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Con Giovanni Casadio, un dialogo interculturale attraverso la storia delle religioni
Giovanni Casadio (Faenza 1950) insegna storia delle religioni all’Università di Salerno. Vicepresidente EASR, Segretario SISR, Socio AAR e Membro onorario a vita della IAHR. Ha tenuto conferenze in tutto il mondo tra cui ERANOS di Ascona. Principali campi di indagine: dionisismo, orfismo, gnosticismo e manicheismo. Da ultimo storia e metodo degli studi storico-religiosi. Muove dalla comparazione e dalla tipologia storica per giungere a un’interpretazione-comprensione che preservi le esigenze della critica storico-filologica. Tra le sue opere: Storia del culto di Dioniso in Argolide (1994); Vie gnostiche all'immortalità (1997); Il vino dell'anima (1999); Ugo Bianchi: Una vita per la storia delle religioni (2002); Mystic Cults in Magna Graecia (2009); Lo sciamanesimo prima e dopo Mircea Eliade (2014) e più di centosettanta contributi, tra cui quattro voci per la seconda edizione della Encyclopedia of Religion (2005) di M. Eliade di cui è stato Associate Editor.
Caro Professore, lei è segretario della Società Italiana di Storia delle Religioni e socio onorario a vita della IAHR (Associazione Internazionale per la Storia delle Religioni), conosce dunque dall’interno l’evoluzione di questo campo di ricerca, dagli anni Ottanta fino a oggi. Quale dei cambiamenti di paradigma in questa disciplina trova più interessante e quali direzioni vede per il suo futuro?
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del terzo millennio (segnato tra l’altro dalla pubblicazione della II edizione della Encyclopedia of Religion, nel 2005, mentre la prima era stata curata da Mircea Eliade e pubblicata nel 1987) lo studio secolare (non teologico) e analitico (cioè basato su una selezione di fonti valutate con metodo rigoroso atto a verificarne l’autenticità e affidabilità) della storia delle religioni ha visto il succedersi di vari paradigmi tra loro in competizione.
Dapprima si sono imposti approcci come quello postfemminista e postcoloniale che hanno aperto inediti angoli di lettura sia per la scelta delle fonti che per la loro valutazione: questi approcci possono riassumersi nel paradigma della riflessività. Successivamente, con la fine degli anni Novanta, sono emersi approcci come quello cognitivo (nella fattispecie la scienza cognitiva della religione) e neo-evoluzionista (etologia e biologia della religione) che sono improntati da un paradigma all’insegna del naturalismo. Nell’ultimo ventennio si sono affermati nuovi orizzonti epistemologici che hanno contribuito a introdurre metodi di approccio radicalmente antistorici come la teoria del discorso, basata sul concetto di «episteme» come dialettica tra sapere e potere sviluppato da Michel Foucault, la teoria della pratica, basata sulle nozioni di campo e di capitale culturale, sociale e simbolico escogitate da Pierre Bourdieu, oltre a varie forme di decostruzionismo più o meno indebitate al pensiero di Jacques Derrida. Siamo chiaramente in una prospettiva postmoderna di «pensiero debole», di relativismo esasperato. Al tempo stesso, e in antitesi evidente ma non sempre ammessa con questa moda, si è affacciata con non minore arroganza e petulanza una tendenza ultra-naturalista improntata a un preteso scientismo che invalida la fondamentale distinzione di W. Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito, tesa a recuperare i valori di un dogmatico e anacronistico darwinismo.
Dal mio primo viaggio in Nord America nel 1989, dove conobbi e interloquii con alcuni dei protagonisti di questo «paradigm shift» (il riferimento a Thomas Kuhn non è casuale, avendolo io preso a modello in alcuni contributi teorici degli anni Dieci) con alcuni dei quali ho conservato cordiali rapporti, ho elaborato una mia prospettiva personale che mi porta a storicizzare e relativizzare la pretesa assolutezza di ogni nuovo paradigma, sulle orme di Kuhn stesso e anche della epistemologia anarchica di Paul Feyerabend. Tutti i paradigmi hanno una loro ragion d’essere, nella misura in cui esprimono uno Zeitgeist, ma non tutti hanno pari dignità e successo nel momento che vengono sottoposti alla prova della ricerca empirica e della storia. Per quanto riguarda la disciplina scientifica che io professo, la Storia delle religioni (una denominazione a livello istituzionale e organizzativo per la quale mi sono costantemente battuto sulle tracce del mio maestro Ugo Bianchi, e credo con un certo successo: la proposta per il cambio del nome a Erfurt 2015 fu respinta anche a seguito di un mio intervento [1]), nome che traduceva nelle lingue romanze l’originale tedesco Religionswissenschaft (Friedrich Max Müller, Introduction to the Science of Religion, 1873), credo fermamente che l’unico decisivo cambio (se non creazione) di paradigma si sia prodotto nella seconda metà dell’Ottocento col confluire dialettico delle correnti più feconde dell’evoluzionismo (E. B. Tylor, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, 1871) con quelle dello storicismo (il citato Müller e il Dilthey della Einleitung in die Geisteswissenschaften, 1883).
Non sono molto ottimista sul futuro. Con rare eccezioni (e penso, oltre ad alcuni sopravvissuti della mia generazione, a pochissimi studiosi nati negli anni Sessanta/Settanta), nel vastissimo campo disciplinare della storia o scienza delle religioni emergono da un lato raffinati studi di ambiti o tipi religiosi particolari, con uno spettro geografico e storico assai circoscritto, dall’altro eroici furori teorici e metodologici viziati però da una scarsa familiarità coi dati della realtà storica e antropologica. Non si vedono dietro l’angolo storici delle religioni della tempra di un Raffaele Pettazzoni, un George Dumézil, un Mircea Eliade, un Geo Widengren.
Dei libri che lei ha scritto, a quale si sente più legato?
Di un libro si potrebbe dire come di un figlio che l’ultimo nato è quello prediletto. E quindi potrei affermare che il tema, anzi i due temi, Mircea Eliade e lo sciamanesimo, attorno ai quali è costruito Lo sciamanesimo. Prima e dopo Mircea Eliade (2014), sono quelli a cui sono ancora più legato, essendo beninteso arrivato allo sciamanesimo attraverso Eliade.
E quale, invece, ha avuto l’impatto maggiore, nel bene e nel male?
Quello che ha avuto l’impatto maggiore, almeno a giudicare dal quotation index e dal numero delle recensioni (nessuna delle quali, salvo forse una, ha colto le intenzioni dell’autore), è stato il primo, Storia del culto di Dioniso in Argolide (1994), che era il risultato di una radicale revisione della seconda parte della mia tesi di laurea del 1981. Al tema del dionisismo nelle sue varie forme si riallacciano una dozzina di articoli e anche la terza monografia, Il vino dell’anima. Storia del culto di Dioniso a Corinto, Sicione, Trezene (1999), più sofferta ma anche più matura e più vicina alla mia attuale forma mentis.
Quali contributi e approcci italiani trova più significativi nella storia delle religioni, dopo Raffaele Pettazzoni?
Non è affatto una domanda facile. Più che di contributi e approcci parlerei di personaggi, perché io credo fortemente nell’individualità degli studiosi/autori e alla inscindibilità della loro opera e metodologia dalla loro integrale visione del mondo. Come voleva la prassi (da me condivisa come associate editor e anche come estensore di voci) del lemmario nella seconda edizione della Encyclopedia of Religion, è consigliabile prendere in considerazione solo autori i quali abbiano concluso il loro percorso vitale. Sui quattro allievi (o almeno prosecutori) del Maestro Pettazzoni che formarono la prima generazione della cosiddetta Scuola di Roma, Angelo Brelich, Vittorio Lanternari, Ugo Bianchi e Dario Sabbatucci, ho già scritto a più riprese, e in forma sintetica nella voce Historiography: Western Studies [Further Considerations] della citata enciclopedia. Credo ancora che tutti e quattro abbiano dato un contributo estremamente significativo allo studio della storia delle religioni a livello globale. Non sarei incline a fare gerarchie anche perché sarei inevitabilmente condizionato dal mio iter personale, essendo stato per venticinque anni non solo allievo ma anche esistenzialmente molto vicino a Bianchi e avendo avuto scontri feroci con gli altri tre, pur con modalità e intensità diverse. Si trattava di uomini dagli orizzonti intellettuali vastissimi ma dominati da forti convinzioni ideologiche con elementi passionali che talora davano luogo a comportamenti settari. Tutti, salvo Sabbatucci che predicò a lungo la «vanificazione dell’oggetto religioso», hanno dato una definizione del concetto «religione». Se si tiene presente che sia Brelich che Lanternari hanno formulato definizioni della religione in chiave funzionalista e sostanzialmente riduttiva alla dimensione utilitaristica, possiamo affermare che un contributo profondamente significativo sia stato dato da Bianchi nella sua formulazione della religione come categoria «analoga», non univoca ma neanche equivoca.
Il suo libro sul tema dello sciamanesimo nelle opere di Mircea Eliade (Lo sciamanesimo. Prima e dopo Mircea Eliade, Roma, 2014) ha una visione panoramica del problema e della bibliografia, è un lavoro di sintesi. Ho notato che in Italia c’è un vivo interesse per questo argomento di studio. Sul tema dello sciamanesimo ritiene che l’approccio dominante in Italia oggi provenga dall’antropologia o dalla storia delle religioni? Possono essere complementari, può esserci un dialogo tra le due aree?
In questo momento in Italia i contributi più fertili vengono dagli antropologi che peraltro spesso hanno una formazione anche storico-religiosa. Sicuramente i due approcci devono essere complementari. La mia prospettiva sull’argomento emerge da uno studio che è – in forma più sommaria – il proseguimento del libro citato: Lo sciamano smembrato dagli sciamanologi: antropologi, filologi, archeologi, storici delle religioni e altri accademici all’attacco (2017), al quale non posso che rimandare. Con l’avvertenza che le mie riflessioni si fermano allo stato dell’arte attorno al 2015, data dopo la quale sono usciti importanti contributi, sia monografici sia in collettanee.
Nel 2012 ha pubblicato nel volume collettaneo Mircea Eliade. Le forme della Tradizione e del Sacro (Ed. Mediterranee, Roma) lo studio Mircea Eliade visto da Mircea Eliade, sul Diario portoghese. In generale, gli storici delle religioni non hanno scritto diari o memorie, considerati generi soggettivi, all’estremo opposto dell'obiettività e del rigore scientifico. Cosa l’ha convinta a scrivere di questo diario?
Dei quattro storici delle religioni che io considero i massimi della prima metà del Novecento (vedi domanda 1) e anche tra quelli della generazione successiva (con la parziale eccezione di Brelich), solo Eliade ha pubblicato volumi di diari e di memorie, ma io ascrivo al «genere soggettivo» anche altri documenti come le lettere e le interviste. Per restare ai nomi che ho finora citato, di Dumézil possediamo una fondamentale intervista a Didier Eribon, mentre esistono, oltre agli innumerevoli carteggi di Eliade, varie edizioni di lettere di Pettazzoni, di Widengren e di Bianchi curate principalmente da Natale Spineto, Domenico Accorinti (Pettazzoni e i suoi corrispondenti) e dallo scrivente (Pettazzoni, Widengren, Bianchi, ma anche Arthur Darby Nock), per tacere di una corrispondenza di importanza fondamentale come quella di due maestri della generazione precedente (Franz Cumont e Alfred Loisy), apparsa di recente. Ebbene, io non credo che l’obiettività e il rigore scientifico siano un dato dipendente dal genere letterario, e al tempo stesso credo che i dati forniti da diari, memorie, lettere e interviste siano di estrema importanza per definire il quadro di una storiografia di carattere riflessivo e anche in tantissimi casi per chiarire il testo e il sottotesto delle opere di storia delle religioni prodotte per il pubblico accademico degli specialisti.
Sul genere letterario (e scientifico) dell’epistolografia sono tornato a varie riprese a partire dal 2007 (proprio in riferimento a Eliade e Bianchi) fino ad oggi (lettere di Mario Gandini, grande biografo di Pettazzoni, allo scrivente). Non posso che rimandare a questi lavori per ogni approfondimento di carattere psicologico, letterario ed epistemologico.
Lei ha avuto l’occasione di conoscere e lavorare con I. P. Culianu, praticamente avete avuto un maestro comune, Ugo Bianchi. Del lavoro di Culianu, cosa la interessa (ancora) esattamente? E cosa pensa che dovrebbe essere (ri)pubblicato per rilanciarlo in Italia?
Del lavoro di Ioan Petru Culianu (Nené per gli amici romeni, Giovanpietro per Grazia Marchianò, che è stata la sua grande amica e sostenitrice italiana) mi interessa ancora tutto, e forse più oggi di ieri. Quando, trent’anni fa, scrissi un ricordo per lui, che fu pubblicato in sei collocazioni diverse in quattro lingue diverse (inglese, italiano, francese e romeno), non avevo ancora l’esperienza dell’accademia e della vita che ho adesso, non avevo ancora letto o riletto tanti dei suoi lavori e lo consideravo quasi solo un esperto di gnosticismo e tardo antico, come tanti, e meno dotato filologicamente di molti tra questi. Solo dopo il mio incontro con la Romania, l’ambiente accademico di Iași e Bucarest in particolare, e avere sondato alcuni dei tanti misteri della sua vita attraverso lo studio di documenti editi e inediti (tra cui quelli che concernono il suo rapporto con Eliade), mi sono reso conto della sua importanza, per la storia delle religioni in generale e per la mia visione della disciplina in particolare. Ritorno continuamente sulle sue opere, in italiano, inglese, francese, ma soprattutto all’edizione/traduzione di tutte (almeno nel piano, ma non è così, come dirò subito) le sue opere, con i frammenti inediti, nella collezione Biblioteca Ioan Petru Culianu, a cura della sorella Tereza Culianu-Petrescu. Anche di recente, quando ho dovuto occuparmi della prosa fantastica di Eliade, il confronto con lui, nel consenso e nel dissenso, è stato costante.
Per venire alla seconda domanda, capisco che io esprimo un gusto e una passione del tutto personali, ma non ho esitazione a rispondere. In primis, e qui mi riallaccio a quanto dicevo nella risposta precedente, aspetto con particolare fervore, pur conoscendone in gran parte i contenuti, l’edizione delle lettere (1974-1987) intercorse tra Culianu e il comune maestro Bianchi, edizione cui attende da un quindicennio Daniela Dumbravă, e che dovrebbe apparire l’anno prossimo in Romania con un commento in inglese. Inoltre, ed è questa una convinzione che ho concepito da subito, da quando dopo la sua morte precoce vari amici, anche in Italia, hanno cominciato a dare una forma viva ai disiecta membra della sua opera, ma che si è rafforzata leggendo una serie di note e frammenti inediti o a me ignoti raccolti nel numero della rivista «Antarès» a lui dedicato nel trentennale della sua scomparsa. Un volume o volumetto che raccogliesse in forma cronologica le recensioni che egli scrisse durante un ventennio, in italiano (soprattutto per «Aevum») e in inglese (soprattutto per «History of religions»), offrirebbe a molti lettori, come lo è stato per me negli anni Settanta e Ottanta, una serie di illuminazioni folgoranti e incrementerebbe a mio parere in modo significativo il suo lascito alla posterità.
Lei è un grande amico e sostenitore dei ricercatori romeni in vari campi. Come valuta l’evoluzione della storia delle religioni in Romania, considerando che si tratta di un campo relativamente nuovo e piuttosto precario dal punto di vista istituzionale? Quale dei paesi ex-comunisti pensa possa essere un «modello» regionale?
Un disegno dell’evoluzione della storia delle religioni in Romania avanti e dopo Eliade fu redatto vent’anni fa dal massimo esperto a livello internazionale, Mac Linscott Ricketts («The History of the History of Religions in Romania», Religion, 32:1, 2002, 71-85), e ricordo ancora l’enorme emozione che provai quando ricevetti l’estratto dall’autore, accompagnato da una dedica fin troppo benigna (all’epoca, a parte il ricordo di Culianu, non avevo scritto nulla su Eliade, solo letto testi redatti da altri al congresso IAHR di Durban nell’agosto del 2000). Nella lettura di quelle pagine, oltre a rafforzare la conoscenza di un Moses Gaster, di cui già possedevo il fondamentale studio The Samaritans (1925), incontrai, a parte i ben noti Eliade e Culianu, dei nomi di giovani e giovanissimi che mi sarebbero divenuti in seguito molto familiari. Degli sviluppi negli anni successivi sono stato testimone da molto vicino, anche perché dal 2007 ho cominciato a penetrare i segreti della lingua e letteratura romena (Eliade e Mihai Eminescu in primis) e a frequentare con una certa intensità quasi tutti e tutte i protagonisti di questi sviluppi, dai circoli di Bucarest a quelli di Cluj-Napoca (meno, ma non per mia indisponibilità, quelli di Iași e Timișoara), interagendo con molte loro iniziative, e spesso condividendole, con sincera passione e talora notevole sofferenza. Di questo non posso parlare qui, sia per ragioni di spazio, sia perché la materia è ancora viva e bruciante.
Per venire al secondo quesito, per ragioni personali, seppur non familiare con le lingue, conosco piuttosto bene la situazione degli studi in Russia e Ungheria, a mio parere assolutamente stagnante in entrambi i paesi. Conosco invece assai superficialmente quella in Ucraina, Polonia, Lituania, Lettonia e Slovacchia. Ho avuto invece esperienza diretta di persone, opere e istituzioni, in Cechia ed Estonia, e posso affermare con sicurezza che gli ambienti accademici di Praga, Brno e Tartu sono vivacemente attivi nel campo della storia delle religioni e della semiotica e antropologia religiosa, e quindi offrono un modello significativo che va forse oltre la mera dimensione regionale.
Intervista a cura di Gabriel Badea
(n. 6, giugno 2022, anno XII)
NOTE
[1] Some statements on the issue of changing the IAHR name presented at the IAHR International Committee Meeting on August 26, 2015, in Operae pretium facimus. Mélanges en l’honneur de Charles Guittard, Paris 2021, 67-71. Anche negli atti ufficiali della conferenza accessibili online (W. De Gruyter).
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