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Giacomo Raccis: «Non bisogna disprezzare necessariamente gli scrittori di alto consumo»
La nostra rivista inizia una nuova inchiesta a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, questa volta nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Nell’ambito dei nostri Incontri critici, qui il dialogo con Giacomo Raccis (n. 1987), ricercatore all’Università di Bergamo. Ha studiato a lungo l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato una raccolta di testi critici sull’arte e la letteratura, «Quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere». Scritti 1958-1970 (il Mulino 2017). Oltre a portare avanti studi sul rapporto tra scrittura letteraria e arti visive, si occupa di romanzo storico, di letteratura italiana degli anni Zero e di racconto breve, tema sul quale da tre anni coordina un seminario permanente insieme a Nunzia Palmieri e Damiano Sinfonico. Nel 2018 ha pubblicato La trama (Carocci). È co-fondatore della rivista online «La Balena Bianca», per la quale si occupa di romanzo contemporaneo.
Lei ha studiato a lungo l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato una raccolta di testi critici sull’arte e la letteratura, Quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere. Scritti 1958-1970. Di qual natura è, oggi, in un tempo storico pregno di fusioni e denso di contaminazioni, il rapporto tra scrittura letteraria e arti visive?
La risposta a questa domanda è molto difficile. La dividerei in due parti, una che riguarda il modo in cui interagiscono i due media della letteratura e delle arti visive, e una che riguarda invece il rapporto tra chi scrive e chi lavora come artista visivo. Nel primo caso, viviamo in una stagione in cui le contaminazioni sono sempre più frequenti: l’iconotesto negli ultimi vent’anni è diventato un genere sempre più praticato e che offre soluzioni molto diverse tra loro, ma quasi sempre molto suggestive (pensiamo a Flashover di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci, Le galanti di Filippo Tuena o Leggenda privata di Michele Mari, ma si potrebbe citare anche un romanzo come Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio in cui la pittura di Caravaggio è centrale, anche se non «riportata»). Questo naturalmente non implica un’assidua frequentazione di chi scrive con il mondo dell’arte; al contrario, rispetto a qualche decennio fa (il mio riferimento sono gli anni Sessanta e Settanta in cui si colloca la parte più importante dell’attività di Tadini come critico d’arte e come artista), mi sembra che oggi le relazioni tra letterati e artisti siano più rare e di conseguenza anche i tentativi di accogliere il mondo dell’arte nella scrittura scarseggino (anche se non mancano del tutto: pensiamo a un romanzo recentissimo come La vita adulta di Andrea Inglese). Si potrebbero citare Tiziano Scarpa, Tommaso Pincio, appunto, che hanno una conoscenza diretta di quel contesto e talvolta la raccontano nei loro libri; ma siamo lontani dai tempi in cui scrittori e artisti condividevano il medesimo spazio di influenza, scambiandosi idee ed esperienze (si pensi, ad esempio, al rapporto di amicizia e vicinanza che un pittore come Fabrizio Clerici intrattenne con Sciascia, Consolo o Malerba, che tutti gli resero omaggio nei loro romanzi).
Il coordinamento di un seminario permanente sul racconto breve, di cui è referente, a quali risultanze ha condotto al momento?
Si tratta di un’iniziativa che dal 2015 porto avanti insieme alla professoressa Nunzia Palmieri, all’Università di Bergamo, e che ritengo molto importante e fruttuosa. Nonostante la centralità della narrazione breve nel sistema dei generi della nostra letteratura, antica, moderna ma anche contemporanea, raramente si è dedicata un’attenzione sistematica alle sue forme, alle sue configurazioni e alla sua storia. Ci sono le teorie di Edgar Allan Poe o dei formalisti russi, ci sono studi importanti relativi alla tradizione italiana (di Arrigo Stara e Sergio Zatti, di Massimiliano Tortora, Mara Santi ed Elisabetta Menetti, per citare i primi che mi vengono in mente), ma si tratta dell’esito di interessi individuali e talvolta anche estemporanei. Creare un’occasione ricorrente di riflessione intorno al racconto breve permette allora di dare un perno alle ricerche in questo ambito. Oltre alle tante pubblicazioni che abbiamo fatto negli anni, questa iniziativa (che da quest’anno avrà un’articolazione più istituzionale) ha offerto un punto di riferimento a chi, soprattutto tra i ricercatori e le ricercatrici più giovani, conduce studi che in un modo o nell’altro intrecciano questo terreno.
Lei è co-fondatore della rivista online «La Balena Bianca», per la quale si occupa di romanzo contemporaneo. Ebbene, idea ormai radicata è che l’Arte e la Letteratura nello specifico debbano uscire dai cenacoli accademici per essere vissuti nella pratica quotidiana, così da produrre un’eredità concreta e tradursi in un’azione culturale efficace. Quanto la sua opera editoriale integra la tradizione a ricerche espressive innovative?
L’idea con cui è nata «La Balena Bianca», ormai dieci anni fa (nel 2012), era proprio quella di creare un luogo di riflessione e dibattito a metà strada tra la ricerca accademica – che ha i suoi tempi, i suoi riti, e anche il suo linguaggio non sempre accessibile – e l’informazione culturale fatta sui giornali – vincolata ad altri tempi e spazi, e spesso mossa anche da logiche commerciali. Trovare un linguaggio e una postura ‘a metà’ è stata quindi la nostra sfida, appunto la nostra «balena bianca». In questo spazio, poi, ci rivolgiamo principalmente alle nuove uscite, con pezzi di approfondimento che cerchiamo di offrire in maniera tempestiva; ma non manchiamo di guardare anche al passato, con retrospettive o affondi monografici. Il fatto poi che, nel blog, sia sempre tutto disponibile fa sì che certi articoli possano davvero durare e offrire anche a molto tempo di distanza uno sguardo significativo sulla letteratura (ma anche sul cinema e sulla musica o sull’arte, di cui pure ci occupiamo).
Oggi, in tantissimi scrivono romanzi e altrettanto numerosi sono i cosiddetti Premi letterari. In qual misura la produzione letteraria è pilotata dall’assecondare gusti e obiettivi di giurie al soldo del mercato?
Mi sembra una domanda retorica. Nessuno scrittore e nessuna scrittrice può ignorare che il proprio libro finirà in un circuito di condivisione che è sottoposto alle regole del mercato. Naturalmente poi cambiano le sensibilità di chi scrive, tanto nel comprendere il valore estetico (o artistico) di quanto ha scritto quanto nel cercare un più o meno grande apprezzamento da parte del pubblico (e nel cercare, quindi, un compromesso tra leggibilità e sperimentazione creativa). Non bisogna disprezzare necessariamente scrittori e scrittrici di alto consumo (soprattutto nell’accademia, si tende a liquidarli malamente): svolgono anche loro una funzione importante nel sistema letterario, quella di un intrattenimento che non deve essere necessariamente dozzinale. Da stigmatizzare sono, semmai, i tentativi di mistificazione: opere di intrattenimento che esibiscono contrassegni di valore per spacciarsi come buona letteratura. È il cosiddetto midcult che va smascherato. Beninteso, lasciando sempre la possibilità a chi lo desidera di sceglierlo, leggerlo e apprezzarlo; ma sapendo cosa ha in mano.
Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?
Il mio punto di vista su questo fenomeno non è del tutto affidabile. Sia perché la mia conoscenza in questo tipo di produzione letteraria è molto scarsa (mi sto riferendo, naturalmente, a che emigra in Italia), sia perché dall’università si ha spesso una prospettiva distorta, deformata rispetto agli effettivi andamenti del sistema letterario e del mercato editoriale. Di certo, anche sull’onda del successo dei Cultural studies in tutte le università occidentali, a partire dall’inizio di questo secolo è aumentata l’attenzione di studiose e studiosi su queste opere, in particolare per la loro rilevanza storica, culturale, sociale (documentaria in senso lato): interessi questi che prescindono dall’effettivo valore dei testi. Soprattutto nei dipartimenti di italianistica all’estero – forse per via di un qualche transfer – mi sembra che questo interesse sia ormai stabile. Diverso il discorso se ragioniamo in termini di lettori medi: lì, complice anche la narrazione mediatica intorno al fenomeno migratorio, ho l’impressione che queste opere siano ancora sostanzialmente marginali.
La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?
Anche in questo caso distinguerei due piani: da un lato quello del canone contemporaneo, dall’altro quello della produzione del cosiddetto «estremo contemporaneo». Per quanto riguarda il canone, il grande lavoro in corso negli ultimi anni è quello legato a una sua rivisitazione della storia letteraria italiana più attenta agli equilibri di genere. Per quanto riguarda il Novecento, in particolare, molte sono le scrittrici che meritano maggior rilievo nei manuali scolastici e anche nei cataloghi degli editori, ma in questi anni molto si sta facendo in questa direzione (anche se ad animare le iniziative sono quasi sempre solo donne). Per quanto riguarda le scrittrici che sono oggi ‘in attività’, invece, direi che lo stato della letteratura italiana è decisamente buono: se vogliamo prescindere dal «caso» Elena Ferrante, figure come Helena Janeczek, Rossella Milone, Alessandra Sarchi, Claudia Durastanti o Valentina Maini costituiscono dei riferimenti sicuri per il quadro della narrativa contemporanea, interpreti originali delle sue svolte e dei suoi caratteri principali. E mi sembra che anche il loro peso nel dibattito culturale sia decisamente rilevante (anche se la sproporzione rispetto agli scrittori rimane ancora).
La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?
A questa domanda non so proprio rispondere. Mi sento di dire soltanto che, proprio perché il lavoro del critico prevede una capacità di conoscere l’intero spettro della produzione letteraria (o almeno una sua approssimazione) e quindi materialmente leggere una gran quantità di opere, è ormai un gesto acquisito quello di muoversi con disinvoltura e senza pregiudizi tra supporti e formati diversi.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?
Anche in questo caso, ahimè, non so rispondere; in primis perché si tratta di un fenomeno che conosco poco o nulla io per primo (fatti salvi i grandissimi nomi di Cioran e più recentemente Müller e Cărtărescu). Non so se io possa considerarmi un lettore medio (forse rientro nella categoria degli addetti ai lavori), ma mi auguro che chi lo è scelga le proprie letture con maggior libertà e anche con un pizzico improvvisazione che io non mi concedo e possa quindi capitare – magari anche involontariamente – sulla produzione di autrici e autori romeni e da lì in poi andare alla scoperta.
Accanto a Emil Cioran, Herta Müller e Mircea Mircea Cărtărescu, potremmo aggiungere anche Ana Blandiana oppure Norman Manea. Per quali aspetti hanno attirato la sua attenzione?
Come ho scritto sopra: alcuni di questi autori mi sono noti e noto con piacere che, proprio in virtù della bontà della loro opera (non cioè per dinamiche extraletterarie), sono stati negli ultimi anni anche al centro del dibattito letterario italiano (penso proprio a Müller e Cărtărescu). Non so se possano però fare da apripista per un’attenzione maggiore nei confronti della letteratura romena. Ho l’impressione che in questi casi, anche per la natura della loro opera e per l’ampiezza dell’immaginario a cui attingono e che riflettono nei loro lavori, questi autori siano percepiti piuttosto come «europei», secondo un’etichetta che trascende l’appartenenza nazionale, ma che forse rende loro il giusto rilievo.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2022, anno XII)
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