Con Giulia Caminito su «L'acqua del lago non è mai dolce» È Giulia Caminito con L'acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021) la vincitrice del 'Premio Strega Off' che nella quinta edizione è tornato in presenza. Al Monk di Roma, la sera del 7 luglio scorso il pubblico ha votato il proprio favorito tra i libri della cinquina finalista con gli autori sul palco – Emanuele Trevi, Edith Bruck, Donatella Di Pietrantonio, Giulia Caminito, Andrea Bajani. Quello di Strega Off è uno dei voti collettivi che contribuiscono a eleggere il vincitore del Premio Strega ed è composto dal voto del pubblico insieme a quello delle riviste letterarie e culturali selezionate.
Io questo imperativo immaginario o reale lo infrango spesso, sono una persona che raggiunge la commozione molto facilmente e che dedica giornate al pianto, con cura e precisione, cercando fonti plausibili per il diluvio interiore. Ma la mia protagonista è il contrario di me e non piange mai o assai poco. Nei libri metto tutto ciò che non sono, mi trasformo e mi supero, mi peggioro, mi infilo l’armatura. La disabilità è uno dei temi trattati nel suo libro. C’è spazio, nell’agorà, per i duepercenti? Diciamo che nel romanzo non è un tema vero e proprio perché non lo approfondisco, ma è qualcosa che riguarda uno dei personaggi, il padre. Massimo cade in cantiere da una impalcatura e rimane paralizzato a vita. Con la moglie, Antonia, hanno tre bambini, più uno nato da una precedente relazione di lei. Gli equilibri in casa erano già precari perché i due cercavano di farsi assegnare una casa popolare da anni. Antonia in particolare ha fatto della casa la sua ossessione. Dal momento in cui Massimo si infortuna le cose precipitano, il suo ruolo cambia e anche le loro vite. Ho provato con questo personaggio a creare un percorso emotivo all’interno del libro che passa dalla rassegnazione alla depressione, alla cattiveria e poi all’emozione, alla vergogna e alla riconciliazione. È quindi una traccia che si può notare in controluce rispetto alla storia della protagonista Gaia, che è la sua unica figlia femmina. I partiti sono morti; morta è la supremazia della rappresentanza sulla ‘governabilità’. Ebbene, ritiene che la somma di comportamenti individuali commendevoli possa produrre rivoluzioni politiche? Le buone pratiche e il buon senso di certo hanno ormai un ruolo politico e sociale vero e proprio. Il romanzo affronta questo distacco dalla vita politica e dalla presa di coscienza di una dimensione collettiva del vivere e dell’abitare tramite lo sguardo impietoso, egoista e tragicamente adolescenziale della protagonista. I fatti del mondo e le disgrazie sociali sono per lei semplici voci alla radio, il suo presente è quello delle amicizie, dei piccoli tradimenti, delle vendette da compiere al più presto e degli oggetti da riuscire a possedere. Con questo io non ho provato a descrivere gli adolescenti tutti, ma solo a raccontare come anche io, vivendo in provincia, dentro una bolla di pettegolezzi, primi amori e scarpe appena comprate, non abbia incontrato la politica e il pensiero critico almeno fino all’università. Con i miei coetanei ai tempi si parlava di televisione, relazioni struggenti e cosa indossare il sabato sera. Il resto era un brusio insignificante in sottofondo. Le torri crollavano, le guerre continuavano, i governi cascavano e noi eravamo molto soddisfatti di aver modificato le marmitte dei nostri motorini o aver imparate a camminare sui tacchi alti. Le dinamiche interpersonali della sua narrazione narrano di diffidenza, sospetto, paura. Si può giungere innocenti alla morte, scevri di malizia ed egoismo? Credo proprio di no. Gli eccessi di Gaia, la protagonista, sono esasperati ed esasperanti ma penso che ognuno di noi possa trovare vicinanza e distanza rispetto alle sue paure, ai suoi tremori e alle sue scelleratezze, perché sono dolenti ma anche banali, riferiti a cose semplici e comuni, come un voto sbagliato, una risposta cattiva da un compagno di classe o un’amica infedele. È Gaia stessa nel libro a dire ad alta voce «Io odio gli innocenti» quelli di carne e quelli di carta, che trova nei libri che legge. La narrazione ha un valore stimabile? Essa è incidente rispetto alla sua crescita soggettiva? Io ho sempre vissuto nelle narrazioni. Fin da bambina le storie che inventavo, senza bisogno di scriverle ma agendole tramite giochi e giocattoli, sono state fonte di trasformazione ed evoluzione della mia persona, tanto che non mi è più possibile dividermi, non c’è più uno spazio di me che non narri. Anche la mia ansia è narrativa, si sprigiona sui finali possibili e temuti delle mie giornate e del mio stare al mondo.
A cura di Giusy Capone |