Ignazio Licata: «La Romania mi ha dato una visione forte e unitaria di una grande storia culturale»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Nell’ambito dei nostri Incontri critici, ospitiamo qui Ignazio Licata, fisico teorico presso l'Institute for Scientific Methodology (ISEM) di Palermo, la School of Advanced International Studies on Theoretical and Nonlinear Methodologies of Physics, Bari, e l’International Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences (IIAMIS), B.M. Birla Science Centre, Hyderabad, India. Nel 2008 riceve il Premio «Le Veneri» a Parabita (Lecce) per l'attività di seeding culturale sui temi dell'interdisciplinarietà, e nel 2012 il premio per la Best Lecture «Quantum origin of time» alla International Conference on the Concept of Time, Al Ain (UAE). Si occupa attivamente dei rapporti tra arte, scienza e letteratura, e di recente ha pubblicato Resistenza del mondo. Connessioni (in)attese fra scienza ed arte (Divergenze, 2021).


Rievocando la provocazione di Charles Percy Snow, il quale denunciò l’avvenuto divorzio tra cultura scientifica e cultura umanistica, reputa che davvero esista una schisi tra scienza e arte?

In realtà il libretto di Snow mirava a un obiettivo più specifico. La scienza delle università-pensatoio, com’erano state Gottinga o la Cambridge della sua gioventù, avevano lasciato da un pezzo il posto a una scienza come motore industriale e militare. Poiché tradizionalmente la classe politica di un paese si forma su studi umanistici, Snow poneva una questione molto precisa: in un mondo in cui problemi e soluzioni richiedono una grande quantità di conoscenza scientifica, come si possono prendere decisioni efficaci senza formazione scientifica e privi di una politica della scienza? Ricordiamoci che Snow fu assistente del ministro per la tecnologia del lavoro nel governo di Harold Wilson. Nella sua bellissima prefazione per Apologia di un Matematico del suo amico G. H. Hardy, rievoca i circoli memorabili dell’età edoardiana in cui filosofi come G. E. Moore, economisti come J. M. Keynes, pittori come Vanessa Bell (sorella di V. Woolf) e critici come R. Fry si incontravano regolarmente realizzando di fatto un’unità culturale oggi impensabile. L’interpretazione del pamphlet di Snow come schisi, che è un difetto morfogenetico di saldatura nella colonna vertebrale, è più adatto ai nostri giorni. Infatti, la tecnoburocrazia e l’entrata della scienza come protagonista nella società dello spettacolo assieme all’arte e alla letteratura, producono un impoverimento su entrambi i fronti con la conseguenza di un dialogo stilizzato e infecondo e pongono il falso problema del dialogo scienza-arte-letteratura, come se la questione riguardasse la ricerca di una chiave magica per far riprendere i contatti interrotti. Questo è uno dei temi sottotraccia nell’ultimo Houllebecq, Annientare: l’uomo colto manca sistemicamente di esattezza, gli specialisti di visione. Il flusso della cultura è uno, ogni cosa si alimenta delle altre, sono i limiti mentali che ci siamo imposti ad aver ridotto questo nutrimento in piccoli rivoli per irrigare giardini di plastica.


L’arte e la scienza pare che siano espressione dell’Homo sapiens di formulare un pensiero astratto e di utilizzare queste capacità per elaborare una rappresentazione complessa del mondo. Stante la sua ricerca, ravvede un’origine evolutiva del senso estetico?

C’è una frase molto bella di G. Edelman nel suo libro con G. Tononi sull’evoluzione della coscienza, che recita pressappoco: «Dove prima c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino, si è sviluppata quella di riconoscere un Cabernet o un Sauvignon». Rende bene l’idea che ampliare lo spettro delle nostre distinzioni è un elemento chiave delle capacità cognitive. All’interno di questo spettro sempre più complesso si trova l’attitudine a rivelare bellezza sotto forma di configurazioni regolari, coerenti. Questo è il bello che potremmo dire gestaltiano. C’è un’altra accezione, a cui ho dedicato parte del mio libro, che ha a che fare con la cultura. Ogni artista o scienziato sa scegliere, all’interno di un insieme di possibilità, la soluzione più efficace, più elegante, più semplice e allo stesso tempo più profonda. Che è anche bella. Dunque, la bellezza è anche la «mossa efficace», quella che dà forma ad un paesaggio prima confuso e incerto.


Gli scienziati esercitano la creatività mediante un modello di carattere intuitivo e un modello di carattere analitico. Quello intuitivo è essenzialmente affine al modello creativo degli artisti. È l’intuizione la molla scatenante la creatività sia in ambito artistico che scientifico?

Risponderei senza dubbio sì, ma va specificato che l’intuizione creativa non è un elemento astratto e universale, si inserisce piuttosto in uno scenario di conoscenze e problemi, all’interno di uno stato dell’arte e di una cassetta degli attrezzi. Manipolando formule, figure, scritture e cercando di aggiungere qualcosa a un paradigma dominante, o scardinarlo del tutto sulla spinta specifica di un’esigenza, si iniziano a vedere vagamente nuove connessioni e possibilità, si abbattono vincoli e se ne producono altri, fino a produrre qualcosa di stilisticamente definito.


I concetti scientifici e la visione scientifica del mondo hanno influenzato l’arte in modo rilevante. La scienza influenza l’arte?

Dipende da cosa intendiamo con il termine «influenza». Se ci riferiamo alle tecniche, c’è una storia lunghissima di esempi che va dalla prospettiva di Piero della Francesca alla Light Art all’arte transgenica del coniglio fluorescente di Edoardo Kac. È quello che nel libro chiamo l’incontro ‘a valle’, dove vengono mutuate delle tecniche. Ritengo più importante l’incontro ‘a monte’, quello degli intenti cognitivi che giustifica l’uso di queste tecniche in vista di un obiettivo culturale ed estetico e che va oltre lo spettacolo degli effetti ed è parte delle ragioni dell’opera. Ad esempio, in Piero della Francesca l’uso della prospectiva pingendi è volto a esaltare l’aspetto iconico e sacrale delle rappresentazioni, è una sorta di inno religioso di un matematico platonico. Anche la protoprospettiva di Giotto ha un fine religioso, perché è l’adozione dell’occhio di Dio che vede alcune cose più grandi e altre più piccole. Restando a monte, possiamo dire che la conoscenza scientifica ha sempre influenzato l’arte e la letteratura perché le vicende umane sono sempre inscritte in una visione del mondo. Pensiamo alla fenomenologia di Proust, alla scienza della navigazione in Melville o all’intelligenza artificiale in Macchine come me di Ian McEwan, autore da sempre interessato alla scienza, che conobbi al Birbeck College nel circolo di David Bohm.


Soventemente, arte e scienza colgono all’unisono lo «spirito dei tempi». Qual è oggidì lo status di questo inatteso connubio?

Bella e difficile domanda. Per tentare una risposta bisogna porsi fuori da quella che si chiama storia interna delle pratiche, ossia l’insieme dei problemi e delle tecniche che ne vincolano l’andamento, e cercare di guardare tutto dal di fuori. Mi vengono in mente la proliferazione di tante forme di cosmologia quantistica, racconti sull’origine e la storia della materia, l’aumento di interesse per la complessità, l’esigenza di rincorrere i processi del mondo, la bellezza enigmatica e affilata di molta arte contemporanea, il ritorno di interesse per il jazz, una musica decretata morta a ogni generazione che indica il bisogno di con-fonderci con il mondo molto più di quanto non faccia il vecchio sciamanesimo del rock; penso a Houllebecq e Cărtărescu, ai temi che attraversano molti film e soprattutto serie televisive, e l’impressione è quella dell’attesa di un nuovo confine e dell’insicurezza di poterlo superare. Forse è stato sempre così ma il senso d’urgenza è assolutamente nuovo e attraverso le due «eresie del fare», scienza ed arte, ci chiede di metterci in gioco in modo radicale.


Qual è lo status attuale della critica in Italia, come istituzione culturale e manifestazione del pensiero critico?

Un territorio devastato in cui sono rimasti i simulacri di ciò che era davvero un’attività critica. Quest’ultima si nutre di orizzonti da attraversare, individua confini all’interno di un sistema per ampliare, modificare, arricchire il tessuto dei saperi e delle pratiche che lo alimentano, quella che in sintesi possiamo definire l’ideologia del sistema, ciò che offre la parvenza di unità e necessità. Lo spirito critico nasce quando un soggetto è in grado, per via della prospettiva adottata, di vedere di una visio ben radicata e diffusa capace di nutrirsi delle contraddizioni dell’ideologia dominante e indicare, a partire da quelle, lo sviluppo di storie possibili. È qualcosa di radicato nel percorso storico e sensibile ai segnali di frattura e deriva, un amplificatore di complessità. Gli scenari politici del secolo scorso hanno perso gran parte della loro spinta propulsiva e si sono rivelati incapaci di rinnovarsi, al loro posto è in atto un processo di linearizzazione radicale in cui la complessità viene svuotata a favore della sua caricatura mediatica. Una caratteristica del turbocapitalismo è quella di promuovere un pensiero-prodotto, la cui funzione è quella di simulare la pluralità mentre i suoi hashtag gestiscono i processi di omologazione. Pensiamo ad esempio ai falsi dibattiti sul politicamente corretto, in cui si delineano due posizioni contrapposte che non rispecchiano nulla della complessità effettiva degli eventi sociali. In Italia questi processi si sono instaurati con facilità, innestandosi sull’antica tendenza provinciale allo scontro tra «guelfi» e «ghibellini».


Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama culturale italiano e internazionale?

Lo svuotamento della democrazia, l’avvento della tecnoburocrazia, i processi di virtualizzazione sono tendenze universali, una crisi che è oggi l’Occidente, con tonalità diverse. Una risposta omeostatica generalizzata è il ritorno dei vari nazionalismi, una fuga in quello che Gospodinov ha chiamato i cronorifugi, ma si tratta di una reazione incongrua, spesso scomposta. È necessaria una visione totalmente nuova fondata sulle criticità dell’antropocene per ripensare l’intero spettro delle attività umane, ma senza rinnegare le potenzialità della virtualità che offrono potenti risorse per il cambiamento, esattamente come l’industrializzazione forniva, secondo Marx, la premessa materiale del socialismo.


In riferimento alla cultura romena, quali nomi hanno attirato la sua attenzione?

Il mio incontro con la Romania passa attraverso una serie di nomi nei quali mi sono imbattuto direi casualmente e negli ultimi anni si sono rivelati fortemente connessi, dandomi una visione forte e unitaria di una grande storia culturale. Inizierei da Imre Toth, un filosofo della matematica le cui analisi hanno mostrato come le conquiste razionali sono sempre innestate su un mare magnum in cui filosofia, arte, immaginazione ed emozione si fondono in maniera essenziale per la produzione di pensiero, cosa che sarebbe piaciuta a C. G. Jung e Mircea Eliade. Gli appassionati di musica italiani della mia generazione sono stati segnati dalle attività di Roman Vlad e dal suo celebre libro su Stravinskij, come dallo straordinario pianismo di Radu Lupu. Amore recente è Mircea Cărtărescu, sicuramente il più grande scrittore contemporaneo, l’autore che regala i sogni romeni per nutrire un’Europa che ancora non c’è. Un fenomeno simile si manifesta nel nuovo cinema rumeno, che in modo non ideologico sta indagando quelle situazioni in bilico che caratterizzano il nostro oggi, come nel cinema di Mungiu o di Porumboiu, quest’ultimo con la raffinata analisi dei linguaggi in forma di noir de La Gomera.







A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 4, aprile 2022, anno XII)