Con Francesco Ursini su Calvino, interprete delle «Metamorfosi» di Ovidio «Si potrebbe sostenere che Calvino abbia riconosciuto in Ovidio il riflesso delle categorie che lui stesso stava elaborando. È innegabile la coincidenza non soltanto con il Calvino teorico, ma anche con il Calvino scrittore». Lucrezio, Ovidio, Plinio e Calvino. Quali i temi di un dialogo immaginario? Credo che il rapporto di Calvino con questi tre autori latini si possa in qualche misura ricondurre alla visione delle loro opere come interpretazione del mondo: nel De rerum natura di Lucrezio e nelle Metamorfosi di Ovidio, Calvino vede la rappresentazione di un universo in continua trasformazione, nel quale «tutto può trasformarsi in nuove forme», «la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo» e «c’è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori»; in questo senso le forme che si trasformano continuamente l’una nell’altra nell’universo di Ovidio vengono assimilate agli atomi indivisibili che compongono l’universo di Lucrezio. Anche nella Naturalis historia di Plinio Calvino vede un’interpretazione complessiva dell’esistente, espressione, in questo caso, di un’idea enciclopedica del mondo, nella quale la natura si rivela, allo stesso tempo, sia come «ciò che è esterno all’uomo», sia come qualcosa che «non si distingue da ciò che è più intrinseco alla sua mente, l’alfabeto dei sogni, il cifrario dell’immaginazione, senza il quale non si dà ragione né pensiero». Leggendo le Lezioni americane, il ‘manifesto’ della poetica calviniana, si rimane colpiti dalla coincidenza dei valori letterari che vi sono proposti con quelli che Calvino attribuisce, in particolare, alle Metamorfosi: penso soprattutto alla «leggerezza» e alla «rapidità», ma in realtà il discorso coinvolge anche le altre categorie. In effetti già negli anni Novanta un grande latinista, Emilio Pianezzola, si è spinto ad affermare che Calvino ha ricavato proprio da Ovidio i valori proposti nelle Lezioni americane. Forse si potrebbe più prudentemente sostenere che Calvino abbia riconosciuto in Ovidio il riflesso delle categorie che lui stesso stava elaborando. È innegabile, comunque, la coincidenza non soltanto con il Calvino teorico, ma anche con il Calvino scrittore: basti pensare alla scrittura combinatoria (le forme in continua trasformazione...) de Le città invisibili e de Il castello dei destini incrociati; oppure all’idea dell’impossibilità di ricondurre l’esistente a un senso unitario (la «dissoluzione della compattezza del mondo»…), di cui sono espressione Se una notte d’inverno un viaggiatore e Palomar. Sì, quella di Calvino è un’interpretazione di Ovidio di fatto rivoluzionaria, e destinata ad esercitare una notevole influenza sugli stessi critici ovidiani successivi. Quando nel 1979 Calvino scrive Gli indistinti confini, introduzione all’edizione Einaudi delle Metamorfosi, la critica ovidiana era divisa tra chi riteneva il poema un’opera dai valori puramente estetici e chi credeva, invece, a un suo senso profondo, che veniva individuato nel significato delle singole storie raccontate da Ovidio. Calvino non nega la presenza di un significato profondo nel poema ovidiano, ma lo cerca non più nelle singole storie, bensì, distanziando lo sguardo, nella visione d’insieme di un universo in continuo mutamento: inaugura così, di fatto, un filone alternativo, al quale si possono ricondurre alcune delle più influenti interpretazioni successive delle Metamorfosi, da quella di Gianpiero Rosati, che scorge nel poema la rappresentazione di un universo di forme illusorie, a quella di Philip Hardie, che individua nelle proprietà illusorie della poesia l’assunto fondamentale di tutte le opere ovidiane. È lo stesso Calvino a spiegarlo in un’intervista del 1985, nella quale definisce le Metamorfosi e il De rerum natura i suoi «due livres de chevet», aggiungendo: «Vorrei che tutto ciò che scrivo derivasse dall’uno o dall’altro, o da entrambi». A proposito in particolare di Lucrezio, Calvino afferma che il suo sogno sarebbe «raggiungere una conoscenza della natura delle cose minuziosa al punto che la loro stessa sostanza si dissolve nel momento in cui è afferrata». Si tratta, insomma, di una sorta di ‘utopia pulviscolare’: l’utopia di arrivare a descrivere la realtà a un livello talmente microscopico da giungere, appunto, alla sua dissoluzione in forma di pulviscolo. Su questo si può leggere il bel libro pubblicato l’anno scorso da Ginevra Latini, Italo Calvino e i classici latini, dove un ampio capitolo è dedicato proprio al rapporto con Lucrezio. Abbiamo avuto occasione di discuterne, con lei e altri studiosi, lo scorso 16 maggio in un incontro organizzato dalla collega Laura Di Nicola per il progetto «Enciclopedia Calvino»: per chi fosse interessato, la registrazione è disponibile online. Nel saggio dedicato a Plinio, Il cielo, l’uomo, l’elefante (anche questo pubblicato originariamente come introduzione all’edizione Einaudi della Naturalis historia), Calvino dice chiaramente che «quando parliamo di Plinio non sappiamo mai fino a che punto possiamo attribuire a lui le idee che esprime; suo scrupolo è infatti di metterci di suo il meno possibile, e tenersi a quanto tramandano le fonti; e ciò conformemente a un’idea impersonale del sapere, che esclude l’originalità individuale». In questo è il ‘rapporto filologico’ con il mondo naturale, come se quest’ultimo fosse, a sua volta, un testo scritto; ma anche qui, come nel caso di Lucrezio e Ovidio, entra in gioco la visione combinatoria e ‘imparziale’ del mondo (la «parità essenziale tra tutto ciò che esiste»), perché anche Plinio «per raggiungere il suo intento, non ha paura di dar fondo allo sterminato numero delle forme esistenti, moltiplicato per lo sterminato numero di notizie esistenti su tutte queste forme, perché forme e notizie per lui hanno lo stesso diritto di far parte della storia naturale e d’essere interrogate». Rispondo raccontando un episodio che è anche un ricordo personale. Nel 2011 ho avuto il privilegio di collaborare a un libro curato da Carlo Ossola che, in occasione del centocinquantesimo Anniversario dell’Unità d’Italia, intendeva riunire i ‘libri che hanno fatto gli italiani’, da Pinocchio a Cuore, da Il Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti a Se questo è un uomo di Primo Levi: un volume di 1.500 pagine, intitolato Libri d’Italia (1861-2011), che si conclude proprio con Le città invisibili di Italo Calvino. Nel presentare il romanzo, Carlo Ossola scriveva che «la parabola delle Città invisibili pone Italo Calvino […] testimone di ciò che accadrà, signor Palomar attento e meditante, senza altro pathos che quello di preservare, anche nell’inferno, la dignità umana». Il riferimento è, naturalmente, all’«inferno dei viventi» evocato nel finale del romanzo, nel quale Calvino contrappone le due scelte che si possono compiere per «non soffrirne»: «accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più», oppure «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ecco, secondo Carlo Ossola «questo lascito la civiltà italiana consegna al XXI secolo», e non posso che associarmi, da parte mia, a queste parole. La questione è assai ampia e ci sarebbe molto da dire. In estrema sintesi, credo che la sfida da affrontare e, prima ancora, da porsi, sia quella di far sì che la critica letteraria recuperi la centralità, nel dibattito pubblico, che aveva fino ancora a qualche decennio fa, quando i libri di teoria e critica della letteratura non erano qualcosa di esclusivamente settoriale e specialistico, per addetti ai lavori, ma sapevano coinvolgere un pubblico molto più ampio, presupponevano una visione del mondo e offrivano una prospettiva anche sui grandi temi del dibattito contemporaneo (penso a Cesare Segre, per fare soltanto un esempio, peraltro non troppo lontano nel tempo). Credo che la perdita di centralità si debba, da un lato, al progressivo venir meno dell’interesse del pubblico e dei media che ne inseguono i desiderata, ma anche, dall’altro, alla sempre maggiore e certamente eccessiva specializzazione degli studi umanistici, che è, sì, necessaria per chiunque faccia ricerca, ma non deve impedire di affrontare anche argomenti più vasti e di rivolgersi anche al ‘grande’ pubblico. Credo, insomma, che come critici e studiosi di letteratura – ma anche, più in generale, come intellettuali – dovremmo provare ad avere una visione più ampia della nostra missione.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone |