Con Francesco Testa su «Donne» e «Frammenti da un taccuino ritrovato» di Mihail Sebastian

In apertura del Salone del Libro di Torino 2024, allo stand della Romania, allestito dall’Istituto Culturale Romeno di Bucarest, sarà presentato il volume di Mihail Sebastian, Donne seguito dai Frammenti da un taccuino ritrovato, trad. it. di Francesco Testa, Mimesis Edizioni, Milano, 2023.
Le opere di Mihail Sebastian (1907-1945) sembrano finalmente uscire dal cono d’ombra in cui sono relegate da troppo tempo (le traduzioni esistenti finora, ma introvabili, la commedia Ultima notizia, e il romanzo L’incidente, risalgono agli anni ’40-50 – si veda il nostro database Scrittori romeni in italiano) e cominciano a riscuotere un certo interesse da parte delle case editrici su proposta di traduttori che conoscono la qualità, il valore e l’importanza della sua scrittura e delle sue storie. È il caso di Francesco Testa, attento e fine traduttore, nonché appassionato cultore delle lettere romene, che per Mimesis edizioni ha curato il volume uscito nel 2023, in cui propone affiancati i primi due romanzi dello scrittore di Brăila, Donne (1933) e Frammenti da un taccuino ritrovato (1932). Nel dialogo a cura di Mauro Barindi il traduttore ci racconta il suo ‘incontro’ con Sebastian, un autore centrale della letteratura romena interbellica, che «incarna per molti aspetti la figura dell’intellettuale ebreo del Novecento»>


Come è nato il progetto di tradurre Donne e Frammenti da un taccuino ritrovato, le due opere di narrativa scritte da Mihail Sebastian?

Mihail Sebastian è un nome piuttosto noto a chi si interessa di letteratura romena, soprattutto se prendiamo in considerazione la ricchissima produzione letteraria di epoca interbellica. Devo ammettere che la curiosità verso la narrativa di Mihail Sebastian è cresciuta lentamente, in gran parte suscitata dalla biografia dell’autore: nato da una famiglia ebraica di Brăila, cittadina portuale lungo le sponde del Danubio – la quale diede i natali anche al compositore greco Iannis Xenakis –, Sebastian incarna per molti aspetti la figura dell’intellettuale ebreo del Novecento, lacerato tra spinte assimilazioniste e pregiudizi antisemiti. In Italia, l’opera di Sebastian non ha ricevuto per lungo tempo l’interesse che avrebbe meritato. Se escludiamo la pubblicazione de L’incidente, tradotto nel 1945 da Oscar Randi e oramai irreperibile, per molti anni il mondo editoriale italiano ha decisamente trascurato lo scrittore Sebastian, la cui produzione letteraria rientra a pieno titolo nella letteratura europea del secolo scorso. Solo recentemente sono usciti in traduzione italiana i romanzi Da duemila anni (tradotto per Fazi Editore da Maria Luisa Lombardo) e La città della acacie (tradotto da Alina Monica Țurlea per Besa Muci). Un autore europeo, dunque, o come appuntò Emil Cioran in una pagina dei suoi Quaderni, «difficile immaginare un romeno più francese di lui». L’incontro con i Frammenti di un taccuino ritrovato è avvenuto diversi anni fa, quando vivevo a Bucarest, in quello splendido scantinato traboccante di libri che è la libreria antiquaria Unu, non distante da piazza Università. Data la brevità dei Frammenti, li lessi lì su due piedi, con la schiena appoggiata allo scaffale della literatura română. Solo in un secondo momento ho pensato di proporre un’edizione unica che comprendesse, oltre ai Frammenti, i quattro racconti che compongono il volume Donne


Trattandosi di due testi diversi, Donne e Frammenti…, quali sono, a parte la brevità del secondo rispetto al primo, le disparità di contenuto e di impianto narrativo che a tuo giudizio vanno rilevate? Sono testi interconnessi tra loro o ognuno potrebbero avere vita autonoma?

Benché apparse a distanza di poco tempo l’una dall’altra (1932), Donne e Frammenti da un taccuino ritrovato sono due opere pensate e strutturate in modo molto diverso. I Frammenti, nella loro brevità a tratti quasi aforistica, paiono essere attraversati da una vena vitalista dal sapore nietzschiano, di cui è espressione la Weltanschauung dell’erratico narratore. Contro il razionalismo e la morale, l’anonimo protagonista del libro cerca un mistico contatto con l’irriducibile («L’irriducibile! È questo il mio unico modo di sentire l’eterno»), con una dionisiaca vita in sé, individuando nella coscienza umana l’ostacolo che inibisce un tale incontro. Sarebbe allora preferibile un regresso al vegetativo, perché «tra l’arbusto che cresce selvatico e un giardiniere con propositi e cesoie, tutta la mia simpatia di animale va al primo». E in questo tête-à-tête contro sé stessi, contro la coscienza che ordina e pone valori, il narratore si scopre solo, «barricato in me stesso, impenetrabile, solo con le mie superstizioni, i miei simboli, i segni e gli idoli, consapevole che nessun altro in questo mondo viva la mia stessa esistenza, che nessuno sarebbe capace di immaginarla, portare con me questo mistero da cui non riesco a separarmi, neanche se lo gridassi sulle piazze pubbliche, neanche se lo urlassi sul palco di un teatro, neanche se lo distribuissi stampato sui manifesti».
I quattro racconti che compongono Donne hanno invece per protagonista Stefan Valeriu, uno studente romeno giunto a Parigi per ultimare gli studi di medicina. In fuga dai lunghi pomeriggi in biblioteca e dalle buie sale d’esame, il giovane Stefan parte verso un’anonima località alpina, dove trascorrerà le vacanze estive. Cominceranno una serie di incontri con donne diverse, una collezione di conquiste che segneranno la sua biografia sentimentale fino al capitolo conclusivo, pregno di un’atmosfera bohémienne tipica della Parigi interbellica. L’elegante prosa di Mihail Sebastian dipinge con grande maestria il multiforme universo femminile, visto attraverso gli occhi del giovane Stefan.
Il fil rouge nascosto che collega le riflessioni dei Frammenti all’algido erotismo di Donne è il solipsismo dell’autore, la sua incapacità di connettersi al mondo esterno. Le avventure erotiche di Stefan Valeriu, in fin dei conti, sono figlie di quell’anima sola e disperata che nei Frammenti è barricata in sé stessa, e che nell’eros cerca una disperata via di uscita dalla sua solitudine.      


Si è speculato sul rapporto di Sebastian con le donne a cui si legava e sul suo orientamento sessuale: ‘nascondendosi’ dietro a loro – nella finzione come nella vita reale – c’è  chi vede il suo tentativo di tenere a bada una omosessualità latente; altri avanzano il dubbio che fosse impotente o colpito da una malattia venerea (?) contratta neppure diciottenne (come potrebbe suggerire la sua annotazione nel Diario del 18 aprile 1935) – forse frequentando le case di tolleranza? – e che ciò gli precludesse di stringere rapporti sentimentali duraturi e appaganti, causandogli angosce e insicurezze, come testimoniato ancora nel Diario. Qual è la tua opinione a riguardo?

A un’attenta lettura dei quattro racconti contenuti in Donne, non vi è alcun indizio che possa rimandare alla latente omosessualità dell’autore. Bisogna riconoscere, però, che Stefan Valeriu, il protagonista del libro, si avvicini all’universo femminile con un distacco inquietante, oserei dire glaciale. Nella prosa di Sebastian, infatti, il femmineo viene spesso rappresentato con immagini che rimandano al mondo vegetale, come nel caso di Renée, la moglie del latifondista francese, il cui corpo «arde di passione per poi tornare freddo solo un attimo dopo, viscoso e liscio come le foglie di una palma nana». Quello stesso corpo che solo qualche pagina prima metteva in mostra una «grazia vegetale». In altri passaggi, tale metafora lascia il posto a figure che richiamano la sfera della zoologia, come nel secondo racconto, dove la rassegnazione di Emilie viene associata al temperamento di un «animale docile», un «animale addomesticato»; e quando Stefan prova a figurarsi l’unione fisica di Emilie con Irimia C. Irimia – lassù, nella mansarda parigina di Saint-Ouen –, li immagina «accoppiandosi in silenzio come due cani bastardi»; e il travaglio che porterà Emilie Vignou al decesso, è reso ancor più drammatico dalla descrizione che ne fa Sebastian: «respirava a fatica, le si rigiravano gli occhi nelle orbite come un’oca ingozzata», «ci guardava con gli occhi annebbiati e supplichevoli di un cane che annega». Tali immagini mettono chiaramente in luce la difficile, se non impossibile, relazione del protagonista con l’universo femminile. L’algido erotismo di Stefan Valeriu – alter ego letterario di Mihail Sebastian – maschera appena una misoginia che possiamo ritrovare anche nei Frammenti da un taccuino ritrovato, dove la donna resta sempre un’anima straniera, lontana, quasi un oggetto inerte che sorprende i risvegli del protagonista: «attendo allora con occhi impassibili che dalla finestra rilucano i riflessi azzurri del sole, la prima luce del giorno venuta a mettere ordine in questa perdizione. Nessuna delle mie donne è stata capace di comprendere come in quel momento lei cessasse di esistere, mentre si stringeva con gioia incosciente al petto di un uomo che aveva smesso di fare l’amante per divenire un fuggitivo». Il misoginismo che permea entrambe le opere di Sebastian, molto diffuso nel mondo culturale di inizio Novecento – pensiamo a Otto Weininger e al suo Geschlecht und Charakter [Sesso e carattere] – è il segnale forse più evidente del solipsismo dell’autore, incapace di uscire da sé, e gli incontri erotici di Stefan Valeriu/Mihail Sebastian dimostrano l’impossibilità di legarsi autenticamente al femmineo, ridotto a mero bios.


Iosif Hechter: in una società antisemita come quella romena, interbellica e non, lo pseudonimo, appunto, adottato da Mihail Sebastian era una necessità: nascondersi per appartenere, assimilandosi, a una società che in essenza gli era ostile. Avrebbero letto questo romanzo con altri occhi i lettori dell’epoca se in copertina fosse stato stampato il suo vero nome?

Certamente no. Nella Romania interbellica, l’antisemitismo aveva attecchito non solo tra gli strati più umili della popolazione – dove gli stereotipi anti-giudaici trovavano il loro archetipo ideale nell’accusa di deicidio –, ma anche tra gli intellettuali dell’accademia romena. Basti pensare che nella prefazione al libro Da duemila anni, firmata dal professore Nae Ionescu – figura di riferimento per la «giovane generazione» bucarestina –, leggiamo in modo terribilmente tautologico che «l’ebreo soffre perché è ebreo». Tradito dal suo stesso maestro, che in quella prefazione ripropone i topoi classici dell’antisemitismo cristiano, Mihail Sebastian scopre sulla propria pelle quanto l’assimilazionismo non sia riuscito a tener lontano lo spettro dell’odio anti-ebraico. Sul controverso rapporto Nae Ionescu-Mihail Sebastian, l’opera di riferimento è certamente Diavolul și ucenicul său (Il diavolo e il suo discepolo) di Marta Petreu. Circa la questione dell’antisemitismo in Romania, i testi che mi sentirei di consigliare sono lo studio antropologico di Andrei Oişteanu L’immagine dell’ebreo (tradotto dal sottoscritto e da Horia Cicortaș per Belforte editore) e il volume di Leon Volovici Ideologia nazionalista e “questione ebraica”. Saggio sulle forme dell’antisemitismo intellettuale (ancora inedito in italiano).
Tentare di comprendere la relazione che legava Iosif Hechter/Mihail Sebastian all’ebraismo, non può certo fare a meno di alcuni illuminanti passaggi del romanzo Da duemila anni, i quali ci offrono una vivida immagine della scissione che viveva il mondo ebraico a inizio Novecento. Benché lo sforzo assimilazionista risalga «a quel mio bisnonno del 1828 [che] parlava e scriveva in romeno e si vestiva alla romena», il protagonista del libro conosce, suo malgrado, l’efferato antisemitismo che dalle strade di Bucarest raggiungeva i banchi delle aule universitarie. Tuttavia, l’alter ego narrativo di Sebastian non si lascia sedurre dal progetto sionista, dal sogno di fondare colonie ebraiche in Palestina. Questa sua visione, oltre a evidenziare la psicologia tipica dell’ebreo assimilato, mette in luce un profondo scetticismo verso il sionismo stesso, interpretato come il tentativo di ‘risolvere’ la questione ebraica per mezzo della politica. Il destino ebraico non si lascia semplificare da un progetto territoriale che rinunci alla complessità della condizione ebraica, visto come il tentativo disperato di voler ‘normalizzazione’ la vita degli ebrei. Stando alle parole del protagonista riferite all’amico Sami Winkler, convinto sionista: «Tu, che credi nel sionismo e lavori per edificare un nuovo paese, ti sei mai confrontato, nella tua interiorità, con questo sterile sentimento della solitudine ebraica? […] Ho la sensazione che il progetto sionista nasca dalla disperazione: una rivolta contro il destino. Un tragico slancio verso la semplicità, verso la terra». Contro la modernità dell’esperimento sionista si scaglia anche il libraio ambulante Abraham Sulitzer, un tipico ebreo non assimilato che parla yiddish, la lingua viva degli Ostjuden, di Scholem Aleichem e dei fratelli Singer: «È una lingua viva caro mio. Con la sua patria che è il ghetto, cioè tutto il mondo. Mi viene da ridere quando sento questi sionisti che parlano un ebraico da manuale». In questi brevi estratti, Sebastian vuole ricordarci come la complessità dell’anima ebraica vada ben oltre un progetto politico impostosi storicamente, quasi a fare il paio con la riflessione di un altro grande ebreo romeno, Benjamin Fondane – morto gasato ad Auschwitz –, che nel 1919, prima di lasciare la Romania, sulle pagine del giornale «Lumea evree» scrisse: «Il sionismo rappresenta soltanto una finalità politica. L’ebraismo, una finalità vitale».    


Il tuo incontro con Mihail Sebastian continuerà, ci saranno in futuro altri progetti di traduzione dalla sua opera, come il teatro per esempio?

Vedremo. Credo sia importante riproporre al pubblico italiano L’incidente, romanzo che chiude la carriera letteraria di Sebastian, prefigurando tra l’altro il drammatico epilogo della sua vita, morto investito da un camion nel 1945, mentre aspettava il tram per recarsi a lezione all’università di Bucarest. La vecchia edizione italiana è ormai irreperibile, e poi, come sappiamo, le opere in traduzione hanno una loro ‘scadenza’, necessitano di ri-traduzioni che le rendano più fruibili ai lettori contemporanei e al mutare, inevitabile, della lingua e dei suoi usi.








A cura di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2024, anno XIV)