Simone Weil e la filosofia della resistenza. Dialogo con Francesca R. Recchia Luciani «Sono passati circa duemilacinquecento anni da quando in Grecia si scrivevano bellissimi poemi. Ormai, a leggerli, sono quasi soltanto coloro che si specializzano in questo studio, ed è un peccato. Perché questi antichi poemi sono talmente umani da essere ancora molto vicini a noi e possono interessare tutti. Sarebbero persino molto più commoventi per quanti sanno che cosa significhi lottare e soffrire, piuttosto che per coloro che hanno trascorso la loro vita tra le quattro mura di una biblioteca». Sono testi destinati a un giornale di fabbrica. Simone Weil credeva fermamente nella possibilità di educare gli operai e le operaie alla bellezza, e a questo fine riteneva che l’incontro con la poesia classica e con l’antica sapienza greca si sarebbe rivelata per loro una fonte straordinaria di idee e pensieri di libertà e di emancipazione dall’oppressione. La condizione operaia, connotata dalla subalternità e dalla schiavitù che obbligano questi esseri a un’esistenza infelice, può, secondo lei, essere contrastata solo con il sapere e la bellezza. Antigone, Elettra e Filottete possono essere interpretate quali opere paradigmatiche della resistenza all’oppressione esercitata dal potere? In particolare, questi tre poemi tragici rappresentano per Weil esempi archetipici del dissidio, del contrasto che giunge sino alla battaglia per la sopravvivenza tra l’individuo e il potere costituito, tra il singolo e la collettività, tra l’io e i più. Inoltre, poiché lei credeva fermamente nella potenza individuale (incarnata da Antigone) rispetto all’oppressione sociale (rappresentata da Creonte), vede nelle eroine e negli eroi tragici modelli esemplari di resistenza da offrire a chi rischia di soccombere alle forme di sopraffazione che la società esercita sui singoli, compresa la schiavitù del lavoro di fabbrica. Per lei la giustizia è una virtù soprannaturale che assai di rado prende corpo nell’apparato dei diritti e delle leggi. Come si ribalta la prospettiva di un lavoro degradante consci che in fabbrica «si sperimenta, molto più che altrove, quell’avvilente annullamento della facoltà del pensiero che, proprio in virtù dell’equazione tra esseri umani ed essere pensanti, costituisce basilare esperienza di de-umanizzazione»? Far conoscere Antigone o Elettra e le loro storie corrisponde per Weil alla possibilità di alimentare un pensiero, attitudine umana per eccellenza, che invece l’atmosfera della fabbrica – il suo frastuono, la sua velocità, i suoi ritmi alienanti, i gesti meccanici e ripetitivi –, inibisce completamente e annulla. Se la catena di montaggio abbruttisce gli esseri umani perché li induce a smettere di pensare, la conoscenza delle tragedie classiche opera esattamente in senso inverso: induce idee e pensieri che alimentano l’essenza stessa della natura umana con il fuoco della loro bellezza e con l’intensità dei valori che risvegliano. Nell’introduzione lei dispone i testi in dialogo con lo stesso compito dell’essere filosofa per Weil. Ebbene, qual è il dovere di una filosofa rispetto al presente e alla materialità? Simone Weil è la filosofa della vita concreta, è una pensatrice appassionata di realtà, affamata di cose vere e presenti, «portatrice d’acqua», cioè di significati importanti per l’esistenza. Si pensa spesso alla filosofia come l’ambito dell’astrazione, ma io condivido con Simone Weil l’idea che il compito principale della riflessione filosofica sia quello di avere presa sulla realtà, di impegnarsi a comprenderla, di prospettare i cambiamenti delle situazioni che invece di favorire la crescita umana producono umiliazione, violenza e inumanità. La filosofia è esercizio di comprensione e trasformazione, professo quella che Michel Foucault ha definito «ontologia del presente». Cosa significa l’atto del resistere, del non capitolare, sia parimenti nell’assoluta solitudine, prima ancora che il discorso divenga collettivo? Oggi resistere è un atto necessario. Il momento che stiamo vivendo è tragico, la percezione della vulnerabilità e della fragilità dell’esistere è condivisa, ma non per questo meno drammatica. La pandemia mostra a tutti e a tutte che siamo interconnessi e interdipendenti. Ecco perché è difficile immaginare la resistenza come un atto esclusivamente individuale, anche se Weil ne difende tale valenza eroica, Arendt diceva che la disobbedienza civile è un atto individuale che ha valore collettivo, e questa è l’idea di resistenza che oggi occorre. Vale a dire, anche quando la percezione è quella di un agire individuale, il potere lo si contrasta soltanto con atti sociali, con alleanze tra persone diverse, con accordi plurali che si armonizzano per favorire il cambiamento. Il gesto forte della singola individualità deve accompagnarsi a movimenti di gruppi e collettività che perseguono l’obiettivo di un bene comune, di un miglioramento che riguardi la vita di tutti e tutte.
A cura di Giusy Capone Profilo bio-bibliografico Francesca R. Recchia Luciani è docente di Filosofie contemporanee e saperi di genere presso l’Università di Bari Aldo Moro. Ha scritto saggi e monografie su Max Weber, Ludwig Wittgenstein, Peter Winch, Hannah Arendt, Primo Levi, Günther Anders, Simone Weil e il manuale (curato con A. Masi) su Saperi di genere. Dalla rivoluzione femminista all’emergere di nuove soggettività (2017). Dirige la collana della casa editrice il melangolo Xenos. Filosofia, fenomenologia e storia dell’alterità e co-dirige «Post-Filosofie. Rivista di pratiche filosofiche e di scienze umane». Responsabile della Linea d’azione sulle questioni di genere di UniBA, è coordinatrice del Centro Interdipartimentale di Studi sulle Culture di Genere CISCuG-UniBA e dirige il Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, ambito di ricerca, approfondimento e disseminazione dei temi legati alle soggettività femminili e alle trasformazioni delle identità sessuali e di genere, giunto, con cadenza annuale, alla IX edizione (2020). Dopo aver curato la raccolta di saggi di Jean-Luc Nancy intitolata Del sesso (2016), ha di recente co-tradotto, introdotto e curato l’ultimo libro del filosofo strasburghese pubblicato in italiano Sessistenza (2019), oltre a saggi e interventi sulla violenza di genere. Coordina lo Short Master dell’Università di Bari su Teoria e didattica dei diritti delle differenze la cui III ed. si è svolta nell’A.A. 2018-19. Altro suo ambito prevalente di ricerca da vari anni è l’ermeneutica della Shoah che coltiva sia organizzando ogni anno il Corso di Storia e Didattica della Shoah presso l’Università di Bari, giunto già alla VIII edizione, sia attraverso varie pubblicazioni: ha tradotto e curato il libro di Joža Karas, La musica a Terezín 1941-1945 (2011); nel 2007 ha curato, con F. Fistetti, il volume collettaneo H. Arendt. Filosofia e totalitarismo; nel 2013, con L. Patruno, la raccolta di saggi Opporsi al negazionismo. Un dibattito necessario tra filosofi, giuristi e storici; nel 2014 e in nuova edizione nel 2015 ha pubblicato La Shoah spiegata ai ragazzi; nel 2016 ha curato con C. Vercelli il volume collettaneo Pop Shoah. Immaginari del genocidio ebraico. La sua ultima pubblicazione è Il racconto della Shoah per il XXI secolo. Testi, testimonianze, film, Progedit, 2020. |