Progetto Tetra-. Dialogo con Romana Petri, Daniele Petruccioli, Eduardo Savarese

Questo numero indaga il racconto, la short story, il roman court, il Kurzroman. Probabilmente la formula letteraria più aderente alle esigenze di questa nostra era, così dominata da una comunicazione concitata, frenetica, momentanea. Forse, la più stimolante per ostacolare la disappetenza letteraria delle giovani generazioni. Magari, l’antidoto che la società postmoderna può opporre per incidere sensibilmente sui consumi estetici dei ragazzi: brevità, essenzialità, densità, unicità.
Eppure, il racconto in Occidente possiede una tradizione consolidata, addirittura risalente alle antiche forme orali e ai generi medievali dell’exemplum, del fabliau, del lai. Perché, allora, gioca ancora nella serie B delle scelte autoriali ed editoriali?
La casa editrice Tetra- accetta la sfida, proponendo quattro uscite l’anno, il quattro del mese, con quattro racconti di quattro scrittrici e scrittori diversi: circa 50.000 battute per assecondare il desiderio di scandaglio interiore, di sfogliare la mente, di prestare attenzione a ogni possibile riverbero cerebrale connaturato al coevo modo di porsi di fronte all’umano. Flash emozionali di rara abilità linguistica e affinata tecnica redazionale.
Abbiamo interloquito con Romana Petri, Daniele Petruccioli ed Eduardo Savarese per comprendere come oggi è interpretato un genere antico.


1. In Occidente la tradizione del racconto breve è molto antica, addirittura risalente alle antiche forme orali e ai generi medievali dell’exemplum, del fabliau, del lai, eppure gioca ancora nella serie B delle scelte autoriali. A quali ragioni attribuisce questo status di subordine?

Romana Petri: È così da sempre e non se ne capisce il perché. Gli editori non vogliono quasi mai pubblicare racconti. Dicono che il pubblico non li ama e non li compra. Vogliono ‘investire’ in una storia unica, il romanzo. Ma è effettivamente una realtà inconcepibile. 

Daniele Petruccioli: Davvero non saprei dirlo. Posso affermare però che è un pregiudizio valido sia per la narrativa italiana che per la straniera. In quanto traduttore di romanzi molto attivo, su più di cento libri tradotti dalle mie tre lingue di lavoro (portoghese, francese, inglese) soltanto una percentuale infima sono racconti.
La ragione che mi è stata spesso data per questo vero e proprio ostracismo (che mi ha sempre lasciato di stucco) è che il racconto ‘non vende’, non piace ai lettori. In generale, fino a poco tempo fa, solo i racconti di autori già molto affermati venivano tradotti e pubblicati.
È assurdo, naturalmente, perché il racconto non solo rappresenta una forma molto antica ma forse addirittura un nucleo, il vero prototipo del bisogno di narrare e narrarsi dell’essere umano. Basti pensare alle fiabe. Non credo affatto che il racconto ‘non piaccia’. Piuttosto, forse, la forma racconto nella sua perfezione fulminante, nella sua tipicità archetipica, è anche la più difficile. Ed è quella che meno viene perdonata. A un romanzo si dà un’altra possibilità. Se di un racconto non piace la prima pagina, il lettore non lo perdona. E lascia.
Forse è questo rischio, che gli editori finora si peritavano di prendere.
C’è da dire che le cose stanno cambiando. Ho tradotto più racconti negli ultimi tre anni che nei quindici precedenti. Non solo editori grandi, piccoli e medi cominciano a pubblicare raccolte di racconti con più facilità, ma nascono anche collane e addirittura case editrici specializzate. Per esempio la collana Formebrevi di Del Vecchio Editore o la casa editrice romana Racconti Edizioni, che il racconto ce l’ha addirittura nella ragione sociale, per così dire. Tetra- è l’ultimo fulgidissimo esempio di questa tendenza. Ma per fortuna non è sola.

Eduardo Savarese: Le scelte autoriali, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, rispondono alle esigenze editoriali. Queste, col tempo, soprattutto, in Italia hanno posto in secondo piano il racconto.



2. «Un’idea folle» e «una sfida», quella di «dare risalto alla narrazione breve», come l’ha definita Roberto Venturini, direttore editoriale del progetto Tetra-. In qual misura reputa che la short story possa rispondere alle esigenze di questa nostra era, così dominata da una comunicazione concitata, frenetica, momentanea?

Romana Petri: Probabilmente il racconto ha il vantaggio di essere letto in breve tempo. Un libro di racconti si può interrompere e riprendere quando si vuole. Non c’è il problema di aver dimenticato di cosa si stava parlando e tornare indietro se di tempo ne è passato troppo.

Daniele Petruccioli: Ecco, se proprio devo essere sincero questa sarebbe l’unica ragione per non scrivere storie brevi. Se c’è una cosa che non sopporto è l’ansia (fintamente) contemporanea del breve e del brevissimo, quantitativamente e temporalmente. Se c’è un’espressione che detesto è ‘in un tweet’ – non foss’altro perché i veri cinguettii sono lunghi ed elaborati (lo so perché ho tradotto un libro – peraltro di racconti – in cui i cinguettii degli uccelli svolgevano un ruolo da protagonisti). Ci vuole tempo, pensiero, distanza, prospettiva. Soprattutto per capire la contemporaneità. Ma questo non vuol dire che non si possa poi condensare tutto ciò in quella forma tanto archetipica e privilegiata di cui parlavamo. Solo che ci vuole più tempo, più distanza, più lavoro. Non meno. Ecco, allora, forse, il racconto può diventare una lettura della contemporaneità in seconda battuta. Ho il vago ricordo di aver letto in gioventù un appunto o una poesia di Brecht dove racconta un sogno in cui deve dare un esame di scrittura che consiste nell’attraversare un mercato e poi descriverlo con più parole possibile prima, con meno parole possibile poi. Ecco, secondo me la contemporaneità è come il mercato sognato da Brecht. Bisogna saperla raccontare prima sotto tutti gli aspetti, poi sotto quello che ci sembra più fulminante. Il racconto è la seconda parte dell’esame. Colpisce di più. Ma senza la prima non vale.

Eduardo Savarese: Non credo che la short story risponda alle esigenze di velocità della nostra era. In verità, in essa può condensarsi un elevato contenuto e un altrettanto elevato di ‘stile’. E questo può esigere un’attenzione duplicata. Insomma, la brevità non è velocità.



3. Buzzati considerava il racconto «la sua forma di espressione preferita», «una struttura breve e agile», che «non fa in tempo a stancare il lettore, neanche quando è brutto, perché mal riuscito». Diceva inoltre che scrivendo i suoi racconti aveva l’intenzione di divertire e di commuovere i suoi lettori. Nel suo caso, quali ragioni l’hanno indotta a offrirci un’opera che, per definizione comunemente accolta, deve collocarsi tra le 8.000 e le 30.000 battute?

Romana Petri: Ho accettato la vostra proposta e mi sono messa a scrivere. A me piace scrivere racconti. Con i racconti ho esordito e ho continuato a scriverne anche per il puro piacere di farlo, perché un’idea arrivava. E quando un’idea si presenta, chi scrive già sa se sarà racconto o romanzo. Inoltre c’è un gioco che con i racconti si può fare: possono essere trasformati in romanzi. Un romanzo non credo che possa diventare racconto. Parola di Flannery O’Connor.

Daniele Petruccioli: A dire il vero Venturini ci ha chiesto qualcosa di leggermente più lungo, intorno alle 50.000 – e questo proprio per la vocazione, secondo me bellissima, di Tetra- che consiste nel fare di ogni racconto un libro. Questo lo trovo veramente bellissimo. Scorporare il racconto dalla sua collocazione ovvia, che è quella di essere in gruppo. Dargli uno spazio solitario. Che tuttavia solitario non è, perché ogni 4 mesi escono 4 racconti, indipendenti sì (gli autori non sanno cosa scriveranno gli altri 3 della «quartina») ma comunque accostati uno con l’altro. Questo cortocircuito da solo mi avrebbe indotto a partecipare. Ma non solo, naturalmente. Ci sono poi le ragioni personali di ciascun autore, e quelle specifiche di ciascun racconto. Nel mio specifico, e in questo caso, volevo scrivere una passeggiata interiore, facendola come incidentalmente coincidere con una passeggiata per la mia città. E una passeggiata non può durare troppo a lungo. Dunque è stato naturale pensarla con un numero di passi, di frasi, di parole limitato.

Eduardo Savarese: Mi ha indotto Roberto Venturini dicendomi: sei totalmente libero, dentro la misura che ti assegniamo.



4. Brevità, essenzialità, densità, unicità sono elementi essenziali del roman court. Ebbene, data siffatta premessa, l’ideazione di un personaggio come si concilia con il desiderio di scandaglio interiore, di sfogliare la mente, di prestare attenzione a ogni possibile riverbero cerebrale connaturato al coevo modo di porsi di fronte all’umano?

Romana Petri: Nulla è impossibile. Si può fare tutto questo anche in uno spazio breve. Forse ci vuole solo più concentrazione nello scegliere le parole. Bisogna pensare di doverle pagare, e dunque farlo con cognizione di causa. Valutare, evitare le ripetizioni a meno che non siano intelligentissime.

Daniele Petruccioli: Si concilia, credo, scegliendo una fase, un momento, un precipitato di quel personaggio. Una crisi. Un momento di cortocircuito, in cui si mette in discussione tutto il passato per vedere se può esserci un futuro. Almeno, è quello che ho cercato di fare nel racconto che ho scritto per Tetra-. Poi non vuol dire che non debba esserci spazio per una serie di eco, di riverberi come dicevate, di corrispondenze se vogliamo, anche estese, complesse, ramificate. Vogliono un’altra forma però. Del resto, dire di amare il racconto non significa affatto rinnegare il romanzo. Sono forme diverse che servono a modi e moti creativi diversi, a diversi sguardi, diversi punti di vista dai quali raccontare magari la stessa storia. In effetti mi rendo conto di star girando da un po’ intorno alla stessa idea. E allora la verbalizzo: sarebbe bello provare a (ri)scrivere una stessa storia in forme e generi diversi. Chissà che ne verrebbe fuori.

Eduardo Savarese: Soltanto uno sguardo penetrante capace di ‘dominare’ la materia narrativa – dominio che può derivare da una lunga frequentazione di quella materia, oppure da un talento speciale nell’accedere a forme istantanee e rapinose di conoscenza – è in grado di dare alla luce una narrazione breve che non mette a repentaglio la profondità della restituzione narrativa, in particolare dei personaggi.



5. I flash emozionali connaturati alla narrazione breve richiedono una rara abilità linguistica ma anche un’affinata tecnica redazionale. È il «correlativo oggettivo» la chiave di volta per incantare il lettore o la segnaletica stradale della punteggiatura?

Romana Petri: Non credo che il racconto richieda un’abilità linguistica diversa dal romanzo. La necessità è quella di concentrare. Bisogna fare attenzione a dire le cose una volta sola, perché non si possono distanziare come in un romanzo, e dunque scegliere la più “emozionante” proprio come vuole il “correlativo oggettivo”. La punteggiatura va sempre curata, ma direi a togliere più che ad aggiungere. Appesantisce troppo. Direi anche come effetto visivo.

Daniele Petruccioli: Non penso ci sia una ricetta specifica, una gerarchia dell’uso delle tecniche di narrazione e degli artifici stilistici per questa o quella forma. Se è vero che, in primissima battuta, tenderei a pensare che la pointe (e quindi il simbolo, il risvolto, il correlativo oggettivo se volete) sia lo sbocco naturale di una forma breve, è anche vero che ho letto una quantità di racconti stupendi basati su un periodare martellante (penso ai più brevi di Kafka, per esempio) o su una sintassi quasi simbolista (l’arte per me quasi inarrivabile di Alice Munro, per esempio, mi sembra costruita molto sul connubio lacerante tra la banalità – apparente – degli accadimenti e la smisurata poesia delle frasi, che ne svelano il sublime). Quando sei bravo come questi mostri si può fare tutto.

Eduardo Savarese: Non esiste una chiave di volta oggettiva valida ad assicurare il risultato che lei ci indica. Deve invece esistere una strada, quale che sia, che assicuri alla voce narrante di accordarsi alle ‘visioni’ che animano le narrazioni breve.



6. Con Verga, Pirandello, Buzzati, Cassola, Tabucchi, fino ai nostri giorni, il racconto breve ha trovato un campo particolarmente favorevole in Italia. Quali nomi di scrittrici vorrebbe aggiungere?

Romana Petri: Elsa Morante, Goliarda Sapienza. Oggi Nadia Terranova, Rossella Milone, Valeria Parrella.

Daniele Petruccioli: Ah, ma sono tantissime, da Morante a Ginzburg, da Grazia Deledda (che ha scritto sia racconti brevi che novelle) ad Alba de Céspedes... Forse però quella a cui sono più legato in assoluto è Anna Maria Ortese. Mi strega sempre, con ogni storia, ogni frase. Tra le scrittrici giovani mi è molto piaciuta una raccolta di Nadia Terranova uscita qualche tempo fa per Perrone e intitolata Come una storia d’amore. E proprio quest’anno sono rimasto incantato da una breve raccolta di Valeria della Valle uscita per Einaudi, La strada sognata.

Eduardo Savarese: Giusi Marchetta e Rossella Milone, che hanno scritto anche racconti lunghi molto belli.



7. La disappetenza letteraria delle giovani generazioni avanza ineluttabilmente. Qual è l’antidoto che la società postmoderna può opporre per incidere sensibilmente sui consumi estetici dei ragazzi?

Romana Petri: Nulla. Non c’è più niente da fare. Lo dicono tutti i librai: i ragazzi leggono molto fino ai dodici anni, poi smettono del tutto. Gli occhi se li bruciano tutto il giorno sul cellulare. Leggono lì. Ci sono le eccezioni, ma sono irrilevanti. I lettori muoiono e non vengono sostituiti.

Daniele Petruccioli: Non sono tanto d’accordo, sapete? Temo che le generalizzazioni siano sempre un po’ pericolose. E comunque non mi sembra che le giovani generazioni abbiano perso il gusto del raccontare e di farsi raccontare storie. Certo, le forme cambiano. Forse è vero che qualcuno fa un po’ più fatica a tenere il passo con il fiato lungo della letteratura, vista l’irruzione inarrestabile dell’immagine nell’immaginario, se mi passate il bisticcio. Ma è la prima volta? La storia del teatro, da Eschilo a Sarah Kane passando per Calderón e Brecht, ci insegna che le grandi narrazioni sono sempre anche rappresentazione. Del cinema nemmeno dico, è troppo ovvio – e vale anche per la serialità. Quanto ai videogiochi, perfino i giochi ‘sportivi’ come Fifa (lo dico da padre di due adolescenti – maschio e femmina – che leggono molto ma stanno anche molto attaccati al video nelle sue varie forme: molto più di me alla loro età, è forse questo a spaventarci...), anch’essi mi sembrano saldamente ancorati alla narrazione: telecronache, quadri narrativi, ‘carriere’, ‘ricerche’... è tutto teatro. Non manca nemmeno un accompagnamento musicale tutt’altro che disprezzabile. Personalmente credo che non dovremmo avere la presunzione di pensare che il nostro rapporto con quello che chiamiamo ‘letteratura’ sia l’unico possibile, né soprattutto il migliore possibile. Solo così non perderemo le future generazioni e magari riusciremo di trasmetter loro qualcosa. Altrimenti ci molleranno bellamente. Il tempo è dalla loro.

Eduardo Savarese: Saper comunicare in modo elegante ma avvincente. La cultura va trasmessa. Le giovani generazioni riconoscono subito fascino e qualità nei modi di trasmissione.



8. Il panorama letterario contemporaneo, nazionale e internazionale, presenta notevoli complessità. Dove si dirige la Letteratura nel tempo, pur interessante, della serialità?

Romana Petri: Si dirige verso gli occhi. Oggi si guardano serie televisive in modo compulsivo. Ce ne sono di straordinarie, ma sono l’eccezione. In genere si torna a casa stanchi dal lavoro, si cena frettolosamente, e poi ci si abboffa di storie veloci, sovrapponibili. Dimenticabili.

Daniele Petruccioli: Non lo so. Né so dove si dirigesse prima. Mi sembra che la letteratura senza maiuscola, quella, per citare ancora Brecht, delle cose usate, logorate dalle mani umane e quindi tanto più utili e più vive, non abbia mai avuto remore o pudori. Ed è così che ci ha regalato i suoi capolavori, che peraltro solo il tempo, il pensiero, la distanza, ci permette di riconoscere come tali. Come sempre, scivola e cola nei mille rivoli del nostro tempo – di cui, incidentalmente, la serialità mi sembra solo un aspetto, forse tra i più glamour ma non per questo necessariamente più longevo... staremo a vedere. Con coraggio, curiosità, cura, la letteratura si occupa di noi. Quello che poi si coagula e che resta, che dipinge e che caratterizza un’epoca, è sempre l’epoca successiva a dirlo.

Eduardo Savarese: Domanda troppo ampia. La Letteratura si dirige verso la rielaborazione della presenza divina nelle nostre vite. O forse è solo il mio auspicio.

 













A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 10, ottobre 2022, anno XII)