Con Isabella Pinto su «Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività» All’incrocio tra critica letteraria e filosofia, il volume monografico Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività (Mimesis Edizioni, 2020) di Isabella Pinto, esplora la scrittura di Elena Ferrante ed il rapporto tra soggettività e narrazione, individuando tre diverse partizioni. Mitopoiesi rilegge il rapporto mitologico madre-figlia che percorre L’amore molesto (il primo romanzo di Elena Ferrante, pubblicato nel 1992), I giorni dell’abbandono (2002), La figlia oscura (2006) e La spiaggia di notte (2007), per pensare altrimenti le relazioni di disparità, approdando alla «storicizzazione delle genealogie femminili». Diaspora esamina L’amica geniale (2011), scorgendo nella «fantasia di autofiction» un dispositivo narrativo che permette di accedere alle temporalità in divenire delle soggettività in fuga. Performatività setaccia La frantumaglia (2003) e L’invenzione occasionale (2019), facendo emergere un’«autorialità diffratta», che articola un’inedita istanza narrativa – polifonica e relazionale – del Global Novel: la «narratrice traduttrice». Questo volume rende così visibile come Elena Ferrante – voce femminile e, al contempo, affermativamente depersonalizzata – si inserisca in un «multiverso temporale transfemminista», dove solo le soggettività impreviste e postumane sono in grado di trasformare il potere dello storytelling in potenza poethica. Il saggio da lei redatto, navigando tra critica letteraria e filosofia, perlustra la relazione tra soggettività e narrazione, adoperando la scrittura di Elena Ferrante. Quali sono le ragioni che l’hanno indotta a scegliere un’autrice depersonalizzata e la sua scrittura? Fin dalla prima lettura ad attrarmi è stata la forza della sua scrittura, al contempo autobiografica e depersonalizzata. Facendo tesoro da un lato della mia esperienza di attivista, e dall’altro del laboratorio annuale che ho organizzato con Emanuele Trevi (Questo non è un corso, Angelo Mai, ottobre 2014 - giugno 2015), ho immaginato un progetto di ricerca che interrogasse a fondo questo tipo di forza e di scrittura. In essa avevo infatti intravisto una sperimentazione che metteva in gioco i meccanismi dell’autofiction, del memoir e del personal essay, ovvero di quelle modalità di scrittura di sé in cui, in qualche modo, interveniva la finzione, ma anche un’indagine narrativa e teorica sulla performance di genere, che porta lettrici e lettori a riflettere sulle disuguaglianze che percorrono tutt’oggi il mondo culturale, a partire dalle diverse posizioni che occupano le voci narranti che non coincidono con quella maschile, neutra, universale. Mi è sembrata una delle autrici che più si interrogava sul problema della soggettività scrivente a partire, però, da una posizione paradossale, quella di chi si sottrae dalla verifica fattuale di sé, aprendo le porte al continuum della «realfinzione». In Mitopoiesi lei ha stabilito di esaminare come Ferrante, in testi quali L’amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura e La spiaggia di notte, ricrei i miti attraverso un’operazione di recupero e storicizzazione del concetto femminista di «genealogia femminile». Siffatto dispositivo mitopoietico ricorda il cosiddetto «femminismo della differenza». Come maneggia i miti Ferrante? Dal mio punto di vista Elena Ferrante propone un uso molto complesso dei miti, abitando uno spazio che mette in contatto letteratura e filosofia, che è poi un modo per mettere in crisi la separazione dicotomica patriarcale tra logos e mythos. Credo che Ferrante abbia attraversato due momenti differenti della riscrittura mitologica in chiave femminista. Con L’amore molesto, uscito nel 1992, Ferrante si colloca nel pieno della ricezione italiana del femminismo della differenza francese e tedesco (Hélène Cixous, Christa Wolf, tra le altre), in cui risuonano i temi di testi coevi di Nonostante Platone di Adriana Cavarero o L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. Tuttavia, a partire dal secondo romanzo, I giorni dell’abbandono, edito nel 2002, avviene qualcosa, una sorta di presa di distanza dalla potenza materna, che appunto può essere anche terribile. Il «tremendo delle donne», lo chiama Ferrante. È in questo passaggio che vedo un uso inventivo della riscrittura mitologica in chiave femminista, ovvero un’esigenza di storicizzazione delle «genealogie femminili». Il potere che proviene dal femminile non è essenzialmente buono e votato al sacrificio di sé, tutt’altro. Anche per via della subalternità storica che i corpi femminili o femminilizzati sono costretti a subire, il potere delle madri, di coloro a cui riconosciamo un’autorità, spesso è anche tremendo. Questo si esplica narratologicamente con la scelta di accreditare e sviluppare le versioni minori di alcuni miti, in cui si fa visibile sia la potenza sia la ferinità femminile. Esemplare rimane a mio avviso, nella produzione ferrantiana, La figlia oscura e La spiaggia di notte, in cui il mito di Leda e Zeus, per come riportato nel libro La biblioteca di Apollodoro, viene riletto anche alla luce del cyborg, figurazione mitologica postumana proposta da Donna Haraway nel lontano 1985. Qui Ferrante non mima il discorso filosofico, ma lo attraversa riscrivendo la figura della bambola - tirando il filo che lega Casa di bambola di Herik Ibsen e Una donna di Sibilla Aleramo -, con la sua agentività postumana, che tornerà poi raddoppiata in tutta la tetralogia, e che in La vita bugiarda degli adulti (2019) si trasforma nell’agentività di un braccialetto magico. La narrazione mitopoietica di Ferrante ci segnala quindi una nuova generazione di femministe, successiva al femminismo della differenza, al cyberfemminismo, all’ecofemminismo, una generazione capace di mettere insieme femminismi anche distanti tra loro, navigando con la bussola del presente tra le molteplici genealogie femminili. Lei afferma che le personalità ideate da Ferrante, soprattutto ne L’amica geniale, «abitano, costruiscono e raccontano temporalità postumane». Come riesce l’autrice a mettere in scena personalità diasporiche? Tempo e racconto sono due fili della stessa matassa. Come ci insegna, tra gli altri, la diffrazione e il realismo agenziale di Karen Barad, la percezione che ciascuna/o/u ha dello scorrere del tempo varia secondo alcuni fattori. Uno di questi, riprendendo Carla Lonzi, è l’essere un soggetto imprevisto della storia, il non coincidere con l’idea di Uomo portato avanti dalla tradizione occidentale. Elena e Lila sono due esempi di soggettività in fuga da un tempo che si pensava unico e omogeneo per tutti. Il motivo scatenante è da rintracciare nelle violenze che subiscono. Una violenza patriarcale (che può essere agita sia da uomini che da donne), e che si esplica anche come violenza linguistica. L’educazione spesso vira in costrizione e repressione, così come l’amore, familiare o passionale, vira in atti di violenza, come lo stupro che agisce Stefano su Lila la prima notte di nozze. Ferrante, in maggior misura ne La frantumaglia e L’invenzione occasionale, recide simbolicamente la soggettività, enfatizzando quella molteplicità e varietà di voci che il patriarcato aspira a massificare. Dove rintraccia le radici di tale approccio di diffrazione dell’autorialità? Il dispositivo dell’autorialità diffratta messo in campo da Ferrante richiama alla mente la teoria della sporta del narratore di Ursula K. Le Guin, oppure il «mesh» di Timothy Morton, la maglia, la rete. L’autrice, le narratrici e le personaggi di Ferrante infatti spesso di sovrappongono, fino a coincidere perfettamente ne La frantuamglia e L’invenzione occasionale. Assumendo una voce femminile, e al contempo sottraendosi alla verifica extratestuale, Ferrante crea una propria immagine d’autore tramite l’assemblaggio di storie comuni di donne, così come di personagge letterarie. C’è qui un superamento della sensibilità postmoderna à la Calvino, in direzione di una sensibilità postumana: Ferrante critica e si sottrae alla stereotipia dell’immagine d’autore dei media, dando nuova fiducia all’immagine d’autore che emerge nelle lettrici/lettori a contatto diretto con la materialità dei suoi testi. I gesti della lettura e della scrittura assumono nuova rilevanza perché sono gesti incorporati, che possono attivare connessioni transcorporali. L’ultima direzione di ricerca di Ferrante con La vita bugiarda degli adulti capta nella magia e nella menzogna i suoi assi portanti. Qual è la sollecitazione alla riflessione dell’autrice, a suo avviso? Credo che con La vita bugiarda degli adulti Ferrante continui la ricerca iniziata con le bambole come figurazioni magiche. Non è un caso che sia molto presente la strega, altra figura che racconta l’ambivalenza della potenza femminile, che sconta la paura millenaria del sistema patriarcale ma anche la diffidenza delle altre femminilità. La narrazione è menzogna, dunque, come ci ha insegnato Elsa Morante, ma non per questo la menzogna è scevra di veridicità. Nei romanzi di Ferrante c’è una grande spinta etica, anzi, per citare una filosofa di origine brasiliane, Denise Ferreira da Silva, poethica. Nella scrittura della nostra autrice, infatti, immaginazione, politica ed etica convivono, e in questo senso porre attenzione verso il magico vuol dire porre attenzione verso i saperi prodotti storicamente dalle donne, che sono stati cancellati dal potere patriarcale, come ha mostrato, ad esempio, il lavoro di Silvia Federici, secondo cui la caccia alle streghe ha sempre coinciso con la repressione del potere femminile proveniente dai saperi popolari. Penso quindi che Ferrante ci solleciti a riflettere sulle forme attuali della narrazione, che se nei sui aspetti assoggettanti è usata per costruire fake news, per nascondere malefatte dei politici, per imprigionarci dentro i social media, di contro nei suoi aspetti soggettivanti, può essere una tecnologia per rifondare sé stesse e il mondo che ci circonda.
A cura di Giusy Capone |