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Francesco Carofiglio: «La scrittura andrà nella direzione di una felice contaminazione dei segni»
Nella sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, vi proponiamo una nuova serie di 10 interviste con gli scrittori segnalati all’edizione n. 76 del Premio, e con i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Francesco Carofiglio, nato a Bari nel 1964, scrittore, architetto, illustratore e regista, autore di numerosi libri, è segnalato per il suo nuovo romanzo dal titolo Le nostre vite (Piemme, 2021). Andrea Kerbaker lo presenta così: «Stefano e Anna, i due personaggi di Le nostre vite, fanno parte di questo gruppo di persone con un conto aperto, così tanto che, per motivi molto diversi, hanno cambiato il loro nome. E questa parallela rinuncia all’identità, conseguenza in entrambi i casi di un trauma decisivo, corrisponde a un buco nero capace, a distanza di decenni, di oscurare le loro vite nel profondo. Senza essere superficiale, Carofiglio evita il rischio grazie a uno stile serrato, totalmente contemporaneo, dove abbondano i dialoghi e non ci si perde in eccessi di virtuosismo».
Ne Le nostre vite il percorso dei protagonisti, Stefano e Anna, si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emotivo. Quale valore attribuisce all’elemento della «memoria» nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Il tema della memoria è, evidentemente, la struttura portante in questo romanzo. La memoria recisa del protagonista, il passato cancellato da un incidente, la perdita delle radici. Dal punto di vista narratologico è insieme ossatura ed espediente, e su di esso si articolano le vicende dei personaggi, che si muovono in spazi e tempi differenti. In generale, nei miei romanzi, il tema della memoria ricorre, per i frequenti rimandi alle stagioni di esistenze diverse, per i rapporti, spesso controversi, con il passato, con la formazione, con la felicità, con le ferite.
«Non è facile, l’adolescenza: periodo di dubbi, fatiche, ansie»: il suo è altresì un romanzo di formazione. Tra le pagine si desume la timidezza, la ritrosia, il tormento e la ribellione adolescenziale. Quali tratti assume la giovinezza nella ricerca di coordinate, d’interpretazioni univoche della realtà, di superamento delle contraddizioni?
L’adolescenza è il territorio del massimo potenziale. La stagione delle promesse, dei sogni, ma anche dell’attraversamento, dall’età dell’inconsapevolezza all’età adulta, che richiede scelte, decisioni, responsabilità. Mi piace raccontare gli anni dell’adolescenza, per la qualità dello sguardo, proteso verso i futuri possibili, ma anche per le trappole, le insidie, che li rendono belli e pericolosi.
«Un senso improvviso di inadeguatezza, un’angoscia piccola e subdola, si impossessava dei pensieri. Per tutta la vita si era protetto dal dolore, questa è la verità». Il dolore come condizione ontologica all’essere umano?
Non è un paradigma. Indubbiamente per Stefano Sartor, il protagonista de Le nostre vite, il rapporto con il dolore, o con la paradossale assenza dello stesso, è la linea esistenziale, e narrativa, che si tende, dalla prima all’ultima pagina.
Stefano e Anna si attirano, si bramano, si amano, si rifiutano, si dileguano. Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione, narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di scrivere?
Sartre diceva che il lettore è coautore dell’opera, quindi leggo con molto interesse la sua interpretazione del rapporto tra Stefano e Anna. Sicuramente non si può scegliere di amare, così come non si può prevedere la felicità. Entrambi sono inciampi inattesi dell’esistenza. Per quel che mi riguarda, io scrivo sempre seguendo l’urgenza, mai per contratto. Ecco, scrivere storie, sì, mi rende felice.
Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
É doppiamente rischioso rispondere alla sua domanda. Primo perché l’analisi di un passaggio storico chiede distanza, una lucidità che solo il tempo consente di acquisire. Secondo perché io stesso sono chiamato in causa, dalla sua domanda, come uno degli attori che si muovono in questo passaggio. Lo stesso concetto di popolo, di cui scrive De Santis, mi pare messo in crisi dalla nuova velocità, dalla globalizzazione, da un differente senso di appartenenza. Quello che significherà la scrittura in questi anni lo potranno dire soltanto i prossimi anni.
La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?
Posso solo dire che sono un lettore da sempre attento alla cosiddetta scrittura femminile. Dico cosiddetta perché trovo questa una definizione limitativa, persino sciocca. Io sono incuriosito, interessato, appassionato, attratto dalla scrittura delle donne. Mia madre era una scrittrice, ho amato moltissimo i suoi romanzi. La scrittura che ritengo più alta nel secolo scorso è quella di una donna: Virginia Woolf.
Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Chi scrive oggi si è formato in un mondo di informazioni plurali, la matrice non è più soltanto la parola, ma anche il suono, le immagini, i dati, la velocità. Credo che la scrittura, nella sua produzione più virtuosa, andrà nella direzione di una felice contaminazione dei segni, delle storie, delle vite.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. Quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?
In generale sono attratto dalle letterature straniere, dalla scoperta dei mondi, dalla possibilità di ritrovare, nella diversità, un sentire comune, un’emozione condivisa. Ho letto Cioran e la Müller, la sua sollecitazione mi consentirà di approfondire anche gli altri. Grazie.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII) |
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