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Letteria Giuffrè: «L’arte partecipata ha aperto una nuova frontiera tutta da percorrere»
«Il mio lavoro non può prescindere dal pubblico e dal creare forme di partecipazione. Questa è un’urgenza che negli ultimi tempi sento ancora più forte. A questo proposito, le esperienze di arte partecipata penso abbiano aperto una nuova frontiera tutta da percorrere».
Ospite questo mese della nostra inchiesta sulla donna artista è Letteria Giuffrè (Messina, 1977), artista visiva e regista indipendente. Da molti anni risiede in Toscana e, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, nel 2000 fonda il gruppo Telluris Associati con il quale realizza regie e progetti di formazione. Per oltre dieci anni conduce percorsi di didattica dell’arte e dal 2010 al 2015 è direttrice artistica del festival teatROmania/emersioni sceniche di Roma. Ha realizzato progetti in Italia e all’estero, dall’India a Singapore, da New York alle principali città europee.
Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio dedicato all'Inchiesta esclusiva donna artista.
Letteria, la tua attività professionale si divide in due ambiti molto complessi: l’arte visiva e la regia teatrale. Quale parte di te e della tua creatività si esprime in ciascuno di essi?
Per me sono diramazioni dello stesso processo. Nel teatro prevale sicuramente il lavoro di équipe e la pluralità dei linguaggi, nell’arte visiva tendenzialmente percorro una dimensione più solitaria, almeno in una prima fase. Ciascuna disciplina mi aiuta a comprendere qualcosa del mio lavoro nell’altra. È come guardare la stessa immagine allo specchio. La vera scommessa è però riuscire a compiere l’attraversamento.
Quali sono le tappe più importanti che hai attraversato nel tuo percorso?
La mia attività è iniziata a Firenze durante gli anni dell’Accademia, alla fine degli anni ’90. Mi sono avvicinata alla pittura informale e parallelamente alle avanguardie teatrali. Ho partecipato a performance indipendenti e a sessioni di lavoro con esponenti della Body Art, ho fondato un gruppo che avrà attività performativa per più di quindici anni. In seguito a Pontedera sono entrata in contatto con l’ambiente culturale del regista Jerzy Grotowski e dell’Odin Teatret. Teatro e arte visiva in fondo non sono mondi così lontani, l’uno si nutre dell’altra. Le residenze artistiche all’estero e laboratori con la società civile, a carattere interdisciplinare, sono tappe salienti della mia ricerca. Esperienze che mi hanno permesso di scorgere il senso sociale del fare artistico, una possibile condivisione di esperienze, spazi e luoghi. Ho realizzato regie ed eventi per diversi anni, incontrando il pubblico e rinnovandomi ogni volta.
La colonna infinita, performance teatrale,
tratto da Mircea Eliade, 2009
Quale è la fase attuale della tua ricerca artistica?
Nella fase attuale indago il linguaggio meta-pittorico, in particolare il rapporto tra immagine, scrittura e segno. Utilizzo supporti non convenzionali quali plexiglass, carta, garza, elementi naturali. Sperimento il possibile dialogo con il linguaggio video, lo spazio e lo spettatore. Questa indagine mi ha spinto a una riflessione sul parallelismo tra linguaggio e l’intreccio del tessuto. Perché il linguaggio è tessuto, così come il mondo intero è un tessuto. Essere nel mondo vuol dire essere già nella rete del linguaggio, essere connessi. Il parlare è un tessere, un intreccio di verbi e nomi, di termini del movimento e termini dell’immobilismo. Per questo, nella questione della lingua, soprattutto della «lingua antica», le donne sono ritenute depositarie privilegiate dell’abilità: il tessere è infatti un’arte femminile per eccellenza, è praticato da donne ed è patrocinato da una divinità femminile, Atene.
Il mio lavoro si orienta sempre più verso lo spazio, ricerco luoghi di possibili relazioni tra le persone e tra individui e natura. A livello didattico seguo percorsi di adolescenti, dopo aver fatto ricerca per molto tempo con i bambini. Il mio lavoro non può prescindere dal pubblico e dal creare forme di partecipazione. Questa è un’urgenza che negli ultimi tempi sento ancora più forte.
Quali sono i tratti peculiari della tua espressione artistica e il ruolo del grafema nei tuoi lavori?
Parto dalla superficie bidimensionale per abbracciare lo spazio, cercando di stimolare nel pubblico un coinvolgimento emotivo e personale. Tela, olio, pigmento, acrilico, collage di carta e garza, si affiancano alla video arte e alla performance. Sin da giovanissima ho sentito la necessità, forte e profonda, di mettermi in gioco, di intervenire direttamente nei miei lavori per esplorare le possibilità di condivisione e partecipazione col pubblico. Soprattutto non potevo resistere al fascino del gioco teatrale, in cui in uno stesso momento sono concentrati diversi fattori, generando forze incredibili. Ho iniziato così a frequentare le avanguardie, attratta dal linguaggio eclettico e contaminato della scena, dal rapporto nuovo con la parola-testo, dalle molteplici possibilità date dagli oggetti e dallo spazio. Attraverso la regia ho trovato un luogo a me congeniale per mettermi in uno stato di rischio, di pericolo. È in questa condizione che vengono fuori le intuizioni migliori.
Grazie al teatro ho potuto pormi il problema del testo, della parola e del rapporto con l’azione e col suono, col suo dispiegarsi nel tempo presente. Il testo come scrittura mi ha seguita ovunque, riecheggiando in ogni ambito. Il mio è un percorso di ricerca senza pormi confini disciplinari. Quando scrivo le parole possono essere incomprensibili, rasentano lo scarabocchio. Un processo che fonda le sue radici nella poesia visiva, per la quale nutro un profondo fascino, e nelle connessioni tra scrittura e arte visiva delle avanguardie. La lunga pratica di scrittura e cancellatura è un modo per me di ri-appropriarmi della libertà del fare. Raccolgo i frammenti di pensiero, a volte frasi piuttosto lunghe, movimenti di matita sinuosi che si trasformano liberamente in orizzonti ondulati, paesaggi interiori. Mi lascio trasportare dal segno e la scrittura crea inevitabilmente connessioni con la storia. Ogni esperienza umana passa attraverso la nascita, l’abbandono, la scoperta, la violenza, l’ascolto, l’amore e la morte. Ed è attraverso il grafema che racconto la mia storia. Spesso senza senso, gioco con una calligrafia personale che cerca rimandi e connessioni nel rapporto tra gesto e segno, come il gioco dei bambini pre-alfabetizzati. Ora diventa scrittura, ora segno indecifrabile. Approfondendo il processo della scrittura, che vaga nel territorio della lingua-idioma, in giochi e rimandi al mondo infantile e alla libertà di tracciare senza senso, scopro un lavoro infinito e molteplici possibilità di esplorazione. Mi servo della lingua, anche del mio dialetto – il siciliano – come una scrittura segreta, che allude, che parla dell'enigma della comunicazione articolando altri indizi.
Una montagna di parole, grafite e carboncino su tela, 2020
Come trovi le tue fonti d’ispirazione?
Nel cinema, nella danza, nella musica, nella letteratura. Ma anche lavorando coi ragazzi, con persone qualunque che nella vita fanno i lavori più svariati e che accolgono l’invito di un laboratorio. È nello stare insieme agli altri ma anche nella solitudine, nelle lunghe camminate a contatto con la natura.
A quale delle tue mostre, in Italia o all’estero, sei particolarmente legata e per quale ragione?
Ciascuna mostra rappresenta un momento importante di confronto. Incontrare il pubblico significa mettersi in gioco e accogliere le riflessioni di persone anche sconosciute. In Oriente, in modo particolare, il contatto con una cultura tanto diversa mi ha aiutata a capire alcuni aspetti del mio lavoro. Soprattutto a procedere oltre i condizionamenti che inevitabilmente ci si porta dietro, a spostare il punto di osservazione della realtà.
Il progetto in India, a New Delhi si è articolato in due momenti, a distanza di quattro anni l’uno dall’altro. La prima residenza è stata nel 2004, ho lavorato per circa un mese al Sanskriti Kendra. Qui ho avuto modo di conoscere artisti provenienti da vari continenti, e non mi dilungo sul fatto che già questo sia molto arricchente. Improvvisamente è successa una cosa per me straordinaria, inaspettata. Nella concentrazione, data dall’isolamento e dal nuovo contesto, mi sono sentita veramente libera, svincolata dal peso del «fare qualcosa che funzioni» e di effetto. Libera anche dalla necessità di coerenza a tutti i costi. Mi sono sentita veramente autonoma rispetto al giudizio critico dell’osservatore professionale, e così ho praticato in libertà – scevra da tutto – e la mia pittura è cambiata. È cambiato il mio approccio col segno, embrione di ogni lavoro. Poi nel 2008 un lungo viaggio, oltre al lavoro in studio, dove ho presentato installazioni e lavorato a video sperimentali. In seguito ho sviluppato per anni quello che è iniziato li, fino a Grafemi e all’installazione The Interactive Idiom.
THE INTERACTIVE IDIOM - Ovvero sull’orlo del visibile parlare, video installazione, 2015
Pensi che nel sistema dell’arte contemporanea una donna abbia più difficoltà ad affermarsi? Quali sono, in questo senso, i problemi maggiormente sentiti ai nostri giorni?
Quello dell’arte in effetti è un «sistema» vero e proprio, e starne dentro comporta dei limiti, delle rinunce, dei compromessi ma anche notevoli vantaggi. Dipende dagli obiettivi di ciascuno. Personalmente preferisco rimanerne ai margini e non compromettere la mia libertà espressiva, non puntare su un certo tipo di relazioni e dinamiche nelle quali non mi riconosco. Chiaramente questa scelta costa molto cara. Le difficoltà che ho riscontrato riguardano sicuramente anche il mio essere donna, ma non dimentichiamo che il discorso è molto complesso. Affonda radici culturali profonde e difficili da sradicare. Le donne oggi hanno molte più possibilità ma la strada è ancora molto lunga.
La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?
Sono nata e cresciuta in Sicilia, in una città portuale e purtroppo provinciale, Messina. Nonostante le battaglie degli anni ’70, nel mio contesto culturale rimanevano forti le differenze di genere, sicuramente ben celate, a partire dal contesto familiare. È una realtà con la quale mi sono scontrata molto presto, e il forte desiderio di essere libera e contare sulle mie scelte mi ha spinta lontano da quel contesto. Oggi però le cose sono diverse, la realtà, essendo molto più globalizzata, tende ad assomigliarsi un po’ ovunque. Questo potrebbe essere un bene ma per certi aspetti mi fa paura. Temo per la perdita dell’identità a favore di un pensiero unico e omologato. «Va tutto bene solo se la pensi come me», questo è il messaggio violento che si riflette sui social. Inoltre, nonostante gli sforzi fatti finora, le difformità di trattamento tra uomo e donna ci sono, sono enormi e subdole. Io ho scelto per esempio di essere madre, ho tante amiche che hanno avuto la forza di non esserlo per scelta. Però essere madre oggi non vuol dire accettare di stare solo a casa e badare ai figli e cucinare. Essere madre oggi ha un peso enorme, una responsabilità sociale eccessiva e di questo, credo, potrebbero pagarne le conseguenze le generazioni future.
THE INTERACTIVE IDIOM - Ovvero sull’orlo del visibile parlare, video installazione, 2015
Ti sei occupata anche della didattica dell'arte. Come vedi oggigiorno la funzione sociale dell’arte? In che modo le opere d’arte possono offrire strumenti per osservare il mondo e i suoi mutamenti?
Come ho già accennato, la dimensione pedagogica è fondamentale nel mio lavoro. Un po’ per caso, circa venti anni fa, mi è stato chiesto di lavorare con i bambini. Precedentemente a Firenze avevo partecipato già a progetti artistici con la disabilità e realtà ai margini. Nell’ambito della mia esperienza ho lavorato con anziani, mamme, casalinghe, ragazzi. Questo mi ha arricchita e ha dato una connotazione concreta al mio lavoro, influendo sicuramente anche sul piano estetico e poetico. I disegni e le soluzioni che trovano i bambini, per esempio, ad alcuni quesiti formali sono spesso illuminati. Credo nel ruolo sociale dell’arte, bisogna incentivare la cultura artistica e far sì che non diventi un mondo a parte, avulso dalla società o solo mera decorazione per case di lusso, oggetto di discussione solo per gli addetti ai lavori. A questo proposito, le esperienze di arte partecipata penso abbiano aperto una nuova frontiera tutta da percorrere.
Sei vicina al teatro romeno, ma per quello che riguarda l’arte romena contemporanea, come pensi venga percepita in Italia?
Non sono molto informata su questo, per qualche anno mi sono però occupata di teatro contemporaneo romeno, attraverso il festival «teatROmania» di cui ho curato la direzione artistica. L’dea fondante era quella di mettere in dialogo esperienze di teatro indipendente italiane e romene, a partire dalle drammaturgie contemporanee. In alcuni casi ci sono stati scambi tra gli autori e sono nate sinergie. Il teatro romeno l’ho percepito come molto variegato, attento e curioso, con una forte capacità espressiva. Sono molti a mio avviso i punti di contatto tra le nostre culture, e grande arricchimento ne nasce dalla diversità. Percepisco una sensibilità e un bisogno di comunicare con forza la propria visione, soprattutto nella giovane generazione. Probabilmente questo può riguardare anche lo specifico ambito delle arti visive.
APOCRIFI, installazione modulare, garza gesso e carta, 2017
APOCRIFI, particolari
APOCRIFI, particolari
Una montagna di parole, particolari della serie, grafite e carboncino su tela, 2020
Una montagna di parole, particolari della serie, grafite e carboncino su tela, 2020
Una montagna di parole, particolari della serie, grafite e carboncino su tela, 2020
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)
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