Finzione e personaggio romanzesco. In dialogo con Gloria Scarfone

In Incontri critici dialoghiamo con Gloria Scarfone, assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell'Università di Pisa. Si è formata alla Scuola Normale Superiore e ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi italianistici/Études italiennes all’Università di Pisa e all’Université Sorbonne Nouvelle di Parigi (2021). Ha pubblicato tre monografie: Goliarda Sapienza. Un’autrice ai margini del sistema letterario (Transeuropa 2018), Il pensiero monologico. Personaggio e vita psichica in Volponi, Morante e Pasolini (Mimesis 2022), Anatomia del personaggio romanzesco. Storia, forme e teorie di una categoria letteraria (Carocci 2024). Con Il pensiero monologico nel 2023 ha vinto la IV edizione del Premio per la giovane critica letteraria «Dino Garrone». Ha inoltre introdotto e co-curato il volume «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». Per una genealogia del romanzo familiare italiano (Pisa University Press 2020), introdotto e curato la prima traduzione italiana di Dorrit Cohn, Il monologo autonomo. Penelope di Joyce e le sue varianti (Pacini 2021) e co-curato il numero monografico di «allegoria» (XXXV/88, 2023) Rappresentare il desiderio lesbico: un’indagine sulla narrativa italiana (1930-1967).

 

Professoressa, lei propone un viaggio attraverso una delle categorie più problematiche e discusse della teoria letteraria del Novecento: il personaggio romanzesco. Qual è l’interesse attuale nei confronti di questa categoria?

Almeno a partire dagli anni Novanta, l’interesse nei confronti della categoria di personaggio è stato tendenzialmente crescente. Una volta lasciata alle spalle la fase strutturalista, con tutto ciò che presupponeva (il rifiuto del soggetto, della psicologia, dell’antropomorfismo), il personaggio è tornato a essere protagonista della teoria e della critica letteraria, prima in ambito francese (con figure come quelle di Paul Ricoeur e Vincent Jouve) e poi, e soprattutto, in ambito anglosassone (prima con la generazione di Baruch Hochman e poi con quella di Alex Woloch). Oggi credo che a garantire l’interesse nei suoi confronti stiano anzitutto due fattori: la centralità degli studi cognitivi e l’interesse nei confronti della non fiction. Per il cognitivismo, il personaggio è il baricentro emozionale dell’esperienza dei lettori, in base a una presupposta (e a mio parere discutibile) analogia tra il funzionamento delle menti reali e quello delle menti finzionali – in base al presupposto, cioè, che i personaggi non siano poi così diversi dalle persone. Seppur in maniera diversa, è un punto centrale anche per quella grande galassia di racconti che oggi cerchiamo di afferrare sotto l’etichetta di non fiction: storie vere, realmente accadute e documentabili che però non rinunciano a servirsi degli strumenti formali e delle strategie discorsive tipiche della letteratura d’invenzione. In questi testi, i personaggi sono persone reali e ci interessano proprio in quanto tali. È difficile pensare al personaggio come a una «funzione testuale determinata dall’intreccio» (secondo le parole d’ordine dello strutturalismo) quando quel personaggio è il Jean-Claude Romand dell’Adversaire di Emmanuel Carrère.

Le pagine attraversano i capisaldi della narratologia novecentesca (Lukács, Cohn, Bachtin, Genette, Barthes e molti altri). Perché ha sentito il bisogno di tornare a ripercorrere questi momenti della storia della critica?

Perché mi sembrava indispensabile trovare una dialettica tra queste nuove prospettive sul personaggio e quelle precedenti. Sentivo che sarebbe stato profondamente sbagliato semplicemente tagliare i ponti con tutte le analisi formali che la teoria del Novecento ci aveva offerto, in nome, per esempio, di un’analisi integralmente culturale. Se Roland Barthes sbagliava a considerare il personaggio un semplice être de papier, sarebbe stato altrettanto errato dimenticare che è anche un être de papier, che è costruito e funziona secondo meccanismi profondamente diversi da quelli di cui si servono gli esseri umani nella vita quotidiana. La vera domanda cui mi sembrava di dover provare a dare una risposta era: attraverso quali strumenti specifici il testo riesce a costruire un’immagine verosimile dell’individuo? Di qui lo studio delle tecniche (l’analisi introspettiva, il monologo interiore, la focalizzazione) e delle dinamiche (il rapporto tra autore ed eroe, la dialettica tra particolare e universale) che rendono tale un essere di finzione.

Cos’è la «finzione»?

Questa è una domanda che ci ossessiona almeno dai tempi di Platone e sarebbe illusorio pretendere di dare una risposta esaustiva in questo spazio. Posso però provare a circoscriverla nel modo più semplice possibile. Nell’etimologia del termine, il latino fingere, sono sedimentate due accezioni: una ha a che fare con la menzogna, con il falso (fingere nel senso di «mentire», «simulare»), l’altra con la creazione, con l’invenzione (fingere nel senso di «plasmare», «inventare»). Quando si parla di finzione nell’ambito della teoria letteraria è soprattutto la seconda accezione a essere chiamata in causa: il romanzo è il genere principe della fiction perché è il genere che per eccellenza negli ultimi tre secoli è stato capace di inventare: storie, individui, mondi possibili. La teorica della finzione cui più mi rifaccio nei miei studi è Käte Hamburger, autrice di un testo capitale, Die Logik der Dichtung (1957), che purtroppo è stato tradotto in Italia solo nel 2014 (La logica della letteratura). Ecco, per Hamburger la letteratura è capace di plasmare l’immagine della vita soprattutto attraverso il personaggio in quanto soggetto che parla, sente, pensa e vive; è la possibilità dell’introspezione a distinguere la finzione epica e romanzesca dalla storiografia fondata sulla verificabilità delle fonti. Il libro di Hamburger è complesso, ma nei fatti offre una risposta molto semplice all’interrogativo «che cos’è la finzione»: è l’unico luogo in cui possiamo conoscere gli altri come noi stessi, risolvendo per un istante quell’asimmetria ontologica che nella vita quotidiana ci rende inaccessibili i pensieri e i sentimenti delle altre persone. 

Quali prospettive sono rivenibili già in Platone e Aristotele e perché comincia con loro il suo libro sul personaggio?

In un certo senso, proprio perché sono i primi teorici della finzione e del verosimile. Nella Repubblica, Platone bandisce i poeti dalla Città Ideale dopo aver definito i racconti «ingannevoli finzioni, che però racchiudono in sé una parte di vero» (Rep., II, 377 a), perché questo statuto ibrido del racconto (misto di vero e falso)espone i lettori (e quindi i cittadini) al pericolo del contagio mimetico – al rischio, cioè, di essere ingannati da una finzione che compromette la conoscenza della verità. Eppure, nella tappa successiva alla Repubblica (il Timeo), è proprio Platone a definire «straordinario ma interamente vero» (Tim., 20 e) il racconto del mito di Atlantide, un racconto in cui molti critici hanno visto «il primo esempio di finzione narrativa nella letteratura greca» (Gill 1979).
Nella Poetica, Aristotele spiega che l’arte mimetica è una riconfigurazione dell’empirico, una messa in forma del mondo che non cerca di riprodurre la pura empiria ma di mostrare la struttura della realtà, preferendo «impossibilità verosimili a possibilità implausibili» (Poet., XXIV, 1460 a). Aristotele fa l’esempio di un pittore che raffigura una cerva con le corna: sebbene un essere del genere non esista in natura – perché, a differenza del cervo, la femmina non ha le corna –, se la cerva viene disegnata in modo verosimile l’arte può raggiungere il suo fine.

Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukács afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Perché è un genere che continua a sfuggire a ogni codice?

Perché è nato per sfuggire a dei codici, e precisamente – è la nota interpretazione di Auerbach in Mimesis – al codice classicista della divisione degli stili (la Stiltrennung), secondo il quale tutto ciò che è basso, realistico e quotidiano poteva essere rappresentato solo comicamente, senza nessun approfondimento problematico. Sin dalla sua nascita nel Settecento, il novel rovescia questo caposaldo delle poetiche antiche, mettendo in primo piano le storie comuni di uomini e donne come noi. Rompe così non solo con il principio mimetico che non giudicava degni di rappresentazione certi individui, ma anche con il principio stilistico che riservava loro un linguaggio comico. Il novel è un genere ibrido per statuto che nasce inglobando altri generi per poi diventare in breve tempo il genere più «contagioso» di tutti (secondo quel processo di romanzizzazione dei generi di cui parlava Bachtin). Le varie forme ibride di oggi – l’autofiction, il personal essay, il memoir, il reportage narrativo, la biofiction –, se pure hanno spostato il baricentro dalla finzione al realmente accaduto (l’interesse per la non fiction di cui parlavo all’inizio), non hanno mai davvero rinunciato né agli strumenti del novel né alla sua aspirazione totalizzante.

 

Quali sono, secondo lei, le sfide più ardue che la critica letteraria, ein particolare l’italianisticadeve affrontare al giorno d’oggi?

Sicuramente la sfida più grande è quella della legittimazione. In base a cosa legittimiamo la nostra presa di parola in un momento storico in cui la critica letteraria non possiede uno spazio di primo piano nel discorso pubblico? Che senso ha oggi parlare di letteratura in un mondo dove la letteratura pare progressivamente soppiantata da altri media, al punto che persino il privilegio dello storytelling sembra esserle stato sottratto dall’onnipotenza della serialità televisiva? Io su questo ho pochi dubbi e credo che la forma di legittimazione più potente che possediamo sia l’insegnamento: trasformando la classe in una comunità ermeneutica dove le opere diventano un luogo privilegiato di condivisione di un sapere e di un orizzonte di valori, possiamo riabilitare il nostro mandato.


Tra narrativa e poesia, la letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2024. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Nonostante la costante e alacre attività di traduzione di cui mi parla, la mia personale percezione è che di letteratura romena in Italia si parli in realtà ancora e sfortunatamente molto poco, soprattutto se facciamo il paragone con altre tradizioni straniere che godono di una fama e di una tradizione letteraria di lunga durata, come quella francese, quella inglese o quella americana. Autrici e autori come Müller, Cioran e Eliade (e più recentemente Cărtărescu) sono ormai parte del canone europeo, ma con alcune differenze specifiche: Müller è recepita soprattutto come un’autrice della Letteratura tedesca; Eliade è noto principalmente come storico delle religioni, mentre la sua produzione romanzesca è molto meno conosciuta; Cioran si è costruito a partire dagli anni Ottanta una folta schiera di ammiratori, ma la sua ricezione francese rimane imparagonabile rispetto a quella italiana per un motivo ovvio: scrive in francese. Al momento, in Italia, l’astro nascente della Letteratura romena mi sembra che sia soprattutto Cărtărescu, forse proprio per la sua capacità di intercettare un canone internazionale (Joyce, Proust, Borges, Pynchon) straniandolo dall’interno, aggiungendovi qualcosa di personale che all’orecchio (ingenuo?) del lettore italiano può suonare peculiarmenteromeno. Insomma, una musica altra da quella che si sente di solito. Al di là dei contesti universitari dove le opere possono essere apprezzate nella loro specificità linguistica e culturale, l’impressione generale è che le opere della Letteratura romena siano tanto più comprensibili quanto più interagiscono in modo conflittuale con i modelli culturali delle tradizioni letterarie che si sono già imposte da tempo come prestigiose (francese, americana, inglese, tedesca). Un’ambivalenza su cui riflettere.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV)