Immaginiamo allora quale effetto potesse avere il radicalismo «irrazionalista» della «filosofia della tragedia» dei Šestov, Fondane, Cioran. Non dimentichiamo che Camus, a sua volta anche lui influenzato da Šestov, rigettava il tema dell’assurdo (tema dominante del filosofo russo) – e dunque il tragico – in un insignificante silenzio; mentre scrittori come Šestov, Fondane, Cioran, Artaud o Céline volevano che questo assurdo parlasse a voce alta, che gli fosse riconosciuto un potere speculativo e non solo artistico. Charles Bukowski, che rispettava Céline e amava Artaud, avrebbe opportunamente scritto: «L’Arte vera non solo non è capita ma viene anche temuta». Questi autori, ognuno a loro modo, riaffermavano i diritti della vita, del singolo (che diventava non più un hegeliano «chiunque», ma «qualcuno»), dei metafisicamente single ecc. Dunque, alla domanda su come si colloca Fondane nell’ambito dell’esistenzialismo francese, la riposta è: male. Nonostante abbia influenzato in maniera non sempre apertamente dichiarata autori come Bataille, Blanchot e Bonnefoy – mi riferisco al suo Baudelaire o al suo Rimbaud. Infatti fu presto dimenticato, e a lungo ignorato. In un’epoca in cui dominavano il marxismo, la cultura liberale, la cultura cattolica, l’intellettuale engagé, la cultura umanista, lo storicismo, una reazione anti-dialettica, anti-storicista e anti-idealista radicale (notare che questi elementi erano presenti tali e quali anche in Leopardi), come quella dell’antimoderno Fondane, non poteva che risultare perdente, e perfino nociva o, peggio ancora, puerile. Egli era profondamente ed essenzialmente un inattuale e un impolitico (analogamente a Leopardi), e con ciò non bisogna scadere con: «uno fuori dalla realtà». Solo alla fine degli anni Ottanta è stato riscoperto, anche se è per lo più ancora oggi ignorato.
Sempre a Parigi, Fondane conosce personalmente Emil Cioran, anch’egli profondamente influenzato dal pensiero antiaccademico e antisistematico di Šestov. Quali sono, a suo avviso, gli elementi che accomunano il percorso esistenziale di questi due autori?
Innanzitutto, non dimentichiamo che Fondane nasce nel 1898, mentre Cioran nel 1911. Erano amici, come testimonia il recente volumetto Al di là della filosofia. Conversazioni su B. Fondane (Mimesis), il suo splendido esercizio di ammirazione, 6 rue Rollin. Le affinità tra Fondane e Cioran sono notevoli ed evidenti, per più ragioni, e non solo per loro comune ammirazione e filiazione, per molti aspetti, dalla filosofia della tragedia di Lev Šestov o nei maestri dell’arte di pensare contro se stessi. I temi dell’assurdo e del tragico erano centrali in entrambi i pensatori; analoga era la loro posizione nei confronti dell’idea contenuta nel Genesi sul peccato originale, che abbracciavano senza riserve, il peccato è infatti il Sapere; entrambi erano romeni – la loro genetica è radicata nella profondità della «depravazione slava» e nel ben più corrosivo «spleen» moldavo, e non solo per il loro interesse per gli autori russi; sono inoltre enormemente influenzati, ognuno a loro modo, dalla figura dell’ebreo errante e dalla cultura ebrea: non dimentichiamo lo straordinario Un popolo di solitari, il titolo che Cioran dà al suo scritto dedicato agli ebrei, contenuto ne La tentazione di esistere.
Fondane e Cioran sono gli anti-Sartre e gli anti-Camus per eccellenza. Erano dei pensatori privati, dei privatdenker, dei marginali «reattivi». Al Sisifo felice – una conciliazione dialettica da parte di un «ribelle» da catarsi greca… perché questo era Camus, in fondo – i due romeni, con la loro «complicità con l’Ineluttabile», contrapponevano la vitalità della vita, con tutti i suoi estremi. La vita vissuta in tutte le sue contraddizioni, il volere tutto l’uomo e non solo l’economia di quella che Dostoevskij chiamava omnitudine, che non è nient’altro che «la svalutazione della vita, provocata da quello stesso divenire della civiltà e della cultura», di cui tanto ci parlava Leopardi. «Lo Spirito ha consumato la materia», lamentava il Poeta recanatese.Cyril Connolly – «l’ultimo inglese di elevata raffinatezza» – parlerà di Pascal e Leopardi come dei: «Grandi Inquisitori che demoliscono i nostri alibi della salute e della felicità [razionale]. Sono pessimisti perché erano dei malati? Oppure la loro malattia agisce come una scorciatoia verso la realtà [il reale] – che è intrinsecamente tragica?» Anche Giuseppe Rensi parlerà significativamente dei «maestri d’infelicità», a cui lui stesso si accumunava.
Dei due, Cioran a mio avviso era il più profondo, anche a causa della sua forma espressiva, che era ormai lontana da qualsiasi filosofia. Personalmente credo che Fondane si sia avvicinato alla filosofia, anche se in un modo assolutamente eccentrico, perché sentiva non del tutto adeguata la propria poesia (intendo la poesia in senso stretto – anche Cioran lo ammetterà tra le righe, quando noterà che, in fondo, Celan era migliore come poeta, rispetto a Fondane) e anche perché era animato da uno spirito troppo polemico e antagonista per riuscire a limitarsi alla poesia in senso stretto. Sono convinto che la vera «poesia» di Fondane siano la sua vita (e il suo epilogo) unita ai saggi che ha composto: il Rimbaud la canaglia, il Baudelaire e l’esperienza dell’abisso ecc., come l’energia della sua prosa lirica, della sua personalità.
Parliamo delle opere di Fondane. Da poeta-filosofo, egli scrive due importanti saggi dedicati rispettivamente a Rimbaud e Baudelaire. Qual è l’interpretazione che Fondane dà di questi due poeti e quali elementi di originalità presentano queste due monografie?
Questi due libri sono indubbiamente tra i più belli di Fondane. Quello che colpisce di questi saggi è innanzitutto un certo stile unito a una certa indubitabile energia, un temperamento – è qualcosa che non si inventa, che nasce con noi, di affatto intellettuale. È quello che io chiamo l’au de-là du livresque.
Di Rimbaud, Fondane darà una lettura per molti aspetti eccentrica rispetto alle correnti interpretative del suo tempo: rispetto a quella «surrealista-marxista», quella «cattolica» e quella «esistenzialista» – quella surrealista ed esistenzialista erano dominanti al tempo e lo furono anche in seguito. Infatti, il Rimbaud la canaglia fu innanzi tutto un attacco alla lettura di Rimbaud operata da Breton e il surrealismo. Non dimentichiamo che Breton lesse questo libro di Fondane e, ovviamente, non fu affatto contento dell’attacco alla teoria surrealista. Inoltre, un certo numero di libri dedicati a Rimbaud, successivi a quello di Fondane, presero le mosse in maniera implicita dalla prima edizione Rimbaud la canaglia (come anche dal Baudelaire)senza mai riconoscere il debito apertamente – lo stesso Fondane lamenterà con ironia questa «dimenticanza». Quanto alla corrente dell’esistenzialismo in senso stretto (umanista, ateo, agnostico) – come poteva esserlo quello di Heidegger prima maniera o le sue diramazioni –, Fondane, con la sua «filosofia esistenziale», avrebbe conferito al problema dell’esistenza un timbro infinitamente più profondo, rapportandolo al tragico e alle determinazioni metafisico-irrazionaliste dell’arte, per lo più rifiutate o pastorizzate dai rappresentanti francesi dell’esistenzialismo. Fu più radicale anche di fenomeni culturali come Le Grand Jeu. Una dimensione del pensiero, quella del tragico-metafisico irrazionalista, apertamente rifiutata dai Camus e Sartre, nonché disattesa da pensatori come Jaspers, per esempio, nonostante quest’ultimo avesse dedicato un libretto al tema del tragico (Del Tragico). Non bisogna dimenticare che anche l’esistenzialismo religioso (a parte Šestov, l’unica vera eccezione, con la sua «filosofia esistenziale») era lontano, in fondo, dalle posizioni di Fondane, dall’elemento irrazionale della «filosofia della tragedia»: questo esistenzialismo religioso non era altro che una filosofia religiosa, ovvero un ipocrita e velato ritorno a Platone, Kant, Hegel: un ricamo filosofico sull’assurdo.
Mentre il Baudelaire e l’esperienza dell’abisso è un caso a parte, unico. È un libro abissale, che reca con sé «le sceau de la fatalité», con tutto il fascino che ne deriva, giacché è un libro postumo e non finito. Interrotto. È l’ultimo documento che Fondane lancia ai vivi, prima di essere deportato ad Auschwitz. Il libro era poco più che una bozza. Naturalmente non ebbe l’opportunità di correggerlo – la scelta editoriale, nel 1947, fu di presentare il libro tale e quale, senza modifiche o aggiustamenti di rilievo. Un documento straordinario, non solo su Baudelaire, ma anche sulla filosofia esistenziale di Fondane, o in generale. In questa monografia, la lucidità delle intuizioni e delle analisi, come anche la loro originalità, sono spesso sorprendenti; e il lettore non potrà mancare di essere colpito da questa effervescenza di idee, da questa ribellione che è un invito ad abbandonare la critica e superare la letteratura – «al di là e al di fuori della filosofia». Mi viene in mente una battuta di Sinjavskij: «i pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa». Il Baudelaire è infatti un libro scavato nel corpo, «enciclopedico, ipertrofico, incompiuto e tuttavia potente e spesso sorprendente», dallo stile impaziente e nervoso, ironico… rapidità e urgenza della scrittura. Un vigore appassionato nell’offensiva che reagisce alle letture razionaliste e riduttive dei fenomeni del mondo e della vita umana, al di là di qualsiasi confortante conciliazione dialettica. Tutti saggi di Fondane sono l’anti-Sartre (che rifiuta l’autentico pensiero tragico) e l’anti-Valéry (la «suffisance esthétique»); posizioni, queste, che attraversano, in maniera più o meno inconscia e sotterranea, le varie discipline o correnti culturali di quegli anni, ma anche quelle successive, che apparentemente saranno più critiche rispetto ai limiti dei due autori citati: giacché lo spirito «cartesiano» è duro a morire, e si presenta nelle vesti più inaspettate. Il Baudelaire, dunque,è una monografia inclassificabile, eccentrica, oltre qualsiasi canone di saggistica di critica letteraria o artistica. Obbliga infatti ad andare oltre ogni lettura meramente «estetica» o esegesi «letteraria» o «critica» dell’opera di Baudelaire – un dettaglio, questo, che non molti hanno capito davvero, dato che si ostinano a commentare questa monografia proprio con i canoni che Fondane mette ferocemente in causa.
Ad ottobre uscirà finalmente, sempre per la Nino Aragno (un piccolo ma raffinato editore, famoso per pubblicare libri impossibili, folli e di autori dimenticati, che ha avuto il grande merito di pubblicare i libri più importanti e impegnativi di Fondane), l’edizione critica de La coscienza infelice.
Nel 1938 Fondane dedica al problema «estetico» un saggio di cui Lei ha curato la traduzione italiana. Con chi si confronta, o scontra, il nostro autore in questo testo?
Questo piccolo e affascinante libro è interessante sotto più aspetti. Intanto: è praticamente un manifesto, combattivo e polemico, di pura filosofia esistenziale. La traduzione, da me curata, viene presentata al lettore italiano in una edizione annotata criticamente, per la prima volta, anche rispetto alla Francia. Un dettaglio di rilievo per gli studiosi italiani di Fondane.
Il Falso Trattato d’estetica vuole difendere e definire una libertà astorica della poesia – «inattuale», se vogliamo usare un termine di moda negli ultimi decenni. È un’opera brillante e anticonformista, che reagisce all’estetica istituzionale e, tanto più, alle aspettative della trattatistica convenzionale, attraverso l’ironia e un’esaltazione lirica della poesia e dell’arte tutt’altro che ingenua… tutto ciò attraverso una prosa lirica. Come il Rimbaud la canaglia (1933), il Falso Trattato (1938) è anche un’offensiva al cuore della teoria surrealista, che Fondane, in questo libro, considera per molti aspetti una teoria dominante del tempo – nel Surrealismo vede una teoria onniavvolgente, più ampia dello stesso fenomeno culturale in sé, ovvero del gruppo surrealista in senso stretto. In questo libretto, Fondane spiegherà il perché di questa sua tesi di fondo, in maniera convincente e affascinante, mi pare. Il suo attacco si rivolgerà principalmente ad autori quali: Platone, Valéry, Cartesio, Caillois, Breton e i surrealisti, Gide, Husserl, Bergson, Cassou; e contro il razionalismo in generale, o il romanticismo tedesco (l’Idealismo). Ricordiamo che il Dna di Fondane è costituito da autori come: Dostoevskij, Nietzsche, Pascal, Rimbaud, Šestov, Kierkegaard ecc. Il sottotitolo del libretto è istruttivo: Saggio sulla crisi del reale. È significativo, giacché è il tentativo, ancorché disperato, di riconquista del reale, dell’imperfezione, della contraddizione, dell’impuro e della tragedia umana vissuta dal singolo esistente, contro l’«orrore non dissimulato per la realtà empirica: imprevedibile, contingente, transitoria» tipico della filosofia, contro quel «disprezzo apertamente dichiarato per ogni vissuto personale, affettivo, soggettivo, sentimentale, immaginale».
Quali sono gli aspetti di «attualità» di Fondane? In altre parole: perché avvicinarsi a questo pensatore?
I temi di Fondane sono di grandissima attualità, anche oggi, e non tanto perché posti Fondane, quanto perché sono le domande fondamentali di tutti i tempi che vengono chiamate all’appello. Platone dirà: «Per timore che la poesia ci accusi di una certa durezza e stoltezza… dobbiamo aggiungere che esiste un antico dissidio tra la filosofia e la poesia». Tra l’intelletto e la vita. Sono temi mai risolti e, per certi aspetti, irrisolvibili, che si porranno sempre, in eterno. È la contraddizione della lotta della conservazione della vita umana a detrimento della vita stessa e di quelli dei singoli.
Non dimentichiamo che i temi di Fondane – per rapportarci in maniera più stringente all’attualità italiana – sono il Dna su cui è nata una realtà editoriale come l’Adelphi alla fine degli anni sessanta; una realtà editoriale che darà spazio a quella cultura e quegli autori che proprio una certa cultura italiana aveva contribuito a relegare ai margini, a dimenticare o a pervertire con interpretazioni ideologiche, per non dire «antisettiche». Sono esattamente i temi di Fondane. Non a caso, Nietzsche e Cioran sono autori di riferimento per l’Adelphi, e senza dimenticare che il più bel libro di Šestov, Sulla bilancia di Giobbe, è pubblicato dalla Adelphi, nella più bella traduzione che ci sia oggi di Šestov in Italia, del compianto A. Pescetto. I temi e gli autori sono appunto: Nietzsche, il metafisico, il profondo, «l’osmosi tra fisiologia, psicologia e metafisica» (ormai luogo comune letterario, usato da R. Calasso nei suoi libri, ma usato almeno quarant’anni prima da Fondane), la cultura mitteleuropea (l’Austria-Ungheria, giacché questa, come dirà Cioran nella postfazione al libro di Christomanos sulla Principessa Sissi, «per effetto dell’impatto slavo, appartiene in un certo qual modo all’Europa sudorientale… l’Austria nasconde qualcosa di molto più profondo, qualcosa che ha origine nella cultura sudorientale»), «l’antenna metafisica», il «lettore assoluto», la «letteratura assoluta», le determinazioni metafisiche dell’arte, l’inattuale, il sacro, il mito… ecc. ecc.
Come sostenevo all’inizio, certi autori hanno realmente tentato di ridare dignità al tragico in tutta la sua estensione, di riportare l’assurdo non solo nell’ambito dell’arte (cosa già di per sé quasi impossibile, se non da parte di autori paradossali, isolati) ma anche nell’ambito più generale della critica della cultura. Giuseppe Rensi, per esempio, uno splendido e pressoché isolato esempio di leopardismo tragico in Italia, ha tentato di reintrodurre l’irrazionalismo non solo nell’arte, ma anche nell’ambito della critica della cultura, e non solo con un saggio come Filosofia dell’assurdo, ma anche in un saggio antecedente, di storia e filosofia politica, come Lineamenti di filosofia scettica. Per uno sviluppo ampio su questi temi, mi permetto di rimandare il lettore a: L. Orlandini, La vita involontaria. In margine al «Baudelaire e l’esperienza dell’abisso» di B. Fondane (Aragno, Torino, febbraio 2014), un saggio che non è solo o principalmente un libro sul Baudelaire di Fondane.
È la strenua difesa, rigorosa e seria, proprio del territorio estremo di questi marginali, perché più ricco, complesso, vitale – sincero: «Opera di un involontario ma irriducibile ‘malpensante’, dettata da una distanza e un sarcasmo senza nome, i Paralipomeni, come le Operette morali, hanno del ‘malsano’, lamentava Benedetto Croce. Senza dubbio. Resta soltanto da sapere se il ‘malsano’ non sia nel reale stesso e quanto è stato rimproverato a Leopardi non corrisponda piuttosto al coraggio e all’arte di averlo affrontato fino all’estremo» (M. A. Rigoni). Quel Leopardi che, nel Dialogo di Tristano e di un amico, scriverà: «Rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, di non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, vera». Sono quegli uomini che: «rappresentano un assoluto che non è consigliabile accogliere ma che è anche disdicevole respingere» (Cioran).
Intervista realizzata da Antonio Di Gennaro
(n. 9, settembre 2015, anno V)
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