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Cinecultura Timisoara 2019. In dialogo con Giampaolo Montesanto e Alessandro Volterra
Nell’ambito del Cinecultura Filmfestival di Timisoara, manifestazione ideata ed organizzata dai lettori di lingue straniere dell’Università de Vest, giunto quest’anno alla X edizione, è stato un piacere avere in cartellone per la seconda volta un documentario dedicato alla presenza italiana in Eritrea. Ospiti d’eccezione del Festival, il regista prof. Giampaiolo Montesanto e il prof. Alessandro Volterra, titolare della cattedra di Storia dell’Africa dell’Università degli Studi Roma Tre di Roma. Nell’ultima delle sei giornate del Cinecultura Filmfestival, sabato 30 marzo, è stato proiettato il secondo documentario di Giampaolo Montesanto dal titolo Italiani d'Eritrea. I meticci. Qui l’intervista ai due invitati.
Professor Montesanto, come è nata l'idea di realizzare un documentario sul tema della presenza italiana in Eritrea?
L’idea di descrivere l’esperienza italiana in Africa Orientale non è recente. Infatti, il lavoro che ho presentato alla decima edizione del Festival Cinecultura, è, come lei ha detto, la seconda parte di una trilogia che nello specifico racconta dei meticci italo-eritei, nati nella ex-colonia africana.
A proposito della Trilogia di cui ci ha accennato, abbiamo avuto il piacere di ospitarla nella casa del Cinecultura Filmfestival tre anni fa; in quell’occasione presentò il suo primo lavoro, dal titolo Italiani di Eritrea, che raccontava le storie di quegli italiani che negli anni ’30, da bambini erano giunti in Eritrea con i genitori e che rimasero a vivere in quel Paese che di fatto era diventato la loro casa, la loro unica casa.
Dopo la perdita della colonia nel ’41, molti italiani rientrarono in Patria, ma tanti furono coloro che decisero di rimanere in eritrea con le famiglie, che negli anni precedenti li avevano raggiunti. Gli Italiani avevano ricostruito soprattutto nella «Piccola Roma», così era ed è tutt’oggi definita la città di Asmara, un tessuto sociale che replicava quello italiano. Non dimentichiamo inoltre che l’operosità e la creatività degli italiani avevano permesso la nascita di un’imprenditoria locale di tutto rispetto.
Tornando ai «meticci» di cui ci racconta nel documentario, chi sono?
I «meticci» protagonisti di questo mio secondo lavoro sono quegli italiani che nacquero in Eritrea dagli anni ‘40 in poi, cioè dopo la promulgazione in Italia, e quindi nell’«Impero», delle leggi razziali del 1938.
Nel suo documentario essi stessi si raccontano, rivivendo il dramma che li interessò quando erano ancora bambini e, in alcuni casi, molto piccoli; come ha affrontato la tempesta di emozioni che i protagonisti delle storie narrate hanno acconsentito a palesare?
Sì, è vero, le loro sono storie di drammi personali che a noi, abitanti del terzo millennio, sembrano a volte torture gratuite ed ingiustificabili; in tutti i racconti è evidente una grandissima sofferenza e chiaro è il ricordo di quel dolore subito senza averne colpa; in alcuni racconti in particolare, si evince anche la non voluta necessità di applicare la legge, dura lex sed lex. Quelle che racconto sono storie di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, giovani uomini e giovani donne, discriminati dalla nascita per via del Fascismo e del razzismo. Ho cercato di ricostruire quella che fu la vita di queste persone tra l’Africa e l’Europa in un cinquantennio. La prima impressione dello spettatore può essere, infatti, quella di trovarsi di fronte a racconti di grande impatto emotivo, ma diciamo pure che ho voluto raccontare non solo quella che è stata una storia di discriminazione e dunque, inesorabilmente, una storia di solitudine, ma in un certo senso anche una storia di riscatto sociale.
Professor Volterra, qual è l’inquadramento del meticciato in Eritrea dal punto di vista storico?
È un tema molto interessante e complesso perché riguarda una vicenda che è quella della storia del colonialismo italiano. Dopo l’avvento del Fascismo, quando l’Italia conquista l’Etiopia nel 1936, inizia quella che gli italiani definiscono l’edificazione dell’Impero, la costruzione cioè dell’Impero coloniale in Africa Orientale. Diciamo pure che il progetto politico era relativamente semplice, era infatti un progetto di colonizzazione demografica, attraverso il quale, cioè, si intendeva costruire un pezzo di Italia in Africa, in cui trasferire degli italiani.
Sappiamo della presenza italiana in Eritrea già dalla fine dell’Ottocento, sappiamo di una presenza essenzialmente militare; quando lei parla di trasferimento di italiani in un pezzo di Italia ricostruito in Africa, a che cosa fa riferimento nello specifico?
La sua domanda mi offre l’opportunità di fare una considerazione che è strettamente connessa al tema del documentario di Giampaolo Montesanto: una delle caratteristiche del colonialismo italiano era quella di essere un colonialismo fondamentalmente maschile; in Colonia erano, infatti, molti di più i maschi che non le femmine e quindi il rischio (del «colonizzatore») era che la seconda generazione di italiani non fosse solo di italiani bianchi, ma di italiani, tra virgolette, meticci.
Per il Paese colonizzatore, cioè per l’Italia e per il suo progetto politico, quanto incise la presenza di una seconda generazione mista, e cioè di bianchi e meticci?
Se vogliamo fare un riferimento numerico, dico soltanto che, a fronte di 12 milioni di africani e di mezzo milione di italiani, il numero dei meticci si aggira intorno alle 6000 unità. È facile dunque comprendere che in quegli anni soltanto da un punto di vista politico i meticci rappresentano un problema, non già dal punto di vista demografico. Nonostante ciò fu fatta tutta una serie di leggi che, partendo dalle leggi razziali promulgate in Italia nel 1938, finisce proprio con la legge del maggio del 1940 sul meticciato.
Nei meticci, che sono appunto gli italo-eritrei che parlano italiano, coesistono dunque ius sanguinis e ius culturae che vengono ignorati totalmente. Che cosa prevedevano le leggi per il meticciato?
Queste leggi erano essenzialmente volte a limitare la presenza dei meticci nei territori delle Colonie, non attribuendo nessun riconoscimento ai figli nati dalle unioni di italiani con eritree, i quali nella quasi totalità dei casi avevano dovuto subire l’abbandono da parte del padre, italiano bianco, per l’osservanza di una legge che non si interrogava minimamente sulla presenza di questa seconda generazione di italiani, che, seppur numericamente non influente, era comunque scomoda. Il documentario di Giampaolo Montesanto ci racconta la parte successiva a questa vicenda, che si riferisce al momento in cui, nonostante non esistano più le leggi razziali (terminata la seconda guerra mondiale) e nonostante nei meticci italo-eritrei coesistano lo ius sanguinis e lo ius culturae, il razzismo rimane radicato nella società coloniale Eritrea, che continua ad essere per anni una società mista.
Intervista realizzata da Gloria Gravina
(n. 5, maggio 2019, anno IX)
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