«Pluriball», una riflessione sul potere della scrittura. Dialogo con Gianfranco Mammi Pluriball è l’ultimo romanzo di Gianfranco Mammi, di recente pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti. Una cittadina italiana sconvolta dal Giro d'Italia, un duplice omicidio seguito da altri efferati delitti e un gruppo di detective d'eccezione: gli arcangeli e lo stesso Dio, sceso dal cielo per vestire i panni di un rinomato criminologo.
Fin dall’inizio era mia intenzione scrivere un romanzo «normale», anche se ovviamente travestito da letteratura di genere; in effetti, si tratta più che altro di una riflessione sul potere della scrittura, condotta con tono ironico. Tutti gli elementi del giallo, pur presenti, non sono che una «via» per arrivare al disvelamento finale. Anche lo stile è molto più arioso di quello tipico del giallo; inoltre, per sottolineare la differenza, ho usato i verbi quasi sempre all’imperfetto – cosa che nella letteratura gialla non avviene mai, che io sappia.
Pluriball si configura, anche, come una celebrazione del potere dell’immaginazione. Quale componente riserva all’immaginifico nella sua produzione letteraria? Per me l’immaginazione è la molla principale, senza la quale non nascerebbe assolutamente nulla. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che ho sempre guardato alla scrittura come a puro divertimento, e immaginare un mondo parecchio diverso dalla realtà, crearlo a seconda dei miei «ghiribizzi», è un grande spasso. In più, non parto mai da una trama, bensì da un’idea di base capace di darmi la spinta necessaria per improvvisare frase per frase, dall’inizio alla fine. Per esempio, in Pluriball, questa idea è che Dio si trova sempre in uno stato di confusione mentale, ricevendo miliardi di informazioni al secondo, dal momento che deve controllare e dirigere l’intero universo. Una volta partito con un paio di pagine, i fatti e i personaggi ulteriori si sviluppano quasi da soli, in modo molto più naturale che seguendo una scaletta. La sua scrittura, scorrevole e incisiva, diretta e fluida, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde a una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi? La scelta linguistica è senz’altro pienamente consapevole e scaturisce da una ricerca lunga più di vent’anni, ma non parlerei di influsso televisivo; non guardo serie TV perché da come ne sento parlare dai miei amici entusiasti mi sembrano piuttosto pericolose dal punto di vista della dipendenza che inducono. In ogni caso, fin dall’inizio mi sono sempre tenuto ben lontano dall’italiano «letterario», privilegiando una certa vicinanza al parlato.
Certo i fatti di cronaca nera possono essere di grande ispirazione (si veda ad esempio A sangue freddo di Truman Capote), indipendentemente dallo scopo di verità che un autore si prefigga. All’interno di una trama, poi, la quest di una verità nascosta funziona sempre molto bene. Quanto, secondo lei, è mutato il gusto dei lettori negli anni? Da quanto leggo su alcune riviste e blog di carattere letterario, pare che in Italia la tendenza generale sia quella della standardizzazione e dell’appiattimento verso il basso, verso un tipo di lettura «semplice», facilitata; di questa mutazione sarebbero responsabili soprattutto le grandi concentrazioni editoriali, che mirerebbero ad accondiscendere i gusti del lettore piuttosto che a «educarlo» come succedeva nel secondo dopoguerra. Da questi resoconti risulta inoltre che attualmente sono le piccole o medio-piccole case editrici a svolgere il compito di ricercare nuove voci e nuovi talenti. Non so dire se queste impressioni siano reali o semplici stereotipi; certamente, internet ha cambiato in modo radicale i tempi e i modi della comunicazione, anche di quella narrativa.
Negli ultimi decenni abbiamo visto scritture femminili che non si distinguono in nulla, per tematiche e potenza, dalle voci maschili di un certo valore; penso a figure come Ágota Kristóf e alla sua indimenticabile Trilogia della città di K., come pure, più lontana nel tempo, alla magnifica Flannery O’Connor (ma se ne potrebbero citare tante altre). Tra le italiane mi piace ricordare l’«irregolare» Goliarda Sapienza e il suo Arte della gioia, anche se non si tratta di un libro perfetto. Però il panorama italiano attuale mi pare francamente meno ricco di quello internazionale e più legato alle dinamiche familiari – territorio che forse viene inconsciamente percepito più appropriato e «naturale» sia dalle scrittrici che dagli editori (e – perché no – anche da una larga fetta di pubblico). Non so, magari mi sbaglio io – d’altra parte il tempo che posso dedicare alla lettura è piuttosto limitato e confesso di non avere il polso preciso della letteratura italiana corrente (si parla di millecinquecento uscite a settimana – una cifra comunque sbalorditiva, anche calcolando un alto numero di romanzi tradotti da altre lingue). Del romanzo «genere aperto», come definito da Bachtin, si notano oggi diverse forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice? Penso che il romanzo sia sempre stato un terreno molto fertile, su cui hanno potuto attecchire e talvolta prosperare tantissime piante diverse; alcune strettamente apparentate, altre invece straordinariamente aliene rispetto al genere romanzesco (es. Ulisse di Joyce o Eliogabalo di Artaud). Al momento mi sembra però di capire che non ci sia molto spazio per la sperimentazione, almeno in Italia… Ultimamente vanno di moda i «romanzi» derivati da blog (o altri mezzi dei nuovi media) che abbiano avuto un certo successo, ma questa tendenza mi lascia piuttosto perplesso: che speranza di vita possono avere testi di questo tipo?
Non sono sicuro che la scrittura debba avere per forza un ruolo preciso; se ce l’ha, è molto probabile che la percezione di questo ruolo cambi completamente in base ai luoghi e alle epoche. Per esempio, cosa si aspettava il lettore del tempo da un poeta persiano dell’età selgiuchide (1037-1219)? E che cosa ci ritrova un lettore iraniano moderno, o un lettore occidentale moderno? Ritengo che la scrittura abbia piuttosto un dovere, uno solo: quello di esserci. E di esserci con autenticità. Tutto il resto viene da solo, se deve venire.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone |