«Lontano da Itaca». Con Franco Mimmi sugli Ulisse di ogni tempo Dialogare con Omero per «l’attrazione di un personaggio come Odisseo, le cui peripezie, nel tribolato viaggio di ritorno a casa dalla sconfitta Troia, costituiscono il primo romanzo dell’Occidente infinite volte rivisitato, reinterpretato e rielaborato nei secoli successivi». Così Franco Mimmi sul suo Lontano da Itaca (Lampi di Stampa, 2007), nell’intervista realizzata da Giusy Capone, facendo vedere come il libro riprende il mito del grande eroe greco per trasformarlo in una parabola dell'esistenza – e della relazione tra umano e divino – in cui si fondono i classici greci e il materiale ulissico di ogni tempo. Omero rappresenta, con Dante, Cervantes e Shakespeare, uno dei quattro vertici della letteratura mondiale, è praticamente impossibile evitare il dialogo con loro, sia pure dalla posizione più umile possibile. Basti pensare al paradosso di Harold Bloom, che sosteneva che Shakespeare ha influenzato anche gli scrittori che lo hanno preceduto. Diciamo dunque: in che cosa ho voluto dialogare con Omero? Quel qualcosa è stata l’attrazione di un personaggio come Odisseo, le cui peripezie, nel tribolato viaggio di ritorno a casa dalla sconfitta Troia, costituiscono il primo romanzo dell’Occidente infinite volte rivisitato, reinterpretato e rielaborato nei secoli successivi. Il re di Itaca attraversa il tempo come personaggio via via mitico, umanistico, romantico, naturalistico, moderno e certamente, qualunque cosa la parola significhi, anche postmoderno, è insomma protagonista ante litteram di qualsiasi momento o movimento letterario. Ha ispirato, in ventotto secoli, la reinvenzione sublime di Dante nel canto XXVI dell’Inferno («Fatti non foste a viver come bruti...») e quella giocosa di Guido Gozzano nel poemetto L’Ipotesi («Il Re di Tempeste era un tale / che diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale...»), quella decadente di Giovanni Pascoli in L’ultimo viaggio, dove si afferma che la morte è più dolorosa che non nascere («Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,/ ma meno morte, che non esser più!») e quella iconoclasta di Jean Giono in Nascita dell’Odissea, dove la realtà è ben diversa dall’eroico mito ma a prevalere è quest’ultimo persino contro la volontà del protagonista. Ha ispirato l’Ulisse di Joyce, dove l’autore si concesse la variante di presentare un Telemaco/Dedalus più intelligente di Ulisse/Bloom, forse perché era con Dedalus e non con Bloom che si identificava. Ha ispirato il Viaggio di Odisseo di Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, dove il nostos è un viaggio di espiazione per l’orrore della guerra e l’invenzione del «mostro tecnologico», il cavallo di legno. E poi decine e decine di componimenti poetici, da Alfred Tennyson a Gabriele D’Annunzio a Umberto Saba fino allo splendido Itaca, di Kostantinos Kavafis, dove si canta il concetto che più dell’arrivo è importante il viaggio («Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?»). Sono soprattutto questa poesia e questo concetto che hanno ispirato Lontano da Itaca, la storia che anch’io ho voluto caricare sulle capaci spalle di Ulisse. Nessuno fra i Greci ignorava Odisseo: la sua astuzia e la sua impulsività. Il suo desiderio di uccidere la morte, disprezzandola. Odisseo va inteso come paradigmatico d’una specifica maniera d’affrontare la vita? Nessun greco ignorava Odisseo, anche perché quelli di Omero erano i testi fondamentali per l’insegnamento, ma già allora la sua figura era multiforme, e non solo d’ingegno. L’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea sono ben diversi, come quello dell’Aiace di Sofocle, dove viene definito «scaltro intruglio schifoso», ma è anche colui che salverà le spoglie del protagonista dal restare insepolte, e come quello delle Troiane di Euripide, dove Ecuba lo chiama «spregevole traditore, nemico della giustizia, / un mostro che non conosce legge». È questo affascinante polimorfismo, che attraversa i secoli dal tempo di Omero a quello dei grandi tragici, che mi diede l’idea di inserire nel mio testo brani degli autori che ho citato, ma anche di Eschilo e di Tucidide. Ulisse è oculato, astuto e menzognero, altresì debole, impegnato nella contesa con la propria limitatezza. Eppure è unanimamente reputato eroe. È la sua umanità foriera d’eroismo? In realtà la debolezza di Ulisse si manifesta solo nel suo confronto con gli Dei ed è piuttosto un problema di impotenza, vista la statura dell’avversario, ma anche tra gli Dei ha degli ammiratori della sua resilienza che interverranno a dargli una mano. Il suo eroismo consiste soprattutto, come dice il poema del Tennyson splendidamente tradotto da Pascoli, nell’essere, lui e i suoi compagni grazie al suo esempio, «duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai». Odisseo muta incessantemente il suo status: eroe polýtropos, naufrago in balia delle onde, migrante vestito di cenci. C’è un tratto d’indole immutabile? Nell’arco millenario della sua esistenza il tratto immutabile di Ulisse è l’audacia, della quale un eroe evidentemente non può fare a meno, ma per il resto l’abbiamo visto mutare continuamente, e possiamo scommettere che continuerà a trovare nuovi interpreti dei suoi vizi e delle sue virtù. L’Ulisse dantesco, Frodo e l’impresa post-cubana del Che contraddicono la teoria di Christopher Vogler. Quali altri tipi di viaggio si profilano? Non c’è motivo, ovviamente, perché il viaggio sia confinato alla dimensione spaziale, oltre che fisico può essere spirituale, mentale, interculturale, temporale: pensate per esempio ai viaggi compiuti da Darrell Standing, protagonista del romanzo Il vagabondo delle stelle di Jack London, mentre in realtà giace in prigione immobilizzato da una camicia di forza. E forse è meglio non spingere gli accostamenti oltre le colonne d’Ercole della buona letteratura, dove rischieremmo di vedere il mare richiudersi sulla fragile barca delle nostre ipotesi e delle nostre interpretazioni. Per ciò che riguarda Frodo, per esempio, mi costerebbe molto metterlo in una categoria ulissica: Il signore degli anelli non mi ha mai conquistato, non sono mai riuscito ad andare oltre un centinaio di pagine, e sono piuttosto d’accordo con l’impietosa critica che gli dedicò Edmund Wilson, sarcasticamente intitolata Oh, i mostruosi orchi!, che nel libro di Tolkien trovava cattiva prosa, scarsa originalità, e quanto alla pretesa di avere scritto un libro per adulti, «c’è poco, nel Signore degli anelli – commentò il grande critico americano –, che ecceda la testa di un bambino di sette anni». Ho piuttosto l’impressione che il crescente entusiasmo degli adulti per il libro e per i film derivati siano un altro segno, insieme con il dilagare di supereroi, maghi e maghetti, zombi, vampiri eccetera, di un processo di infantilizzazione della specie.
A cura di Giusy Capone |