Con Federico Sanguineti sul linguaggio di Dante

Pensando al Centenario del ’21, nei quattordici brevi anzi brevissimi capitoli del suo libro Le parolacce di Dante Alighieri (Tempesta Editore, 2021), Federico Sanguineti affronta apertamente il problema, qui colto in vari aspetti, di come Dante, accanto alle parole, non esiti a usare parolacce come «merda», «puttana» e così via, che han precisa fonte nella Bibbia. Ma accanto a parolacce dell'Autore si aggiungono parolacce dei copisti: in un mix di parole e parolacce consiste insomma il vertice poetico della letteratura in lingua nostra, un Poema nel quale il sommo Dante si imbatte di continuo nel conflitto fra nobili, borghesi e proletari, che sorge per l’appunto al tempo suo. Leggere Dante significa pertanto entrare in un mondo sconfinato: dall'inferno che è società corrotta in cui la parolaccia è dominante, su fin nel paradiso in cui Beatrice, che è donna in carne e ossa pur nel sogno, assegna in dono a Dante un'altra voce.
Federico Sanguineti è professore ordinario di Filologia italiana all’Università di Salerno. Tra i suoi scritti e curatele dell’opera dantesca si annoverano: Dantis Alagherii Comedia, edizione critica per cura di Federico Sanguineti, Tavarnuzze (Firenze), Edizioni del Galluzzo, 2001; Dantis Alagherii Comedia. Appendice bibliografica 1988-2000, per cura di Federico Sanguineti, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005; Paradiso I-XVII. Edizione critica alla luce del più antico codice di sicura fiorentinità, a cura di E. Mandola, premessa di F. Sanguineti, Il Nuovo Melangolo, 2018; Paradiso XVIII-XXXIII. Edizione critica alla luce del più antico codice di sicura fiorentinità, a cura di E. Mandola, premessa di F. Sanguineti, Il Nuovo Melangolo, 2019; Inferno. Edizione critica alla luce del più antico codice di sicura fiorentinità, a cura di F. Sanguineti, premessa di E. Mandola, Il Nuovo Melangolo, 2020; Le parolacce di Dante Alighieri, di F. Sanguineti, introduzione di M. Ovadia, Tempesta Editore 2021.
È di prossima pubblicazione Purgatorio. Edizione critica alla luce del più antico codice di sicura fiorentinità, a cura di F. Sanguineti, premessa di E. Mandola, Il Nuovo Melangolo.


La lingua dantesca nelle sue peculiarità fonomorfologiche, in assenza di documenti autografi, va ricreata. Giudica che il testo dell’opera così come lo leggiamo oggidì sia realmente corrispondente alla lingua del Sommo Poeta?

Si tratta di un incredibile paradosso: da un lato, in assenza di autografo, la lingua di Dante è «inattingibile nella sua verità ultima», come ha scritto con chiarezza Giovanna Frosini nella sua Storia dell’italiano; e, dall’altro, si continua a etichettare Dante come «padre della lingua». Dietro questa etichetta c’è del vero, bisogna pur dirlo, perché l’italiano è diventato una lingua materna solo in tempi relativamente recenti, quando radio prima e televisione dopo hanno avuto un ruolo decisivo nell’unificazione linguistica del Paese. Se penso, per esempio, a mia madre, ricordo di lei più il dialetto che l’italiano. Detto ciò, a partire dal 1966-1967 si legge Dante nell’Edizione Nazionale curata da Giorgio Petrocchi: un lavoro filologico che, a mio modesto parere, è significativo per due motivi: primo perché, per la sostanza del testo, resta da correggere ben poco (o, altrimenti detto, si può far ben poco di meglio); secondo perché, per il colorito linguistico, ha dato un credito relativamente limitato al Trivulziano 1080, un codice datato 1337-1338 e firmato da Francesco di ser Nardo da Barberino, che purtroppo presenta linguisticamente tratti fonomorfologici antifiorentini (orolosio, preghirà, ecc.). Oggi sappiamo che numerosi manoscritti, e più di tutti il Laurenziano Pluteo XL 12, si avvicinano alla lingua del tempo di Dante molto più del Trivulziano 1080. Eppure, incredibilmente, per il settimo centenario della morte, cioè per quest’anno (2021), si prevede una nuova Edizione Nazionale che, anche solo per il fatto che si presenta come linguisticamente fedele al testo di Francesco di ser Nardo, costituisce un clamoroso passo indietro rispetto al lavoro di Giorgio Petrocchi.

Dante adopera un linguaggio di verità: bello, brutto, maestà e squallore, operosità e rassegnazione, meraviglia e mistero coabitano, s’annodano e si arruffano. La modernità di Dante sta nel concedere al lettore di scoprirsi tra le terzine delle Cantiche?

Lei mi chiede se Dante è moderno. In quello che noi chiamiamo medioevo la gente era convinta in realtà di vivere, come ha spiegato Etienne Gilson, in piena modernità, in pieno saeculum modernum. La storiografia borghese oggi distingue antichità, medioevo ed età moderna; ma l’idea di medioevo è puramente ideologica: il medioevo non è mai esistito. È esistito invece il modo di produzione feudale, all’interno del quale, proprio ai tempi di Dante, inizia a svilupparsi il modo di produzione capitalistico. Ciò che ci lega a Dante è il fatto che egli vive l’orrore senza fine della nascita del capitalismo, mentre noi ci troviamo nel momento in cui il capitalismo, una volta globalizzato, annuncia la sua fine piena di orrore. Dante è un discendente della piccola nobiltà feudale che, con la vittoria a Firenze della borghesia, si trova in esilio nella condizione di un proletario costretto a migrare. Il suo viaggio comporta tre tappe: l’Inferno, cioè la società corrotta composta da borghesi inguaribili, il Purgatorio società in transizione composta da borghesi in terapia, e il Paradiso società ideale, senza più proprietà privata, composta da individui in piena salute.

Dante, accanto alle parole, non esita a usare parolacce come «merda» e «puttana» che hanno una precisa fonte nella Bibbia. Accanto alle parolacce dell'Autore, poi, si aggiungono le parolacce dei copisti. Dove risiede, a suo giudizio, la ragione politica di tale scelta lessicale?

Dante scrive un’enciclopedia poetica onnicomprensiva: c’è di tutto, e ogni cosa, ogni individuo, è al suo posto. Come ho detto prima: nell’Inferno c’è il linguaggio degradato della borghesia inguaribile, nel Purgatorio si cura anche il linguaggio (ci si avvia a un politicamente corretto) e in Paradiso si parla civilmente. E l’amore, che in Inferno è inguaribilmente borghese (con il linguaggio di amore e morte, pieno di frustrazione e risentimento), in Paradiso è amore liberato: dall’amore fatale (patologico) di Paolo e Francesca, si passa all’amore civile di Dante e Beatrice, che è piacere integrale.

Morale, religione, politica, amore, odio, passioni, vizi, virtù: come far coesistere il messaggio e la visione dantesche con l’umanità divisa e fragile del Terzo Millennio?

Ripeto: ciò che ci lega a Dante è il fatto che egli vive l’orrore senza fine della nascita del capitalismo, mentre noi ci troviamo nel momento in cui il capitalismo, una volta globalizzato, annuncia la sua fine piena di orrore. Nel Poema, la critica alla proprietà privata è esplicita, prima che nel cielo di Giove («e sonar ne la voce e ‘io’ e ‘mio’, / quand’era nel concetto ‘noi’ e ‘nostro’»), al cuore stesso dell’opera, nei capitoli centrali del Purgatorio, per bocca di Guido del Duca: «o gente umana, perché poni il core / ov’è mestier di consorte divieto?». Meglio ancora, nella replica di Virgilio: «Perché s’apuntano i vostri disiri / dove per compagnia parte si scema, / invidia move il mantaco ai sospiri. / Ma se l’amor de la spera suprema / torcesse in suso il desiderio vostro, / non vi sarebbe al petto quella tema; / ché, per quanti si dice lì più ‘nostro’, / tanto possiede più di ben ciascuno, / e più di caritate arde in quel chiostro».

Quanto del turpiloquio della Commedia è rintracciabile in opere precedenti e posteriori? Penso ad Aristofane.

La sua domanda è di grande interesse, ma Dante non conosceva il greco (più che Aristofane, leggeva Terenzio). La cultura greca a Dante giunge attraverso le traduzioni dal greco all’arabo e poi dall’arabo al latino. In tutto il periodo che oggi noi definiamo impropriamente «medioevo», l’Europa intera non è che una periferia del mondo arabo. Ne resta traccia nella nostra lingua di tutti i giorni. Basta aprire un dizionario alla lettera A e Lei trova: a bizzeffe, alambicco, albicocca, alchimia, alcova, alfiere, algebra, almanacco, amalgama, ambra, ammiraglio, arancio, arsenale, assassino, auge, azzurro, che sono tutte parole di origine araba. E se arriviamo alla Z: zafferano, zecca, zenit, zerbino, zero, zibetto, zibibbo, zucchero… anche queste sono parole di origine araba. Parolacce come «merda» e «puttana» vengono invece dal latino e Dante le trova abbondantemente nel latino biblico. Basta aprire a caso la Bibbia (ma chi legge oggi la Bibbia?), ed è quello che ho fatto nel secondo capitolo del libretto, cominciando naturalmente dalla Genesi, e finendo, oltre il vangelo di Luca, con la prima lettera ai Corinzi. Quanto alla letteratura italiana dopo Dante: la presenza delle parolacce è ininterrotta.

Si può affermare che l’Italia sia venuta alla luce anche grazie a una sorta di ʽDantemania’ che ha appassionato l’intelletto e l’animo di innumerevoli giovani tra Settecento ed Ottocento. Dante può essere considerato il nostro autentico Padre della Patria in senso politico?

Se diamo di Dante una lettura borghese è così: il padre della Patria. Ma Dante, quando scrive il Poema, è del tutto apolide: è un proletario migrante e senza patria e senza proprietà. De Sanctis ha cercato gli ideali borghesi nel Poema di Dante e li ha trovati, per esempio, in Francesca da Rimini, «prima donna della nostra letteratura». Benissimo, a patto però di ricordare che Francesca da Rimini è per Dante un caso patologico. Perché patologica è l’incontinenza: gli incontinenti, spiega Aristotele nel VII libro dell’Etica a Nicomaco (che Dante leggeva in latino da una precedente versione araba), parlano ma senza sapere quello che dicono: possono citare, poniamo, versi di Empedocle, ma non ne capiscono il senso. Sono come attori di teatro: così è Francesca che cita Guinizzelli (senza capirlo) e fa riferimento al bacio fra Lancillotto e Ginevra senza comprendere in alcun modo che nel romanzo cortese è una donna aristocratica, una regina, che prende l’iniziativa di baciare un cavaliere, mentre nella vita borghese una donna che assume l’iniziativa di un bacio è piuttosto una puttana. Così Francesca, per presentarsi come una signora borghese agli occhi di Dante, dice sciocchezze: fa rifermento al romanzo per giustificare un bacio borghesemente ricevuto da Paolo, che non a caso era stato capitano del popolo (cioè del partito borghese) a Firenze.

Il 2021 celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante in maniera notevolmente articolata e corale, escludendo barriere tra le discipline artistiche e non. Cosa ha rappresentato ed ancora oggi rappresenta Dante?

Dante a mio parere è «nel mezzo del cammino» fra la Bibbia e Marx. L’umanesimo di Dante, dalla Vita nova alla «dolce vita», implica un rapporto non più gerarchico fra femminile e maschile (o, viceversa, fra maschile e femminile); congedati Stazio e Virgilio, il Poeta – nei paradisi terrestre e celeste – assume come guida una donna, da lui amata, lodata e venerata, partecipando per il «mondo felice», attraverso di lei, nella «rosa in che il verbo divino / carne si fece», a un «piacere in atto» erotico e psichico, come insegna Carol Gilligan in The Birth of Pleasure: «eterno piacer», «sommo piacer», «piacer de lo spirito»; e, con fondamento teologico chiarito da Maria Caterina Jacobelli, disserrata la «porta del piacer», «piacer degli occhi belli», «piacer santo», «piacere eterno», «eterno piacere», «piacere uman», «divin piacere» di Beatrice: «piacer,  quanto le belle membra in ch’io / rinchiusa fui».

Qual è la terzina a cui è maggiormente affezionato e perché?

Più che una terzina è per me indimenticabile il verso 101 di Purgatorio XXXII, quando Beatrice dà diritto di cittadinanza al proletario Dante: «e sarai meco sanza fine cive». Nel mondo di oggi, ormai completamente dominato dal modo di produzione capitalistico i cui albori risalgono ai tempi di Dante, dove – dati offerti dalla presidente del Gender group istituito dalla Caritas nel 1999, Anne Dickinson – le retribuzioni femminili non raggiungono in media il 75% di quelle maschili; in cui le lavoratrici svolgono il 70% del lavoro salariato e producono i due terzi della ricchezza mondiale, ricevendo appena un decimo degli introiti disponibili e del reddito complessivo; quando, globalmente, le donne detengono meno dell’1% della proprietà privata del pianeta e costituiscono, ogni giorno di più, la stragrande maggioranza dei poveri fra i poveri, Dante, proletarius non classicus, il più antisublime dei poeti, è nostro contemporaneo: Virgilio cantava armi ed eroi (arma virumque); l’Alighieri, migrante «portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade», exul immeritus, l’opposto, pace e donna. Beatrice come Gesù, più di Gesù, in una teologia della liberazione incentrata su inedita figura Christi, Cristo donna. Teologia anarchica, senza principio, in medias res: «Nel mezzo del cammin…».






A cura di Giusy Capone
(n. 4, aprile 2021, anno XI)