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Intervista all’artista Franca Lanni, a cura Maurizio Vitiello
Franca Lanni è nata a Città della Pieve, in provincia di Perugia; vive e lavora a Napoli. Ha insegnato Discipline Pittoriche in vari Licei Artistici e Istituti d’Arte e Teoria della Percezione e Psicologia della forma presso l’Accademia delle Belle Arti di Nola. Ha operato come regista, scenografa, pittrice digitale e performer.
Ha partecipato a numerose collettive nazionali e internazionali. Tra le collettive nazionali più importanti segnalo la partecipazione alla 52° Biennale di Venezia con Camera 312 promemoria per Pierre e, sempre a Venezia presso Cà Zanardi, la mostra Padiglione Tibet.
Tra le collettive internazionali più importanti ci sono quelle al Complesso di S. Andrea al Quirinale a Roma, al Palais de la Découverte a Parigi, alla Picture Gallery di Novosibirsk, alla The Millennium Art Collection in Amsterdam e alla Galleria G.A.S. Station di Berlino. Tra le personali più significative c’è quella dedicata agli HIKIKOMORI inaugurata presso l’Accademia delle Belle Arti di Nola e, successivamente, portata a Milano presso le Biblioteche Sant’Ambrogio e Chiesa Rossa e, sempre a Milano, Trappole d’amore presso la Biblioteca Gallaratese.
Sue opere sono presenti in collezioni private e museali come nella Pinacoteca Comunale di Sant’Arpino (CE), nel Museum in Motion di San Pietro in Cerro (PC), nei Musei Civici di Albano Laziale (Roma), nel CAM - Contemporany Art Museum di Casoria (NA), nel PAN - Palazzo delle Arti di Napoli.
Gli è stato dedicato il capitolo Ingannare il computer nella Tesi di Laurea in Storia dell’Arte Contemporanea e Moderna dell’Università Federico II di Napoli: La Computer Art, relatrice prof.ssa M.A. Picone, Candidata A. Farinaro (anno accademico 1999/2000).
Franca, puoi segnalare il tuo percorso di studi?
Sono in possesso della maturità artistica 2° sezione e ho frequentato per un anno la Facoltà di Architettura di Napoli. Ho seguito successivamente corsi della Facoltà di Psicologia e presso Istituti privati di Psicologia che mi hanno dato titoli per lavorare, per tre anni, come operatrice allo sportello di «Primo Ascolto Psicologico» presso l’Istituto Statale d’Arte Filippo Palizzi di Napoli.
Puoi raccontare i desideri iniziali e i sentieri che avevi intenzione di seguire?
Inizialmente pensavo di dedicarmi alla scrittura, ho scritto poesie delle quali due hanno vinto un Concorso Nazionale e sono state pubblicate nel libro Gioco di immagini da Gabrieli Editore di Roma (1971). Tra i miei scritti più recenti vi sono tre favole, vincitrici di un Concorso Nazionale, e pubblicate nel volume n. 4 della Collana «Vele», edizioni Dantebus di Roma (2021).
Ma insieme al mio desiderio di scrivere ho sempre custodito dentro di me un altro sogno, la pittura. Mia madre dipingeva ed era molto brava, soprattutto nei ritratti, così anch’io ho iniziato a dipingere piccoli quadri ad olio, in genere nature morte, ma frequentavo la scuola magistrale e sarei diventata una maestra. Sognavo un giorno di poter avere uno studio tutto mio, dove scrivere e dipingere, ma i miei sogni svanirono presto, sfigurati dalle vicende della vita.
Quando è iniziata la voglia di ‘produrre arte’ e poi ‘digital art’?
Avevo 15 anni quando andai a vivere a casa della sorella di mia madre, moglie del grande pittore Raffaele Lippi: ebbi così l’opportunità di continuare a dipingere, questa volta all’ombra di un grande maestro. Fu, infatti, Lippi a suggerirmi di lasciare la scuola magistrale, e con la sua preparazione superai l’esame di ammissione al liceo artistico di Napoli e mi iscrissi al primo anno.
Sono stati anni vissuti alla luce di tutto quanto ho potuto assorbire dagli insegnamenti del mio maestro, dipingendo nel suo studio e maturando nuove esperienze e nuovi stimoli a continuare. Ho amato la pittura di Lippi che qualcuno ha definito «il pittore del dolore», e forse devo a lui che le mie opere sono divenute nel tempo un viaggio visionario dove le immagini sono espressione e metafora delle inquietudini esistenziali, mentre lo sguardo precipita nell’ombra, là dove corpo e anima calpestano lo stesso territorio, hanno la stessa voce, al di là dei codici che ne sanciscono la separazione.
Nel 1963, abbandonai la casa dei miei zii ma continuai a dipingere e a scrivere. È stato poi nel 1999, che dopo anni di pittura ad olio su tela, la mia ricerca si è orientata verso una nuova ‘action painting’, e ho scelto il computer come mio compagno di viaggio, iniziando così un percorso a me ancora sconosciuto.
Nella pittura tradizionale è l’artista che con le sue mani scava nei colori, nelle luci, nelle ombre, finché la materia non prende forma e si racconta: anch’io ho vissuto questa straordinaria avventura della manualità in un poetico monologo, ma nella mia esperienza del digitale il mio monologo è divenuto un dialogo, io con il mio sguardo sul mondo e il computer con i suoi epigrammi che ho dovuto imparare a conoscere e gestire, consapevole di lavorare sempre al limite tra la realtà e la finzione.
La creazione e la manipolazione di immagini al computer danno vita, come dice Paolo Rosa, a una sorta di «pensiero visivo» in grado di attraversare spazi sconosciuti e incommensurabili, altrimenti impercorribili.
Ancora oggi mi affascina come nella mia nuova ‘action painting’ si dilati non solo lo spazio in cui creare, ma la stessa creatività che può raggiungere e superare nuovi e sconosciuti orizzonti; mi stupisce osservare come attraverso la contaminazione digitale le immagini vivono la smaterializzazione per poi ritornare corpo reale, espressione concreta di un universo dove realtà e virtualità hanno vissuto insieme straordinarie articolazioni dialettiche, dando vita così a un’opera completamente trasformata nelle sue accezioni sia percettive che concettuali.
Io che creo attraverso la pittura digitale so che le tecnologie digitali non rappresentano solo una sostituzione agli strumenti tradizionali, ma danno vita a un ‘opera in cui l’artista non è solo, ma lo strumento tecnologico lo accompagna con la sua intelligenza e il suo linguaggio con il quale l’artista deve costantemente confrontarsi. Da tutto ciò possiamo affermare che le nuove tecnologie ci hanno condotti verso una nuova visione del mondo e della realtà che ci circonda.
Mi puoi indicare gli artisti bravi che hai conosciuto e con cui hai operato?
L’unico grande artista con cui ho operato che rappresenta ancora oggi il mio riferimento è mio zio Raffaele Lippi che per me ancora oggi rappresenta un artista a cui guardare non solo con ammirazione ma con condivisione; anche se non ho imitato la sua pittura, e la tentazione è stata davvero grande, anche se ho imboccato altri sentieri è ancora vivo in me il ricordo di tutto quanto mi ha donato, non solo nella pittura, ma nella vita.
Ricordo la sua libreria con tanti libri che spesso abbiamo commentato insieme, la sua fede politica che lo ha portato a rivolgere il suo sguardo al dolore e alla solitudine dell’uomo contemporaneo, e io, anche se non ho mai imitato la sua pittura, so di avere rubato dal suo cuore quella carica di umanità e di drammaticità, caratteristiche della sua arte, dove non c’è spazio per la gioia e non c’è tempo per l’abbandono. Ed ecco che oggi io mi racconto, oltre le false verità, scavando e graffiando nei colori e nell’anima.
Quali sono le tue personali da ricordare?
Le mie personali da ricordare sono le quattro mostre che ho dedicato, in questi ultimi anni, alle nuove dipendenze. La prima dedicata agli HIKIKOMORI e le altre dedicate alle dipendenze da Internet, alle dipendenze dai siti pornografici e alle dipendenze affettive. Queste personali sono da ricordare perché hanno avuto una grande partecipazione di pubblico e rappresentano per me le prime tappe di un viaggio non ancora concluso. Ho anche realizzato un video dedicato agli Hikikomori.
Puoi precisare i temi e i motivi delle ultime mostre?
L’autoreclusione degli adolescenti, le dipendenze da Internet, dai siti pornografici e le dipendenze affettive, queste le problematiche alle quali ho voluto dare un volto. Le mie opere rappresentano alcuni degli aspetti più devastanti del nostro tempo, il racconto di quelle inquietudini appaiono come espressione di una società depauperata dei suoi valori più significativi e profondi. Le mie opere vogliono essere un grido di dolore, un invito a guardare con maggiore attenzione a tutto ciò che ci accade intorno, prima che sia troppo tardi.
Ora, puoi specificare, segnalare e motivare la gestazione e l’esito delle personali che hai concretizzato e delle esposizioni, tra collettive e rassegne importanti, a cui hai partecipato?
Per me l’arte è ancora oggi un attraversamento, che vuol dire creare esplorando tutto quanto si cela in quell’universo dove annegano le nostre speranze tradite e i nostri sogni svaniti, le nostre inutili attese scavando nel buio alla disperata ricerca di quei pezzi di vita sputati dal tempo. Le mie opere vivono un continuo rimando tra vissuto e memoria, divenendo esse stesse immagine delle nostre città caotiche e della nostra realtà in continua trasformazione, dove tutto diviene presto oggetto di scarto.
In questa nuova realtà contemporanea è facile vedere come ciascun contatto, come afferma Bauman, è «liquido». È stato nella consapevolezza e nell’analisi degli aspetti più devastanti della realtà che ci circonda che il mio sguardo, prima rivolto alla natura e al bello, ha imboccato il sentiero di un percorso visionario, indagando le vite vissute, sofferte e le vite negate. Da questa consapevolezza sono nate le mie ultime personali che rivolgono lo sguardo dalla sindrome Hikikomori per giungere poi alle nuove dipendenze.
Le mostre hanno avuto sempre un grande successo e una grande partecipazione di pubblico: io che ho voluto nella mia vita sempre esplorare i sentieri della sofferenza, che ho voluto conoscere e a volte vivere in quelle realtà spesso rifiutate e emarginate, desidero raccontarle ancora in quell’arte che, quando diviene attraversamento, è una esperienza straordinaria, dolce e sconvolgente, perché sa essere insieme poesia e smarrimento.
Dentro c’è la tua percezione del mondo, forse, ma quanto e perché?
Le mie opere sono tutte frutto del mio sguardo sul mondo, sempre attenta al dolore, al disagio. Io amo la natura, mi sarebbe piaciuto dipingere gli alberi nella loro stupefacente bellezza, ma ho preferito dipingere «L’albero che non c’è», tutt’altro che bello, come deformato e scolorito dal nostro disamore. Ecco che la mia percezione del mondo è quella di chi si sente derubato di tutti quei valori sui quali ha costruito tutta la sua vita e di chi sente di vivere in una società matrigna, che alleva nel suo grembo il male di vivere.
L’Italia è sorgiva per gli artisti dei vari segmenti? La Campania, il Sud, la «vetrina ombelicale» milanese cosa offrono adesso?
Oggi l’arte vive una profonda crisi di identità. Ma vedo nel mondo dell’arte un grande fermento che, anche attraverso linguaggi stupefacenti e a volte provocatori, va verso la ricerca di nuovi orizzonti. In Campania e a Napoli, in particolare, vivono oggi più che mai le contraddizioni di sempre, tra la sopravvivenza del passato, custode dei vecchi valori, saturi di tutte quelle ferite mai rimarginate, e la spinta verso la ricerca, come tutti, di una nuova identità.
Oggi vedo un fermento e una ricerca nell’arte come non mai e sono certa che, in particolare, noi artisti campani, con tutto il nostro carico di quei vecchi valori di cui non abbiamo ancora del tutto decretato la morte, valori che ci avvicinano e ci allontanano, continueremo a operare con quella rabbia e con quell’amore che ci contraddistinguono, anche se il passato morde ancora rabbioso il presente.
Quali piste di maestri hai seguito?
Mio zio Lippi diceva che le mie tele dipinte a olio ricordavano Max Ernst, ma io ho sempre rifiutato «le copie», ho sempre cercato di creare un sentiero tutto mio da percorrere e oggi so di esserci riuscita. Non ho seguito nessun maestro se non Lippi che mi ha insegnato a guardare il mondo e raccontare senza false verità. Oggi gli artisti che operano con nuove tecnologie sono i miei riferimenti.
Pensi di avere una visibilità congrua?
Lavoro da tantissimi anni, ma con poca visibilità: a Napoli sono poco conosciuta e spesso ignorata. Mi duole dirlo, ma quando mi sono presentata a Milano, la mia ricerca e i miei lavori sono stati subito accolti dandomi spazi espositivi gratuiti, senza alcuna difficoltà. Successivamente, ho avuto anche la straordinaria opportunità, da parte della sociologa Valentina Di Liberto, di vivere una settimana con un gruppo di Hikikomori, ragazzi autoreclusi in cura presso una struttura milanese. Questa esperienza è stata determinante, perché mi ha portato a vivere in una realtà da me conosciuta solo attraverso i libri e le conferenze. Cosa voglio dire? Voglio dire che io continuerò a lavorare, continuerò la mia ricerca e anche se rimarrò sola… avrò sempre accanto a me il mio computer.
Quanti «addetti ai lavori» ti seguono?
Mi seguono tutti coloro che si interessano alle mie opere e al mio percorso artistico, alcuni critici hanno scritto di me, altri mi hanno dedicato qualche pagina del loro libro, ma chi ha parlato di me, raccontando delle mie esperienze di arte nel sociale è Stefano Taccone, che nel suo libro La cooperazione dell’arte (ed. IOD, 2020) mi ha dedicato 20 pagine. Forse, leggendo quelle pagine si può con maggiore chiarezza comprendere come la mia avventura nell’arte rappresenti un costante sguardo al disagio, al dolore. Come ho detto, tutto quanto giace inchiodato alle ali dell’inquietudine.
Quali linee operative pensi di tracciare nell’immediato futuro?
Io ho intenzione di continuare il mio viaggio nel disagio e nel dolore, mi interessano le dipendenze, perché drammatiche espressioni di una realtà tra le più devastanti di una società in cui vi è la costante presenza del dolore, non quello disperso nella nebbia, ma quello ancora lucido, provocatorio, che si perde nel rumore del silenzio e in un vuoto infinito.
Pensi che sia difficile riuscire a penetrare le frontiere dell’arte? Quanti, secondo te, riescono a saper ‘leggere’ l’arte contemporanea e a districarsi tra le ‘mistificazioni’ e le ‘provocazioni’?
Nei secoli passati l’arte ha vissuto momenti di ricerca, di innovazione, a volte di negazione del passato, mentre l’arte contemporanea è caratterizzata da continue trasformazioni; costretti a vivere in un ambiente completamente trasformato dall’uomo, abbiamo modificato il nostro modo di percepire ancor prima del nostro modo di rappresentare.
Oggi l’arte vive tra la memoria del passato e le provocazioni del presente: qualcuno ha detto che l’arte oggi è inutile, perché lontana da un dialogo con un pubblico al quale si rivolge con un linguaggio incomprensibile.
Oggi, il linguaggio artistico, anche per l’avvento delle nuove tecnologie, viene letto e valutato in primo luogo dagli addetti ai lavori, lasciando il pubblico sempre più solo dinanzi a un’arte che vive oggi, forse la sua più grande crisi di identità. Rimane la speranza che maturi quel tempo che, ricordando Bruno Zevi, «fa della crisi un valore».
I ‘social’ t’appoggiano, ne fai uso quotidiano?
I social sono un valido mezzo di comunicazione, attraverso il quale si dialoga e spesso si trasforma in uno spazio nel quale si può rendere visibile il proprio percorso artistico. Non ne faccio un uso quotidiano.
Con chi ti farebbe piacere collaborare tra critico, artista, art promoter per metter su una mostra o una rassegna estesa di artisti collimanti con la tua ultima produzione?
Vorrei partecipare a una collettiva insieme ad artisti digitali e collaborare con vari critici di livello nazionale e con Maurizio Vitiello, perché con le sue competenze frutto della sua cultura, ma, soprattutto, delle sue capacità critiche, riesce nei suoi interventi e nella sua ricerca ad andare ‘oltre’ le consuetudini, senza quelle inutili parole sentite e risentite, che alla fine rischiano di non significare nulla.
Perché il pubblico dovrebbe ricordarsi dei tuoi impegni?
Perché la mia ricerca abbraccia tutte le problematiche più dolorose del nostro tempo, con particolare attenzione alle nuove dipendenze: ciò che io racconto nelle mie opere è patrimonio di tutti, le mie personali sono molto significative del mio percorso di ricerca e vanno dalle dipendenze da Internet alle dipendenze affettive, alle dipendenze dai siti pornografici, senza dimenticare la mia personale sulla sindrome Hikikomori. Cosa voglio dimostrare? Che siamo tutti figli di una società matrigna, che alleva nel suo grembo «il male di vivere».
Pensi che sia giusto avvicinare i giovani e presentare l’arte in ambito scolastico, accademico, universitario e con quali metodi educativi esemplari?
Nelle scuole si parte dall’arte antica e si arriva, solo a volte, all’arte moderna, mentre viene quasi del tutto ignorata l’arte contemporanea. Oggi i giovani sono quasi completamente disinteressati all’arte, quell’amore che ha caratterizzato la mia generazione appare oggi sfigurato da un vuoto che non è solo culturale, ma una voragine in cui sono annegati tutti quei valori, che hanno dato un senso alla nostra arte e alla nostra vita.
L’arte nelle scuole dovrebbe occupare un posto più significativo, e sarebbe molto interessante portare le lezioni di storia dell’arte contemporanea nei musei, guardando le opere non su pagine di un libro, ma dove, per esempio, le dimensioni sono reali, perché anche questo non è un aspetto marginale. Sarebbe, davvero, molto interessante anche se alle lezioni di arte contemporanea partecipassero gli artisti e parlassero delle loro opere e del come e del perché l’arte deve ancora continuare a esistere. Questo è il mio pensiero.
Prossime mosse, a Londra, Parigi, NY ...?
È tutto in costruzione e il cantiere è sempre aperto.
Che futuro prevedi nel post-Covid-19.
Io più che prevedere, mi auguro che si torni presto alla cosiddetta normalità.
Franca Lanni
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A cura di Maurizio Vitiello
(n. 4, aprile 2022, anno XII)
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