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Con Isabella Cesarini su Clarice Lispector, una delle più grandi voci del ’900 letterario
Isabella Cesarini, autrice e saggista, ci restituisce nel suo Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector (Tuga Edizioni, 2021), la figura della scrittrice, saggista, giornalista e traduttrice ucraina, naturalizzata brasiliana, una delle più grandi voci del ’900 letterario. Nove romanzi, numerosi racconti indotti in tentazione di silenzio, un silenzio a parole. Il linguaggio all’opera, osservato oltre che letto, spiato nel suo esercizio, nelle sue agitazioni e nelle sue calme, nel suo farsi vivo. Un fare letteratura per fisicamente farla essere. Clarice viene al mondo per scrivere, plasmare una scrittura che altro non è che la propagazione di un impulso rapinoso, gentilmente modellato in ovale di bellezza e letteratura: il volto impresso sulla superficie della pagina, che trattiene e poi rende quella bellezza in forma di parole. Clarice custodisce l’impronta dell’incanto: «Il sentimento della bellezza è il nostro tramite con l’infinito». E l’infinito di Clarice è nella grande ascesa intimista mediante un graduale digradare dei sensi nella coscienza.
Con la parola vengo al mondo è diviso in dieci capitoli. Il primo dettagliatamente biografico. Negli altri nove si compie l’attraversamento della pagina lispectoriana, ci si addentra nelle opere districandole: le movenze della prosa, le ricorrenze tematiche, l’atto, l’attività e l’azione della scrittura, le parole cercate e trovate per dire le parole. La scrittura feconda l’intuizione e l’intuizione feconda la scrittura in storie d’amore fino all’ultimo respiro scritto.
La scrittura, il lavoro della scrittura sulla scrittura, il corpo della scrittura e il corpo dell’autrice in un tutt’uno: chi è Clarice Lispector?
Mi giunge immediata la risposta attraverso le parole della Lispector: «Sono talmente misteriosa da sfuggirmi». Superata l’immediatezza, le rispondo che il testo Con la parola vengo al mondo si profila nell’attraversamento dell’opera clariciana e, in vista di tale passaggio, Clarice è insondabile creatura che si sorprende di scrivere; Clarice conosce la propria scrittura come l’inesorabile del proprio destino; Clarice sente continuamente nostalgia, anche quella dolorosa di scrivere libri. La sua scrittura è nella foggia di un calamo che si immerge in un calamaio corporale. È una funzione del corpo che si manifesta a sé stesso nel silenzio, nell’isolamento, nel segreto che le parole pretendono per essere.
Clarice Lispector sottolinea che per essere felici sono necessarie «compreensão, amor correspondido e amizade». Può commentare tale asserzione in rapporto alla biografia dell’autrice?
Tali affermazioni, comparse sul Jornal da Tarde in seguito alla separazione, richiedono la contestualizzazione in una cornice prettamente biografica. Nel 1959, Clarice Lispector si separa dal marito, il diplomatico Maury Gurgel Valente, sposato nel 1943. La vita diplomatica la costringe per diversi anni a molteplici spostamenti, sovente vissuti come una limitazione. Basti pensare al periodo trascorso a Berna. La scrittrice descrive la città in una lettera indirizzata alle sorelle: «E il silenzio che c’è a Berna – sembra che tutte le case siano vuote. Viene voglia di essere una mucca da latte e mangiare per tutto il pomeriggio fino al calar della sera. Ma non si è quella mucca e si guarda da lontano, come se potesse arrivare la nave che salva i naufraghi».
«Abile acrobata della parola»: come riesce a ricreare il silenzio mediante la scrittura?
La parola clariciana è usata per evocare il silenzio, un silenzio a parole perché Clarice è una scrittrice di parole. Il silenzio custodisce quella potenza che solo la parola è in grado di resuscitare. L’invito è quello di ascoltarla, prima ancora di leggerla, sentirla anche, non dimenticando di trascendere il pensiero. «Il silenzio si finge voce in ogni crepa che ci tiene interi» scrive la poetessa Cettina Caliò nel contributo Il silenzio della parola all’infinito.
Enantiodromia: come si distingue nel mondo di Clarice la disposizione all’opposto di Eraclito e come si pone, in associazione con quella di Jung?
Nella psicologia analitica, Jung riprende la filosofia di Eraclito. Enantiodromia significa «corsa nell’opposto», ossia la concezione secondo la quale tutto ciò che esiste passa nel suo opposto: «Da vita nasce morte, da morte nasce vita […]». Jung parla di principio opposto inconscio, ovvero: quando un determinato stato della coscienza si forma come prioritario, nell’inconscio si avvia uno stato completamente opposto. Nel mondo di Clarice resiste una disposizione all’opposto che si distingue da quella di Eraclito e, in associazione, da quella di Jung, per contemplare nel passaggio un unico stato: la generazione può pervenire solo dal declino; da qualcosa di finito e definitivo si torna alla vita: «[…] poiché la morte le sembrava un atto di vita» scrive nel romanzo Il segreto.
L’Ulisse lispectoriano ascolta il richiamo della sirena Lori: può chiarire quanto sia presente il richiamo alla mitologia?
Nel 1969, la casa editrice Sabiá pubblica il sesto romanzo di Clarice Lispector, Uma aprendizagem ou O livro dos prazeres. In Italia il libro esce nel 1992 per l’editore Feltrinelli nella traduzione di Rita Desti. Un apprendistato o il libro dei piaceri è la grande ode all’amore vissuta da Ulisse e Lori. I nomi dei protagonisti rappresentano un forte richiamo alla mitologia. L’Ulisse di Clarice richiama l’Ulisse di Omero: ingegnoso, astuto, paziente. Entrambi disegnano la grande armonia cosmica, la creatura completa che riunisce tutte le virtù dell’uomo: la bellezza e la nobiltà. Loreley effigia il rimando al mito tedesco della sirena sul Reno: la Lorelei nordica e quella clariciana abitano la pace delle acque, «l’immersione nel liquido magico che per Lori avviene la mattina alle cinque, per la sirena del Reno accade nella propria e altrui dannazione».
Donne che narrano di donne. Tra le esponenti del passato, quali sono quelle che ha metaforicamente incontrato?
Ho incontrato creature investite di grande genio e al contempo fiaccate da imperscrutabili fragilità. La creatività tende a stringere legami intimi con quelle che siamo soliti considerare debolezze. I due stati – genio e fragilità – non solo vivono la corrispondenza, ma si alimentano a vicenda. La mia ricerca corre nel verso del permeabile, sovente nell’eccesso di permeabilità all’esistenza che tali creature mostrano scrivendo, dipingendo, fotografando, poetando. E in tale eccedenza gemica l’opera. Sono incontri che prendono a costruirsi su un particolare, crescono nella ricerca e si concludono nella costruzione di un ritratto. Lo studio parte da un dettaglio biografico per giungere all’opera. Alcuni nomi: Françoise Sagan mi prese con un numero, l’otto giocato sulla roulette del casinò di Deauville, dove vinse ottantamila franchi e la mattina dell’8 agosto acquistò il maniero di Breuil a Equemauville. Un numero dunque, un otto che, sdraiato o steso, diventa il segno dell’infinito, l’infinito della sua fortuna e l’infinito del tempo che impiegò per scontarla: una vita intera per scontare la fortuna.
Diane Arbus mi presentò i fenomeni da baraccone in veste di aristocratici e segnò la storia della fotografia con il meraviglioso spavento dell’umanità. Clarice Lispector mi mostrò la grande immagine della parola. Ágota Kristóf trafisse il mio sguardo sulla pagina. Maria Schneider mi trascinò sul set, su quell’impietoso set da cui non tornò più indietro. Sylvia Plath mi mise al corrente di una campana di vetro, un luogo di creatività e supplizio. Molte di queste donne, raccontate dai miei saggi, hanno anticipato la loro fine togliendosi la vita, un eccesso di permeabilità che non è riuscito a trovare una diga. Altre hanno vissuto ad alta quota con il fiato spezzato da un whisky o da una sostanza. Con il piede sull’acceleratore, lo sguardo su un orizzonte mancato, l’esistenza di queste artiste non si è mai disgiunta dall’opera e in questo tratto ho trovato la spinta per scriverne, avvertendo spesso la curiosa sensazione che dietro la mia penna ci fossero presenze munite di macchine fotografiche, tele, pennelli, stilografiche e lampade a petrolio.
Nel suo presente c’è Clarice Lispector, ma chi sarà nel suo futuro?
Nel mio futuro ci sarà Françoise Sagan e l’occasione per sospendere la saggistica e approdare al memoir. Dunque, ci sarà la Sagan scrittrice che si racconta in prima persona, la Françoise amante della velocità e delle macchine da corsa, l’amica di Sartre, Bernard Frank e Juliette Gréco, la Quoirez che si prende il cognome Sagan dalla principessa della Recherche, il giunco infuocato della Francia baciato dalla grazia della scrittura.
Qual è la cifra specifica della sua scrittura?
Scrivo quando non scrivo. Penso continuamente alla scrittura, la notte è il momento della frase bella che svanisce puntualmente al mattino. Sono indolente e distratta. Il momento al tavolo della scrittura è l’ultimo stadio di un percorso che avviene nella mente e/o nel ventre. Al tavolo, davanti al foglio, penso al corteggiamento della frase, alla riscoperta di parole considerate desuete che invero continuano a sprigionare suoni armonici. Non mi interessano gli anglicismi, mi interessa la parola bella e il suono che emette. I pochi ricordi legati allo studio del pianoforte e del solfeggio si fanno sorveglianti del mio lavoro alla maniera di un metronomo posto sulla scrivania a dettare le battute. Mi interessa il ritmo. Mi interessa il cosiddetto «ibrido», la possibilità di portare la narrativa alla saggistica e viceversa, lo stile dunque. Mi interessa lo stile. Mi interessa scrivere su uno scrittoio con prospettiva sul viale del tramonto.
In riferimento alla filosofia e alla cultura romena in generale, quali nomi hanno attirato la sua attenzione?
Più che di attenzione, parlerei di Cioran come parte della mia prima formazione. La formazione inizia subito dopo la fine dell’università. La Facoltà di Lettere mi servì per gettare le fondamenta di un edificio che avrei costruito in solitudine. Cioran è parte di un primo momento, di un primo piano dunque, che mi permise di continuare a costruire. Anche con lo scrittore romeno usai l’approccio del dettaglio biografico, incontrando l’amore devoto e cinquantennale di Simone Boué e il trascinamento sensuale di Friedgard Thoma. Dai cenni biografici presi e appresi i mezzi per cominciare l’approccio, mi calai nella sua scrittura, comprendendo l’ineluttabile malattia del vivere, tollerata solo grazie alla possibilità di raggiungere un’isola, l’approdo al suicidio. In Cioran l’idea del suicidio si presenta come l’unica possibilità per riuscire a sopportare l’esistenza, l’unico vero libero arbitrio in dotazione all’essere umano. L’idea di poter uscire di scena in qualsiasi momento aiuta l’uomo a restare sulla scena. Torno spesso sui testi di Cioran. L’inconveniente di essere nati è un «livre de chevet» da aprire in qualsiasi momento, anche adesso per esempio e leggere che «magari si potesse risalire oltre il concetto, scrivere direttamente con i sensi, registrare le infime variazioni di ciò che si tocca, fare quel che farebbe un rettile se si mettesse all’opera!»
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2022, anno XII)
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